Benedetti, “Un corpo a corpo con la vita, con la lingua”

Tutta una vita per chi vi deve ricordare. Su Tersa morte di
Mario Benedetti

di Massimiliano Mandorlo

Un senso di umile e ostinata accettazione davanti alla morte attraversa Tersa morte di Benedetti, quasi in forma di testimonianza. Fin dall’essenzialità del titolo si possono cogliere i tratti, lucidi e taglienti, di questa sofferta osservazione della vita umana nel suo «continuo affaccendarsi», nei suoi minimi, concreti e dolorosi dettagli: «il malato ai due polmoni / i pantaloni larghi, /il viso con la pelle attaccata alle ossa», «il condizionatore Hisense», «l’abito blu / che mi avevi regalato e tutto il ricamo /del foulard», «la coperta sui piedi», fino ad arrivare a particolari anatomici descritti con nudo realismo: «mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi, / la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti […] Così fragile il tuo sorriso, / lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque». Quello di Benedetti pare essere un corpo a corpo con la vita e con la lingua, nel tentativo di superare una dolorosa impasse in cui riaffiorano con durezza e commozione, senza enfasi od orpelli, i ricordi indelebili di una vita: «Le parole non sono per chi non c’è più. / Si commuovono e possono dire il viso morto. / Gli occhi erano quelli che mostrava, /il vestito sepolto quello visto altre volte. / Vedere che non ci sei più, non dire niente». Continua a leggere

L’uso materico del linguaggio nella poesia di Mario Benedetti

Mario Benedetti, Credits ph. Dino Ignani

Scarto non minimo
di Edoardo Zuccato

 

Commemorare la scomparsa di un poeta è più facile per chi lo ha conosciuto bene di persona, mentre per valutarne l’opera non è detto che ciò sia necessariamente un vantaggio. Ho incontrato solo occasionalmente Mario e l’ho frequentato in prevalenza nei suoi i versi. Non ho quindi ricordi personali da offrire ma solo qualche riflessione critica sulla parabola complessiva della sua opera. Rispetto a Stefano Dal Bianco, l’altro animatore del progetto di rinnovamento poetico elaborato da Scarto minimo negli anni Ottanta, Benedetti ha conservato nella sua poesia più Novecento. Il verso “che si allunga sempre più”, come mi disse lui stesso una volta negli anni Novanta, è collocabile all’interno di una tradizione di spostamento della poesia verso la prosa, nel suo caso provocando un cortocircuito fra forma antilirica e sguardo lirico. Il rasoterra di Benedetti era funzionale al suo sentimento della vita, quella mestizia cinerea che più di ogni cosa rimane addosso a chiunque legga un suo libro. L’orizzontalità del linguaggio è scossa da salti logici, occasionali slogature sintattiche e frammentazione del discorso, tratti stilistici divenuti dominanti nelle ultime due raccolte, che recuperano anche una dose di citazionismo. Frantumazione, balbettii e uso materico del linguaggio, con accumuli nominali e scarsità di verbi, spostano la poesia verso la stasi della pittura, con un solo movimento sotteso, quello verso la mineralizzazione. Continua a leggere

“E stare soli è più grande”

di Giovanni Ibello

 

Si è scritto tanto in queste settimane su Mario Benedetti. Devo dire che ho molto apprezzato la eterogeneità degli interventi proposti su questo spazio ed è bello che il blog “Poesia, di Luigia Sorrentino” su Rai News abbia instaurato un dialogo così fecondo sulla parola di questo autore. Mario Benedetti sapeva individuare con esattezza il confine tra biografia e slancio universale della parola poetica. A mio avviso la sofferenza fu per il poeta non tanto una personalissima trincea esistenziale, come invece è stato scritto nei giorni passati, bensì un prezioso cifrario che gli ha consentito di sondare e decodificare l’umano, sia nelle sue espressioni più elevate che in quelle più misere: la commozione (“E piange la parola che riesce a dire”), il disarmo, la solitudine, lo smarrimento, la metastatica condizione dei fragili, il peso delle cose, “il peso degli oggetti… il loro significare peso e perdita” (come peraltro scriveva Amelia Rosselli in Documento, Garzanti, 1976).

Ha perfettamente ragione Antonio Riccardi quando scrive (in introduzione al volume Benedetti, Tutte le poesie, Garzanti, 2017)  di un poeta “fedele alle cose, soprattutto le più comuni e dimesse”. La poesia di Mario Benedetti, certamente umile e antiretorica, si pone dunque come un atto di conoscenza essenziale della vita, dello smarrimento (come archetipo dell’esistenza) e della morte. Non si può giammai parlare di mero diarismo (a tal proposito è magistrale l’emistìchio “Si diventa altri occhi per morire dovunque”, da Tersa Morte, Mondadori, 2013). Il poeta non fa mai esplicito riferimento alle sue vicende private, ma ci mostra un’umanità desolata (“adesso che piangere è pioggia, / e stare soli è più grande”) e lo fa adottando una sintassi franta e faticosa. Va da sé che in Benedetti la forma esprime anche una co-sostanza del pensiero poetico. Con la sua testimonianza in versi, Benedetti ci confessa che “il poeta da semplice creatura che vive nel mondo diventa colui che crea e rinnova perpetuamente il mondo stesso” (questo l’auspicio di Adonis in La musica della balena azzurra. La cultura araba, l’Islam, l’Occidente, Guanda, 2005). Benché si tratti di un modo di “stare nelle cose della vita” pienamente consapevoli della propria caducità, è curioso che la parola di Benedetti sembra quasi celebrare un’assenza, stringere intime alleanze con un vuoto di parole (che “non sono per chi non è più”) e di interlocutori. Continua a leggere

Umano scarto. La consapevolezza gnoseologica di Mario Benedetti


di Alberto Russo Previtali

La morte di un uomo, come ha insegnato Pasolini, è l’evento finale che ridispone a posteriori gli elementi della sua vita e li fissa in una storia. Nel caso di un poeta, dà una voce definitiva ai suoi versi. La morte di Mario Benedetti, il suo essere tra i fragili sommersi dall’onda invisibile dell’epidemia, è una fine che fa risuonare la sua voce poetica con una tagliente necessità. Nel tempo della catastrofe, che svela a livello planetario la precarietà radicale su cui è costruita ogni vita individuale e collettiva, muore un poeta che ha fatto dell’esplorazione ossessiva di quella precarietà il centro pulsante della sua opera. Per un gioco della storia, Benedetti, poeta dello spaesamento e dell’umano ricercato nell’“umiltà / delle cose minute” in un tempo votato all’efficienza e al calcolo, ritrova, nell’eccezione della catastrofe, una sua impellente giustezza. Ciò accade nel momento in cui sprofonda l’idea stessa di attualità abitualmente intesa, e nella narrazione del quotidiano s’impone una verità normalmente invisibile agli individui rapiti dalla loro vita in società, ridotti nel grande numero ad essere “una cosa, / tante cose animate, un testardo sentire obbligato”.

In diversi luoghi di Tersa morte il poeta mette il dito sulla distrazione degli uomini sprofondati nella loro inautentica quotidianità, nell’impersonalità di “prole serva di vita, superba” assorbita da un irriflesso “continuo affaccendarsi”. Nessun moralismo, nessuna retorica in questa critica che risuona come tale senza intenzione, poiché si dà come riscontro di uno sguardo postosi al di là del commercio delle cose del mondo. Ed è questa la sua forza, lo scaturire da una visione che si pone nell’imminenza di un al di là del presente, di un al di là della parola: “Futilmente presente è la parola, anche questo dire”. Continua a leggere

Testimonianza su Mario Benedetti

Mario Benedetti, credits ph Dino Ignani

Vedere nuda la vita

di Gianluca Furnari

Scrivere di Mario Benedetti è «peso non da le mie braccia», ma accolgo comunque il tuo invito a farlo, per raccontare in poche battute quello che un lettore di poesia della mia età ha cercato e trovato nei suoi versi. Stasera, tornando sulle sue poesie a distanza di tempo, scopro che si è amplificata in me una sensazione che avevo accettato solo in parte durante la prima lettura, cioè la sensazione di essere messo al muro. «E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni, / e una vita così come sempre da farmi solo del male». Sembra inopportuno, di fronte a una lingua così asciutta, parlare di commozione, e in effetti è come se questi versi mi portassero rasente al pianto, mettendomi davanti «nuda la vita», e mi costringessero a non piangere.

Per me che non l’ho conosciuto Benedetti parla solo dalle parole che ha scritto, e dal volto che campeggia sulla copertina dell’edizione Garzanti di «Tutte le poesie». Credo che l’uscita di questo libro sia stata una scossa elettrica per un’intera generazione (la mia) di lettori di poesia. Nessuno degli amici con cui ho tirato le somme, a lettura conclusa, ne aveva ricavato un’impressione tiepida; si era formata intorno a questo libro un’unanimità di sentire che ho visto replicata molto raramente, in seguito.

C’è un ricordo molto nitido che associo alla prima lettura di Benedetti, anzi alle settimane in cui la medicina dei suoi versi aveva cominciato ad agire dentro di me: ero appena uscito da una cerimonia di commemorazione funebre, e il contrasto tra la cupezza dell’ambiente e lo sfarzo della celebrazione deve essere entrato oscuramente in cortocircuito con i versi di Benedetti. Mi sono sentito improvvisamente fuori posto dentro me stesso, tramortito dalla sensazione che la mia vita fosse colpevolmente impastoiata dentro le maglie di una falsa coscienza, di una retorica su me stesso, che le parole di Benedetti avevano appena scoperchiato, additandomi però una strada alternativa, più impervia e più autentica. Non so se ho dato risposta alla domanda di questi versi, ma il loro rigore e la loro umiltà, che sembrano venire dalla mano di un bambino molto severo, mi hanno ricordato quanto sia labile il confine tra una grande avventura estetica e il presagio di una conversione morale. Continua a leggere