Maria Clelia Cardona, “I giorni della merla”

Maria Clelia Cardona, credits ph Dino Ignani

I SEMI DELLA GIOIA

 

La gioia è un campo recintato
dove germogliano semi dispersi –
l’invasiva gramigna delle
menti nostre inebriate, la  malva rosa
che pur ferita dal falcetto svetta,
la campanula azzurra che rampica a terra
e l’ardore del sole in sé chiude.

 

SEMI SMARRITI

 

Trasvolano nella volta notturna della mente
stelle cadenti intorno a un desiderio
che tremola in basso – esile appello –
semi celesti di felicità
smarriti, germoglianti forse altrove
in oltrumano grano bianco.

 

CICLAMINI

 

Come spesso una frana di gran scena, una lite screanzata
fa deviare il corso delle storie. Ci si ritrova
in un cammino cieco, una strada sterrata senza uscita,
invaghiti dall’autunnale, nascosto apparire dei ciclamini –
fiori che vivono vicini, ma ognuno
a sé.
La voce blesa del navigatore avverte: « Errato, errato, tornate
indietro, se potete. Se.».

Da: I giorni della merla, di Maria Clelia Cardona, Moretti & Vitali, 2018 Continua a leggere

Marco Munaro, “Le falistre”

Marco Munaro

Lo senti l’odore fresco nell’erba
premere contro la faccia schiacciata
per terra? Fa male? Prendimi il braccio,
stòrzamelo dietro la schiena
fino a quando se non grido, pietà!

***

Prima di tutto l’odore, di maggio,
e poi magari anche i fioretti, quando
le risa delle bambine feriscono
l’aria e le candele rubate accese
per loro bruciano di desiderio.

La luce monta s’inselvatichisce,
gli uccelli diventano proprio pazzi
come nei libri di lettura, e file
di operose formiche vanno e vengono
verso la dispensa in cucina mentre
ronzano calabroni e coccinelle
e l’erba è alta come in una fiaba.

La notte non verrà neanche stanotte.
La luna è piena e rossa ed il profumo
delle rose stordisce: sei seduto
sulla soglia di casa, insonne, annusa
la terra bagnata nelle mutande

***

Devo uscire – aria invernale
o primaverile ma tersa –
e apparire nell’orto.
Devo sfasciare tutto.

***

Ricorda il male che,
per il tuo bene, ti hanno fatto.

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Una poesia di Mario Benedetti

Per mio padre

Sta solo fermo nella tosse.
Un po’ prende le mani e le mette sul comodino
per bere il bicchiere di acqua comprata,
come tanti prati guardati senza dire niente,
tante cose fatte in tutti i giorni.
Intorno ha una cassettiera con lo specchio,
due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una stufa.
Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo,
un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue.
Davanti il cielo che è venuto insieme a lui,
gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi
e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio di tutto.
A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle,
un respiro che scivolava sui sassi.
A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di lettura
vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria.
A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato
e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose,
gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male. Continua a leggere

Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza”

Vittorino Curci

“Credo che da sempre il principale compito affidato al poeta sia quello di liberare le parole per rigenerare il linguaggio. In questo nostro tempo però il poeta si fa carico di un altro compito, non meno importante: quello di verificare se siamo ancora vivi.”

Vittorino Curci

ESTRATTI

 

Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza” (Prima edizione 2008, I libri di Icaro).
Dalla seconda edizione ampliata dall’autore sono estrapolati  gli ESTRATTI qui pubblicati, (2017 Spagine).
Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri presidio del libro di Lecce.

 

1. I testi necessari

De quoi souffres-tu?
De l’irréel intact dans le réel dévasté.

René Char

Voglio raccontare queste figure. Non posso ignorarle. Sono figure eloquenti, compatte, intrattabili.
La verità della poesia è nel suo farsi confine e legge della sua stessa inutilità.
Il destino e gli sguardi si sono incrociati. Le ferite cantano.
Il poeta è colui che per debolezza o necessità alza lo sguardo, e così facendo si accorge di non avere più le vertigini.

Non sto qui con la faccia da scemo di chi vive in un mondo bellissimo che vorrebbe spiegare agli altri.
Il pianeta è ammalato e altro non ci è dato conoscere che il punto in cui ci troviamo.
Tra le cose più giuste da fare, quell’immergersi e imparare di cui parla Benn nel primo verso di Aprèslude.

Di che soffri?
Dell’irreale intatto dentro il reale devastato.

Parole condotte alla luce, battute sul corpo. I frantumi di un vaso che nessuno può mettere insieme.

“Faccùlo faccùlo” gridò più volte il ragazzo ritenendo che un solo “faccùlo” non rendesse a sufficienza l’idea di quanto fosse arrabbiato.

La stanchezza dei nostri conflitti è diversa. L’irreale ci è scoppiato addosso.
Noi siamo lanciatori di coltelli.

Con Rimbaud e Mallarmé la poesia moderna ha avviato un processo spirituale che non ha precedenti nella storia dell’umanità, una vera e propria rivoluzione incentrata sul linguaggio a cui, per la prima volta, viene data la possibilità di parlare apertamente di se stesso.
Le parole infatti non sono del poeta. Anche se egli arriva al punto di inventarle, esse di fatto non gli appartengono. E allora, se le parole non sono del poeta, di chi sono? Della comunità linguistica cui il poeta appartiene? Oppure dell’umanità nella sua interezza?
Se queste domande hanno senso – e se hanno un senso, indicano una direzione nella quale cercare – io dalla mia esperienza ho imparato che nella vita di ogni giorno si usano le parole per dire qualcosa.

In poesia invece sono le parole che vogliono dire qualcosa. Scrivere poesia perciò vuol dire essenzialmente ascoltare.

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Le poesie in prosa del danese Carsten René Nielsen

Carsten René Nielsen

NOTA DI LETTURA DI DAVIDE CORTESE
(Genova, 2021)

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Leggendo le prose di Quarantuno oggetti di Carsten René Nielsen (Taut, 2021) si ha la certezza di avere sotto al naso uno poeta fiducioso: fiducia verso la propria scrittura, verso la «metafora» che ne comprende l’insieme e anche verso i propri lettori. Fiducioso, sì, però nei confronti di chi scivolerà fra i suoi testi la fiducia non sembra essere riposta nella capacità di un approccio corretto, quanto di seguire in maniera ligia i suggerimenti che l’autore dissemina. Le prose, infatti, sono scritte a testimonianza di se stesso e con un gran da fare di ornamento. La pratica è questa: a partire da un oggetto («cannuccia», «frigorifero», «motosega» ecc.) si costruiscono scene – quasi tutte isometre, suggerendo così l’idea di serie – che ospitano o si deformano fino ad assumere aspetti meccanicamente stranianti.

La scrittura di Nielsen, già pubblicato in Italia nel 2014 per EDB, era stata indicata come un «surrealismo nordico» e, in effetti, scorrendo questi Quarantuno oggetti, non sono poche le volte in cui i poeti del movimento si affacciano. Ma l’autore avverte: le sue prose non hanno «niente a che vedere col surrealismo»; e c’è da credergli: anche se l’ostinata stravaganza dei testi spinge ogni volta a chiedersi il perché di cosa si va leggendo, quella si compie nell’esatto contrario: non indica un sovrappiù soggiacente agli oggetti e nemmeno qualcosa che occhieggia sopito.

Le prose suonano a vuoto. Nessun rimando. Ancora, in un altro testo, Nielsen poggia una mano sulla spalla del lettore e dice (equiparando la «metafora», la sua, a un «tappeto»): «Gli avevo spiegato che le metafore sono, discutibilmente, inevitabili ma che ciò non significa che debba sollevare un angolo per vedere se sia stato spazzato qualcosa lì sotto […] puoi sollevare un angolo […] sotto la metafora c’è solo il pavimento».

L’aspetto generale del libro e l’intento dell’autore sembra essere quello di una provocazione, raggirando il lettore fino al punto in cui tirerà il libro contro al muro: costretto a sfilare davanti a un autoritratto in forma di «poeta» diffuso e rimandato; il prossimo «quadro», la prossima prosa sarà quella decisiva.

Nielsen non lascia nemmeno la costernazione di dover apprendere ciò. Previdente anticipa e suggerisce la più giusta reazione: «per tutto il giorno sta seduto a guardarmi con il suo stanco sguardo malinconico. Sono certo che mi odia. Anch’io farei lo stesso. Sono io, dopotutto, che gli ho dato questo lavoro».

 

ESTRATTI

 

CALZINI

 

Salgo sul podio, avendo questa volta scelto di illustrare scene dalla Bibbia con due marionette fatte con vecchi calzini. È un fiasco tremendo. Vengo chiamato pervertito e blasfemo. Non solo i cardinali, ma anche il papa, usano le peggiori maledizioni contro di me. C’è un bel po’ di distanza tra me e gli spettatori furiosi, ma non riesco a evitare di essere colpito da schizzi di sputo. Rientrato in camera mi faccio la doccia e capisco all’istante come avrei dovuto farlo. Gli arabeschi delle frasi girano lentamente nel mio cranio come giostrine illuminate dai riflettori. Più tardi, mentre la Guardia svizzera fa le sue ronde notturne, sto seduto sorridente sotto il firmamento del gigantesco letto a baldacchino e ricomincio da capo: «Che luce sia», dice il calzino. Continua a leggere