Rilke, “Lettere a un giovane poeta”

Rainer Maria Rilke

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

Nell’autunno del 1902 il giovane austriaco Franz Xaver Kappus viene a sapere dal sacerdote Horaček che l’emergente poeta Rainer Maria Rilke aveva frequentato la scuola militare di Sankt-Pölten, nella quale il sacerdote era stato insegnante di religione.

Dall’Accademia militare di Wiener Neustadt dove Franz Xaver Kappus legge furiosamente i libri rilkiani, il giovane decide di contattare l’autore appena ventisettenne.

Incomincia una corrispondenza epistolare — dal tardo autunno 1902 al 5 gennaio 1909 (la prima e l’ultima sono di Kappus, dieci in tutto le missive del praghese) — che è in realtà la chiarificazione di un magistero poetico tra i più importanti e vivi del Novecento.

Le Lettere a un giovane poeta, pubblicate nel 1929, tre anni dopo la morte di Rilke, sono ora ristampate dal Saggiatore con una bella prefazione di Valerio Magrelli, che chiosa: «Siamo nel cuore della poetica di Rilke, per cui l’amore e la morte sono “compiti, che noi portiamo nascosti e trasmettiamo ad altri senza aprirli”. Nel laborioso movimento della trasformazione in cui il nuovo entra in noi come “un elemento estraneo” o un “ospite”, occorre sempre attenersi al “difficile”, e giungere ad appropriarsene dopo un sofferto itinerario esistenziale».

Kappus apre il suo cuore all’unico possibile amico, al quale riconosce la dignità di mentore, e Rilke sorprendentemente fa lo stesso: non risparmia nulla di sé, delle sue convinzioni letterarie, delle sue preferenze artistiche. Non lesina raccomandazioni, ammonimenti, lui che a quella giovanissima età viaggia per l’Italia e ha già pubblicato una quindicina di opere (!).

 

Mirabile la prima lettera, datata al 17 febbraio 1903, in cui Rilke risponde alla richiesta di un schietto giudizio sulle poesie di Kappus: «Mi chiede se i suoi versi sono buoni. Lo chiede a me. Prima lo ha chiesto ad altri. Li manda alle riviste. Li confronta con altre poesie e si inquieta se certe redazioni respingono i suoi tentativi. Ora — giacché mi ha consentito di darle consigli — la prego di abbandonare tutto questo. Lei guarda all’esterno, cosa che, più di ogni altra, ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consigli e aiuto, nessuno. C’è un unico mezzo. Si immerga dentro di sé. Indaghi la ragione che le impone di scrivere; verifichi se affonda le sue radici nell’intimo del suo cuore, confessi a sé stesso se le toccherebbe morire qualora le venisse negato di scrivere. Soprattutto questo: si chieda, nell’ora più quieta della notte: devo scrivere?». Continua a leggere

Luisa Delle Vedove, “Nella consuetudine del tempo”

LUISA DELLE VEDOVE

I

un silenzio terso
muove dalle pietre
memorie e solitudini,
qui nel greto il vento ha suoni erosi
solo gli animali docili alle tane
si tengono stretti
al senso della pioggia

II

non posso dire delle foglie
dei giri ampi prima del cadere
di quel secco lieve sull’asfalto,
ho visto un ramo tremare
giovane nelle foglie
la luce metterlo in disparte,
come dire “è l’autunno”
ai gridi alti degli uccelli
anche se il morire
è in qualcosa di grande?

III

una nebbia come un’insonnia
si ripete ossessiva,
dico – taci, non chiamare altre voci!
ma la terra
– l’ora che cresce –
ha i passi sotterranei di tanti;
tra i rami
senza carne
si addensa un alito
dov’è lo sconosciuto? –
cosa vuole dirmi
con quell’alito
che si asciuga così in fretta?

IV

brulica ancora il giorno
tra le lontane case,
la sera nel dopo si posa
e il silenzio alla sua ultima riva
ne divide piccolo
e grande il mare,
dove picchi di roccia
aspettano nudi i venti

V

in questa notte disabitata
– in questo luogo –
guardo le luci accese:
non dureranno molto,
il buio qui è più denso
e sulla riva più stretta del giorno
non so quanto di sabbia rimane

VI

ora che l’invernale attanaglia
i fusti nudi dei pioppi,
nel petto la terra
con un gemito si dissoda
nelle braccia profondamente il fiume,
qui potrei morire
e non sarebbe violenza,
ma un dissolversi lento in polvere
e suono

VII

l’aria è ampia
piena di stelle,
le ultime mani tremule
sulle betulle
e il vento il vento…

– siamo qualche movimento verso il dopo
e già si muore
qualche movimento
e appena appena un poco –

oh, immensa notte
c’è come un pulsare d’eterno
in questo tacere delle cose
un’attitudine
e il tuo pulsare
ha salde tenebre

e dirti non basta

immensa e notte

immesa e notte!

 

 

 

Continua a leggere

Raymond Carver (1938-1988)

Raymond Carver

Ultimo frammento

E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.

Raymond Carver

Quando ha scritto questa poesia, Raymond Carver aveva quarantanove anni, (nel 1987) era malato di cancro e sapeva che sarebbe morto in tempi brevissimi. “Ultimo frammento” è dunque una delle ultime poesie che Raymond Carver ha scritto nella sua vita.

Fu pubblicata postuma nella raccolta “Orientarsi con le stelle”.

E’ diventato l’epitaffio di uno dei maggiori narratori statunitensi del XXI secolo.

IL VOLUME

Antonio Spadaro nel suo nuovo volume “La scrittura di Raymond Carver, (Edizioni Ares, 2020) scrive: “Nella poesia di Carver troviamo la radice profonda della sua ispirazione letteraria, una poesia fortemente concentrata sul quotidiano, di cui, anche attraverso un linguaggio ordinario, riesce a esprimere efficacemente le tensioni fondamentali: un certo spaesamento iniziale, la paura della morte, il bisogno di essere amato, di essere salvato, di comunicare in modo sincero.” Continua a leggere

Anedda/Biagini/Donati, la poesia (s)occorre

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

La riflessione poetica d’impianto ecologico sta crescendo a dismisura (a ragione, verrebbe da dire). Il problema — gnoseologico, epistemologico ma persino concreto — è enorme e i poeti si stanno battendo alla grande. Negli Stati Uniti e un po’ ovunque nel mondo è sorta da alcuni anni una vera e propria branca della lirica che si chiama ecopoetry: vi sono coinvolti numerosi autori che sarebbe riduttivo, se non offensivo, bollare come “naturalisti”: essi sono molto di più. Ovviamente hanno un occhio di riguardo verso la natura. Ma affrontano anche temi disparatissimi — politica, società, relazioni, filosofia — servendosi di un cannocchiale ecologico per mettere a fuoco prospettive poetiche al di là di ogni ideologizzazione.

Il rischio delle etichette è che il campo si può restringere fino a pochi nomi o, al contrario, lo si può allargare oltre il consentito. Ad esempio, il compianto Philippe Jaccottet rientra nell’ambito dell’ecoliterature, avendo praticamente dedicato tutta la sua carriera di poeta alla natura, ai boschi di Grignan, agli alberi, agli uccelli, a un paesaggio mozzafiato? Farei dunque una distinzione (imprecisa e sommaria, pardon).

Da un lato esiste una ecopoetry propriamente detta: ed è quella di Forrest Gander — tanto per fare un nome, ma con lui i suoi maestri: Robert Hass, Gary Snyder etc. —, ossia un tipo di letteratura che in maniera programmatica si propone di combattere le devastazioni ambientali attraverso lo schermo opaco dei versi. Ma, dall’altro, esiste anche una poesia ecologica integrale (mutuo il sintagma «ecologia integrale» da Papa Francesco), in cui il monito ambientale si estende a tutte le relazioni con i propri simili e con il cosmo (le interrelazioni): qui Jaccottet ci rientra benissimo e, a mio giudizio, possono rientrarci molti poeti italiani tra cui senz’altro Antonella Anedda ed Elisa Biagini.

Poesia come ossigeno. Per un’ecologia della parola è un testo (un pamphlet), suddiviso in quattro parti: nella prima assistiamo a un «dialogo a tre teste» (Riccardo Donati, Antonella Anedda, Elisa Biagini), che si snoda tra lingua, innocenza, presente, paura, silenzio. Nelle altre tre sezioni (Pensare; Leggere e riflettere — I versi che (s)occorrono; Scrivere — Dentro la bottega) le teste diventano due, il curatore molto galantemente si ritrae, le poetesse accedono assorte al loro stesso «pensiero poetante». E per quale ragione esso sarebbe ecologico? Facciamo riemergere il curatore, Donati, il quale nell’introduzione al volume scrive: «Ciò che la poesia fa, quando è frutto di studio e rigore, passione e sincero coinvolgimento, è esattamente questo: dire in forma sintetica la complessità». L’ecologia della parola sta in questo: nel non inquinare con i detriti inutili e dannosi della prosaicità, nel dire poco in breve spazio (e se vogliamo nel consumare poca carta!).

Vediamo cosa scrive l’Anedda: «Questo è un libro a tre teste in cui abbiamo provato a parlare di nuovo di poesia. In modi diversi per genere e generazioni, incontrandoci sulla necessità di un linguaggio in grado di emozionare senza retorica, autentico ma non banale. Abbiamo provato a parlare di desideri e non di leggi, di possibilità e non di purezze o primati da difendere. Parafrasando il poeta Wallace Stevens, che ne descrive tredici, esistono molti modi di osservare un merlo. Esistono molti modi non solo di fare, ma di leggere poesia. La poesia non salva la vita, tanto meno quella mentale, ma — ed è questa forse l’unica consolazione — conserva la specie della scrittura, facendo quello che fanno i vermi nella formazione del terriccio».

E la Biagini: «C’è ancora bisogno di parlare di poesia? Veniamo da anni di distorsione e abbrutimento linguistico, di livellamento delle parole e dei cervelli, dove la cosiddetta cultura è spesso asservita all’intrattenimento e non è più momento pedagogico, qualcosa che scuote le coscienze e le certezze. Si continua a ricorrere a una lingua semplificata e a effetto, dai toni urlati e demagogici. Si continua a ignorare come questo modo di esprimersi sia il sintomo di un malessere assai profondo e complesso, un aver disimparato come stare con gli altri.

Dobbiamo dunque abbandonare ogni speranza e smettere di leggere e scrivere poesia (o fare arte in generale)? Assolutamente no. È vitale, politico, ovvero inestricabilmente connesso ai motivi dello stare insieme: scrivere (e prima di tutto leggere) versi è un qualcosa che ci rende esseri umani più attenti e sensibili, ci aiuta a continuare a crescere».

Come vermicelli o come semplici lettori, nel terriccio e nel non abbrutirsi, nella natura e nella politica è possibile crescere in un’ecologia integrale della persona umana. Chiosa Donati: «Ecco, piuttosto, cosa della poesia (s)occorre: il fatto di essere un oggetto […] con niente da offrire se non la capacità di aiutare qualcuno». L’ecologia diviene solidarietà, vicinanza, apertura, carità.

Concetto peraltro ribadito in un altro scritto molto interessante della stessa Anedda: si tratta di un saggio poetico — sul modello di quelli di Jaccottet e Zagajewski ma punteggiato di lemmi e brevi argomenti che aumentano l’intenzione diaristica e la concertazione filosofica —, Geografie. Continua a leggere

Nanni Cagnone: “La poesia è un’opera estranea”

Nanni Cagnone e Sandra Holt

I

Unico vanto, aver resistito lungamente a me stesso. Nel disadorno ovunque e nel fulgore che raramente, ne l’affamato strepito del giorno e notturno scivolare, io con quel lui ch’ognor m’impiglia.
Ogniqualvolta mi trovo a citare parole sue, devo convenire che il me che parla dorme cammina non è colui che scrive, e scrivendo sfugge agli scricchiolii del palcoscenico quotidiano. Siamo in due, e incerti i legami: storico io, metastorico lui. Miei i fastidi le fatiche i malanni, suo l’arrovellar parole. Benché spesso inquieta o rissosa, tale residenza lo pone altrove, in salvo dalle cattive notizie, dalla ripetizione e dai minimi orrori a cui la normalità non può sfuggire. Non so pensare in quel suo modo estraneo. Ha forma diversa la sua necessità.
Non sto alludendo a una scissione dell’Io, né all’esistenza d’un sosia, spettro o alterego che sia ispirato o e – letto. Sto dicendo che la prima persona, quella che non scrive, deve scomparire, e la storicità farsi da parte.
Dubito che lui sia un soggetto. In certo modo, sembra dipendere. In pratica, io posso parlare di lui, ma lui non può far altrettanto. Non sa cosa stia scrivendo, e ancor meno qual senso possa avere ciò che scrive. Secondo me, ogni volta non sa piú quel che credeva di sapere, e altro non impara. Quando fa ritorno, quando si ricongiunge, devo affrontare una perdita. La banalità di tale condizione sembra insuperabile.
Ero stato piú chiaro – o meno noioso – molti anni fa: «La poesia è un’opera estranea, cosa che il sonno insegnerebbe al risveglio».

II

Mancandosi,
vuoto nessuno, asola
che non coniuga bottoni
o su erbosità una melma.
Si contenta cosí
questa indocile età
che pondera ancora
fremiti, o perde
sua guarnigione.

Sorrisi del tempo
di guerra, scontornati.
Un freno a ceppi
in fondo al carro,
la stessa virtú
dei ricordi.

III

Su uno dei declivi, noi,
oltre la comune sommità
mai non sapendo
se amici o nemici,
se contrariate parole.
Noi al di qua,
vanamente schierati—
dopo aver cucito
scucito racconti,
danze di guerra
a preparare il lutto,
stolida certezza
di nostra
inerpicata conoscenza.

 

IV

Non si consumasse
già mai
nostra innocenza,
e non fosse il tempo
mietitor de l’ignaro,
non muoverebbe
su inasprite stoppie
la mente adulta,
giudiziosamente
smarrita, e intimo
sarebbe ancora
orientamento.

Mi avvedo
(non è la prima volta)
di compiangere. Continua a leggere