Antonella Sbuelz, “Chiedi a ogni goccia il mare”

Antonella Sbuelz

ONDE DI SUONO

Amavi ogni singola parola, ma
di un amore poco corrisposto.
Erano ponti minati i ponti
I punti fra sillabe e suoni, fra suoni e nomi
detti tutti interi.
La tua voce zoppicava in mezzo ai denti
spingendo fuori desideri muti, moncherini
di pensieri mutilati. Però non ti arrendevi.
Ritentavi. Radunavi risorse di fiato, indossavi
la tua dignità in una muta dolorosa.
Staccavi dalla sua buccia d’aria
la polpa del senso di ogni cosa. Ma
il tuo cuore ignorava la balbuzie,
e la matita quando disegnava
dava vita a ogni onda del suono:
versi di uccelli, nitriti dei cavalli, il rombo
di un’auto o un aeroplano.
E personaggi
dalla bocca muta.
Tacevano, ma dandosi la mano.

 

LA PAROLA TORNARE

Ma torneremo, dicevi
la parola era fragile. Tremava.
E forse rivedervi te bambina:
il vento si gonfiava in onde e nubi, i passi
dei profughi in fila
erano lenta conquista nella conquista
di un domani astratto
che prometteva la normalità.
È facile vederti anche da qui: calzette
bianche, scarpe impolverate,
le dita che tormentano,
una crosta sopra un ginocchio sbucciato.
La sovversione dell’infanzia
sta nel cucciolo che hai regalato
senza volerlo regalare: il suo miagolio
ti ha inseguito fino a farsi miagolio
di bora e mare.

Torneremo, dicevi. Torneremo.

E finalmente ieri sei tornata.
Ti abbiamo riportata di nascosto.
Se non profuga, di nuovo clandestina. Sopra
il tuo angolo d’Istria soffiava un vento gentile.
Il golfo pungeva di luce.
Sei scivolata in acqua con dolcezza:
un brivido di polveri leggere
dentro la sera che rabbrividiva.
E si è fermata la mano
che torturava il ginocchio.
La fila ha ripreso a marciare
verso un’idea di domani.
Il tuo gatto ha ripreso a miagolare.
Oltre il buio
che ci scopriva nudi,
si aprivano nuovi ritorni
nella parola tornare. Continua a leggere

Rachel Bluwstein (1890-1931)

Da “Poesie” di Rachel Bluwstein, a cura di Sara Ferrari, Interno Poesia 2021

La prima antologia italiana interamente dedicata alla poetessa Rachel Bluwstein (1890-1931), nota al pubblico come Rachel, simbolo mai scalfito dal tempo del movimento pioneristico ebraico e madre fondatrice della tradizione poetica israeliana al femminile. Benché Rachel sia considerata una delle poetesse “nazionali” d’Israele, spesso nel corso dei decenni la sua opera è stata relegata a un ruolo minoritario, se non, addirittura, fraintesa. Soltanto di recente la critica ha saputo restituirle la giusta collocazione all’interno del canone poetico, mostrando l’intento rivoluzionario della sua scrittura. L’amore deluso, la nostalgia, la solitudine sono parte integrante dell’universo poetico di Rachel. Tuttavia, accanto a questo, troviamo una donna risoluta, consapevole della propria realtà, passionale e, soprattutto, dotata di un progetto poetico molto preciso.

Nella mia grande solitudine

Nella mia grande solitudine, una solitudine di animale ferito
ora dopo ora io giaccio. In silenzio.
La mia vigna l’ha spogliata il destino e non un solo rampollo è rimasto.
Ma il cuore, ormai vinto, ha perdonato.
Se davvero sono questi i miei ultimi giorni
voglio esser calma,
perché l’amarezza non intorbidi il quieto blu
del cielo, mio compagno di sempre.

*

Nelle notti senza sonno

Com’è fiacco il cuore nelle notti senza sonno,
nelle notti senza sonno com’è grave il giogo!
Stenderò allora la mano per recidere il filo,
per recidere il filo e finire?

Ma al mattino la luce, con la sua ala pura,
bussa silenziosa alla finestra della mia stanza.
Non stenderò la mano per recidere il filo.
Ancora un poco, cuore mio! Ancora un poco!

*

Espressione

Io conosco detti eleganti in abbondanza,
frasi fiorite a non finire
che camminano leziose,
lo sguardo arrogante.

Ma amo l’espressione pura come un neonato
e modesta come la polvere.
Conosco innumerevoli parole,
per questo io taccio.

Saprà il tuo orecchio cogliere, anche dal silenzio,
il mio umile parlare?
Saprai proteggerlo come un amico, un fratello,
come una madre in seno? Continua a leggere

Barbara Herzog, da “Nada más”

Barbara Herzog

Vuoi suggere
da ogni risposta
una goccia di anima
per assaporarla
abbracciarla
solo per questo
cavi sapere
da un sasso
e sì, per la tua voce
che bacia come
il vento gli steli d’erba

***

Quando intuisci
a poche sillabe
assurgi ciascuna
perché non puoi toccare
per colmare l’urgenza
ogni gemito accarezzato
nell’aria
non fa che acuire
la carnalità
del bisogno

***

Inutile arrovellamento
le risposte non sgorgano
da quel ruscello limpido
frastornante fino a
poco fa

ruvido palpare
per comprendere
dov’è finita la piena
sgorgano

***

Sublimare
è la parola d’ordine
dei decreti che
giocano al salto della corda

fortunata
colgo l’ispirazione
nell’inflessione delle parole
e costruisco

castelli sulle nuvole
se no
la mia pelle
sarebbe già avvizzita

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Mattia Tarantino, “L’età dell’uva”

Mattia Tarantino, credits ph. Antonio Verde

Vorrei conoscere il mondo dei morti,
reclamarlo in una lingua senza storia
che non abbia una grammatica, ma possa
avverare tutto ciò che si pronuncia.

Mi usano per parlare a chi è rimasto,
vogliono che dica, rovesciandola,
la parola che non hanno mai trovato

*

Dammi una parola
onesta, che risolva
la brevità del mondo e delle cose;

che sia oppure indeclinabile,
sospesa nella voce a stabilire
cos’è che dura e cosa non ha tempo.

*

Bruciasse l’alfabeto rimarrebbero
intatti i segni del tuo nome.

*

Vedi, non restano che i nostri
frutti sulla tavola:
mia madre che li sbuccia; i loro
nomi che pendono dall’orlo
e cadono tra il pavimento e l’invisibile.

Ora all’uva basta un soffio per marcire
in fretta e diventare una preghiera.

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Daniela Pericone, da “La dimora insonne”

Daniela Pericone, credits ph. Antonio Sollazzo

Restiamo nel folto
che inscena promesse,
l’incerto del bosco è sollievo
ai giorni che non salvano,
scavalco senza respiro perdite
e insonnie – siamo al culmine
o all’esordio della piena –
così d’ognuno la vita, solo
vorrei non dirla divisa
da queste mie mani, se esista
riparo o anneghi la pena
– sperperio, lingua che stenta
e frana anche l’aria.

***

I tuoi fogli, precisa
vaghezza, dimorano
assorti in radure.
Non si cura di loro
la sabbia, solerte ricopre
le rive – non c’è acqua
che basti ai deserti.

***

Tutto è compiuto
le carte dispiegate
contano torri, crolli
irredimibili, tuttavia
non vanisce il prodigio
che c’inventa e non duole –
così dev’essere non tradirsi,
contemplare ostinate
parole tiene unite le crepe.

***

La dimora insonne
consegue il suo silenzio
riposano le carte
mansuete – i suoi labirinti
sono roghi di penombra,
preludio d’ultimo
abbaglio, tenebrore. Continua a leggere