Voce giunta con le folaghe

montaleEugenio Montale scrive “Voce giunta con le folaghe” nel 1947. La poesia fa parte della raccolta “La bufera e altro” pubblicata nel 1956 con l’editore Neri Pozza e con Mondadori, l’anno successivo. 
I luoghi di “Voce giunta con le folaghe” sono le Cinque Terre. Il poeta si reca sulla tomba del padre, nel cimitero di Monterosso.
Nella poesia “circolare”, la voce di Montale ritrova e si congiunge a quella del padre, che voce non ha più, ma che si trasforma, nella memoria del poeta, in immagini precise, dettagliate, forse visioni che segnano gli ultimi giorni di vita del genitore:  “Eccoti fuor dal buio che ti teneva, padre”, “erto ai barbagli, senza scialle e berretto“.

Il particolare assordante di questi versi, letti da Luigia Sorrentino, è determinato proprio dal perenne moto circolare che compiono le due ombre, l’una nell’altra. L’ombra del poeta sulla tomba, non ha più peso dell’altra ombra. L’ombra è fidata, è il muto che risorge, che scorpora l’interno fuoco. E’ poesia religiosa, sembra uscita da una scrittura solenne e sacra: “L’una forse / ritroverà la forma in cui bruciava amor di Chi la mosse e non di sé /”, amor di Chi la mosse è l’amore divino, del Dio che ha generato l’ombra. Quale delle due ombre torna a bruciare nell’amore di Dio? Non è dato saperlo. Sappiamo che l’ombra è viva, mentre l’altra è riluttante, ma le due ombre sono insieme, l’una nell’altra. Si può pensare che entrambe tornino nella luce di Chi le ha generate dopo aver abitato il vuoto, fino al tempo del colmarsi, del ritrovarsi.

Opere Inedite, Vera D’Atri

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Quando scrivo è per cercare fiato. Con stato d’animo curioso  provo a star dietro a quelle visioni  che nascono ogni giorno e che sono una confusa e primitiva parte di me. Poi, con un lavoro che completa l’intuizione, una volta catturata l’immagine cerco l’equilibrio, il suono da adattare. Ogni parola deve prestarsi a tutte le altre, fornire oltre che un senso anche una specie di armonia. A volte procedo con tranquillità, altre è possibile ch’io venga dirottata dalla forza di singole parole, capitandomi in definitiva di dover ammettere che il testo (come fosse esso stesso una creatura indipendente dalla mia volontà) abbia voluto svelare una sua sconosciuta verità. A volte mi viene da pensare che proprio da questa prepotenza nasca la migliore poesia.

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Alberto Toni, “Vivo così”

 

alberto-toni-vivo-cosc3ac-1Dalla Prefazione di Mario Santagostini

“Se mai esistesse ancora, un lettore ossequioso della divisione tra i generi letterari sosterrebbe che con questo libro di poesia Alberto Toni è rimasto fedele alla sua fondamentale, alta vena lirica ma l’ha, una volta per tutte, ramificata, contaminata, forse semistritolata fino a mascherarla e stravolgerla. Poi aggiungerebbe: Toni si è fermato un po’ prima d’arrivare nel terreno saldo dell’epos, è rimasto in una sorta di sua terra incognita. E noterebbe che nel viaggio si è servito di tutto: dai momenti verbali testati dalle storie letterarie fino ai topoi logori dal loro girare nella lingua viva.

La tesi troverebbe appoggi nelle serie di stilemi ripescati dalle grammatiche ermetiche che compaiono nel testo: per esempio negli inizi fastici nominali, o nelle anteposizioni dell’oggetto sul verbo. O nei puntuali e (io credo) studiati arcaismi, tra i quali un pascoliano “aree parole” mi pare essere il picco più evidente. Ma il richiamo alla tradizione e a un passo novecentesco o protonovecentesco è, in verità, soltanto uno tra i tanti componenti d’una matrice verbale primaria semisepolta nella memoria dell’autore e che, talvolta, riaffiora e offre frantumi, relitti lessicali riciclati, frammenti riusati. Tracce, insomma, di una sorta di lingua-sostrato che fa da supporto a una lingua di superficie anomala e generatrice di anomalie. Lingua dove coesistono momenti d’alta ricercatezza sintattica quale … ma anche a un passo il gelsomino/ tutto per te è fiorito/ e prelievi diretti del palato come: … Uno di passaggio che gli rivela qualche/ verità momentanea, tanto per dire/… ” […]
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Giovanni Parrini, “Valichi”

 

IMMAGINE COPERTINA (1)Dalla nota introduttiva di Matteo Bianchi

Non poco è quanto ricevuto dai Valichi (Moretti&Vitali, 2015, pp. 84) di Giovanni Parrini, entrato nella terna finale del premio Viareggio-Rèpaci, assieme a Franco Buffoni (Jucci) e a Luigi Fontanella (L’adolescenza e la notte), vincendo il premio della Giuria.

Un Viareggio ancora una volta sorprendente, che ha visto partecipare alla tenzone penne del calibro, tra le altre, di Maria Grazia Calandrone, Aldo Nove, Umberto Fiori, Roberto Deidier;

tuttavia la contesa rimane aperta e si aspetta con trepidazione la nomina del supervincitore di questa ottantaseiesima edizione.

Valichi è il quarto libro di Parrini, poeta accompagnato, negli anni, da vari interventi critici, tra cui quelli puntuali di Maurizio Cucchi (prefazione a Tra segni e sogni, Manni 2006; selezione di testi per l’Almanacco dello Specchio 2010-2011; articoli su “Tuttolibri” e sulla rubrica “Dialoghi in versi” de La Stampa) e quello di Giovanna Ioli (prefazione a Nell’oltre delle cose, Interlinea, 2011).

«Non poco» è anche la particella chiave della raccolta. Un sintagma elementare, avveduto: due frammenti senza infingimenti che si fanno forza a vicenda, e introducono fin da subito la comprensione e la reciprocità della poesia, della letteratura. Perciò le liriche si susseguono una dopo l’altra in antitesi alle code di automobili che intasano le autostrade dei weekend, incuranti del valore esistenziale che dal tutto trattengono i particolari: «è il tramonto che presta ai fari il rosso / è il sole sghembo a fare con la polvere oro sopra i lunotti».

Alla maniera in cui si perdono (di vista) le storie degne di misericordia, come sosterrebbe Hugo, mentre seduti a tavola i fotogrammi fluviali della tv inghiottiscono le miserie che sarebbero da afferrare e fare proprie. Ecco e terribilmente, giunto «in ultimo il caffè», l’autore prende coscienza del peso interiore che assumono le immagini, specialmente nell’istante in cui valicano la condanna massificante del tempo.

Al centro, poi, si conficca la compassione d’incrociare a un semaforo lo sguardo di chi domanda, privandosi della dignità, qualche moneta per un pasto. Si badi bene, però, libero da drammaticità e da sentenze morali, specie nei confronti del sé allo specchietto retrovisore.

E le lacrime dantesche, o meglio, fiorentine – di stato e non di statuto – scaturiscono quando le parole non bastano più, non servono più, ma l’impotenza taciuta di redimere l’ingiustizia universale con un piccolo gesto si sfoga (mancando!) verso l’alto. Naturalmente, «vedi gli storni prendere le misure del cielo / con quella gratuità / che ti fa un nodo in gola di passione e di pena».

Anonima la grazia si rivela inaspettata: «Parrini – va detto – non giunge mai al momento epifanico, liberatorio; né mai è tentato da un discorso di ordine strettamente religioso: semplicemente cerca, ogni volta, il punto in cui  l’opacità del mondo sembra incrinarsi», ha motivato Giancarlo Pontiggia nella prefazione.

E il rispetto profondo con il quale l’autore si rivolge al prossimo, il garbo con cui ammonisce “un niente”, “il nulla”, ne costituisce la cifra distintiva, accurata ma necessariamente riflessiva da non indugiare sui formalismi, su superflui impedimenti comunicativi, «che tra poco uno a uno andiamo via alla spicciolata / una notte qualunque».

Il ritmo è totalmente privato e a tratti apprensivo, tanto da accelerare o ritardare al lettore l’illuminazione, a seconda dello stato d’animo vissuto, dell’ispirazione.

La limpidezza, delineata ne «l’azzurro contro il grigio», quindi serve a quietare la bufera dei ricordi, l’esperienza che allarga le palpebre. Magari per questo Pontiggia ha sostenuto «un’ascendenza montaliana», per la consapevolezza di essere una parte del tutto e neanche indispensabile al suo movimento.

Pianissimo come ha cominciato, e Sbarbaro docet nell’approccio antimelodico, l’ambivalenza amata e sofferta dei ricordi chiude il cerchio, quasi si trattasse di una panoramica scattata da un belvedere, ma oltre, di un tondo dipinto. D’altronde, «amari e magnifici giri» sono quelli intorno all’asse terrestre, «che la bellezza fa» non esaurendosi mai, rilkianamente quando «Né fanciullezza né futuro / vengono meno…» alle Elegie duinesi, che Parrini fissa in esergo al libro come un lasciapassare.

Paradossalmente sono i ricordi ad assicurargli una giustizia e l’inestinguibile desiderio di eterno, così all’opposto il presente brucia ogni cosa, perfino i fiori.

E dopo un «lunghissimo bacio» si congeda in bilico sullo stelo, senza bisogno che un aedo indori la realtà, men che meno depositata sul foglio, perché «Torneremo rifaremo percorsi di radici e pensieri / in una sola infinita stagione».

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