Due poesie di Antonella Anedda

Antonella Anedda, Photo © Maria Sofia Mormile

Non volevo nomi per morti sconosciuti
eppure volevo che esistessero
volevo che una lingua anonima
– la mia –
parlasse di molte morti anonime.
Ciò che chiamiamo pace
ha solo il breve sollievo della tregua.
Se nome è anche raggiungere se stessi
nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino.
Non ci sonno che luoghi, quelli di un’isola
da cui scrutare il Continente
– l’oriente – le sue guerre
la polvere che gettano a confondere
il verdetto: noi non siamo salvi
noi non salviamo
se non con un coraggio obliquo
con un gesto
di minima luce.

 

***

Mi spingo oltre il dolore
dove nessuno sospetta che si soffra
in una zona di pelle mai colpita
cupa come l’avambraccio
o molata dall’osso come il gomito.
Striscio piano con l’anima coperta da scaglie rosso-grigie
per sostenere i rovi e lasciare a terra
il sangue minimo. Un passo – sono paziente –
e il corpo ha imparato a frusciare dentro l’erba.

Da molto lontano – da un’alba di ottobre
da un oggetto mosso nella sabbia del lago
viene ciò che la pena contempla: un paesaggio
dove non si può dormire.
Era una lunga immagine
il mormorio di un brivido.
Troppo tardi si compone l’astuzia di ogni sera
fingere che il mio braccio sia il tuo
che stringa la mia mano
di nuovo, senza pace.

 

Da Notti di pace occidentale, Donzelli, 1999 Continua a leggere

Gario Zappi, “Libro d’argilla”

Puabi

I

o mia dolcissima, Puabi, che di soli astrali, lamine
aurate ri-fulgi, per malte e coralli, per cobalti
di iridi tenui e sfogli d’ocelli variegati iniziali
di nomi, e ri-poni su pastiere di porcellana
fiori-farfalle, memorie d’abissi, segni
di quell’Atlantide spirituale in cui spumeggianti
Titani s’inabissaron tra l’onde: in te
m’adagio, mi dis-solvo nel tuo
sguardo, mi rin-serro, o lamina d’oro che
di soli astrali sei cenno e fulgore, o mia
dolcissima, o
Puabi……..
così, platino e rosmarino, titanio ed euforbia, si sfrangiano
luci sull’acqua: stelle di fonte, arcobaleni, cristalli
sul tavolino: immagini che m’impedirono di
donarti: e ri-trovare le dilacerate mie sensazioni, le
frantumate mie contiguità, il tuo
corpo, astrale bagliore di risonanti effluvii di
Vita……….

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Mark Strand (1934 – 2014)

Mark Strand

Your shadow

You have your shadow.
The places where you were have given it back.
The hallways and bare lawns of the orphanage have given it back.
The Newsboys’ Home has given it back.
The streets of New York have given it back and so have the streets of Montreal.
The rooms in Belém where lizards would snap at mosquitos have given it back.
The dark streets of Manaus and the damp streets of Rio have given it back.
Mexico City where you wanted to leave it has given it back.
And Halifax where the harbor would wash its hands of you has given it back.
You have your shadow.
When you traveled the white wake of your going sent your shadow below, but when you arrived it was there to greet you. You had your shadow.
The doorways you entered lifted your shadow from you and when you went out, gave it back. You had your shadow.
Even when you forgot your shadow, you found it again; it had been with you.
Once in the country the shade of a tree covered your shadow and you were not known.
Once in the country you thought your shadow had been cast by somebody else. Your shadow said nothing.
Your clothes carried your shadow inside; when you took them off, it spread like the dark of your past.
And your words that float like leaves in an air that is lost, in a place no one knows, gave you back your shadow.
Your friends gave you back your shadow.
Your enemies gave you back your shadow. They said it was heavy and would cover your grave.
When you died your shadow slept at the mouth of the furnace and ate ashes for bread.
It rejoiced among ruins.
It watched while others slept.
It shone like crystal among the tombs.
It composed itself like air.
It wanted to be like snow on water.
It wanted to be nothing, but that was not possible.
It came to my house.
It sat on my shoulders.
Your shadow is yours. I told it so. I said it was yours.
I have carried it with me too long. I give it back.

By Mark Strand

 

La tua ombra

Hai la tua ombra.
I luoghi in cui sei stato l’hanno restituita.
I corridoi e i prati spogli dell’orfanotrofio l’hanno restituita.
La Newsboys Home l’ha restituita.
Le strade di New York l’hanno restituita e anche le strade di Montreal.
Le camere di Belém dove le lucertole divoravano le zanzare l’hanno restituita.
Le strade scure di Manaus e quelle afose di Rio l’hanno restituita.
Città del Messico dove te ne volevi andare l’ha restituita.
E Halifax dove il porto si lavava le mani di te l’ha restituita.
Hai la tua ombra.
Quando viaggiavi la scia bianca del tuo incedere affondava
l’ombra, ma quando arrivavi la trovavi ad attenderti.
Avevi la tua ombra.
Le soglie che varcavi ti sottraevano l’ombra e quando uscivi te la restituivano.
Avevi la tua ombra.
Anche quando te la dimenticavi, la ritrovavi; l’ombra era stata con te.
Una volta in campagna l’ombra di un albero coprì la tua ombra
e tu non venisti riconosciuto.
Una volta in campagna pensasti che la tua ombra fosse proiettata da un altro.
L’ombra non disse nulla.
I tuoi abiti portavano dietro la tua ombra; quando li toglievi, lei si diffondeva come il buio del tuo passato.
E le tue parole che volavano come foglie in un’aria persa, in un luogo che nessuno conosce, ti hanno restituito la tua ombra.
Gli amici ti hanno restituito la tua ombra.
I nemici ti hanno restituito la tua ombra. Hanno detto che era pesante e avrebbe coperto la tua tomba.
Quando moristi la tua ombra dormiva sulla bocca del forno e mangiò come pane i ceneri.
Esultava tra le rovine.
Vigilava mentre gli altri dormivano.
Risplendeva come cristallo tra le tombe.
Componeva se stessa come l’aria.
Voleva essere come sull’acqua.
Voleva non essere nulla, ma non era possibile.
Venne a casa mia.
Mi sedette sulle spalle.
La tua ombra è tua. Glielo dissi. Le dissi che era tua.
L’ho portata con me troppo tempo. La restituisco.

Traduzione di Damiano Abeni
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Paolo Fabrizio Iacuzzi, “Consegnati al silenzio”

POESIAFESTIVAL 2018
Paolo Fabrizio Iacuzzi
photo © Serena Campanini

VIBRIO CHOLERAE IACUZZI
(per Francesco Iacuzzi, mio padre, 1922-2015
e per Francesco Iacuzzi, medico della peste, 1854)

Il letto di mio padre. I suoi escrementi.
La sua malattia ridotta a scoprire tutti i suoi
muscoli. I legamenti con un fascio di soli nervi
in un museo di anatomia. Speculazione scabra.

Non ti ho mai ritratto tanto come nel momento
che sei nella mia camera da letto. Dentro un letto
di ospedale a casa. Mentre la lampada gialla
anni Settanta illumina tutto questo letto.

Scavato e presso alla morte. Ma io vivo ancora
e ti vedo imbalsamato nell’asciutta faccia di te
ragazzo. Prosciugato al posto mio. Come se

scarnificato fossi stato tu colpito al posto mio
malato da quasi vent’anni. Vedendo te
pietrificato per tempo dentro di me. O salvo.

 

Dalla sezione: IL PADIGLIONE VERDE
pensaci qui riuniti

III

Ormai non c’è più niente che possiamo fingere.
Consegnati al silenzio e indifferenti al mondo
amiamo i nostri simili come li amate voi. Siamo
dentro al buio per aspettar la luce. Entrare

in fondo piano tra spifferi dei mutui. Ci Illumini
la lingua ci stani tutti i virus. Negli organi
annidati per zecche a cani sciolti. Nascosti
nei reami di ghiandole e di organi. In santuari

esistono e dormono in silenzio. Tutti i nostri
virus per farci stare in bilico. Sull’orlo della vita
quando è sera pensaci. Da soli noi restiamo
preda al desiderio. Dicendo ancora sì e non più.

IV

Contagio più non siamo perché nei nostri virus
dormono nelle cellule. E quando c’è il mattino
ci inonda la fatica. Avere assunto i farmaci
ed essere già stanchi. Ti supplichiamo pensaci

pensaci col groppo in gola. Non possiamo dire
ci manca l’alfabeto. Ci manca quel coraggio
che solo hanno gli eroi. Sono solo loro dentro
al mondo, noi siamo sommersi. Siamo solo

dei curati per farmaci e confetti. Aver sollievo
in gola se l’afta ci divora. Vogliamo dirti pensaci
insieme a tutti gli altri. Senza cura per il male
la morte è ancora vita. Non è la morte ancora.

 


BIZZARRO UNICO AMORE

(per Leone Piccioni, 1925-2018)

 


Quando riporti in vita il cuore lo fai 

con una sintassi secca e rapidissima
altèra e incalzante. Gli opposti in bilico

sopra quella gita antica bicicletta
di ragazzo nella tua Pistoia in corsa
“dietro qualche inventata immagine”.

L’equazione sublime degli opposti.
Tu nella fuga dei bizzarri che brucia
in solitaria ogni traguardo. Toccato

l’apice del discorso ti stringi tutto
tiri il male e unico calzi sempre
perfetto. Lo scatto e arrivi in vetta.

Tocchi improvviso il mondo. E’ tutto.

Da: Consegnati al silenzio, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Bompiani, 2020

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Una poesia di Francesca Matteoni

E’ tutta qui l’infanzia, campo chiuso
negli incubi si riempie di alberi
invalicabili. Qualcuno muore.

Ogni foglia è una cartina tornasole
spalanca le mie cose all’erosione.

Crescete, non più semplici animali
non più nel tutto immersi e separati
come chi dorme perfetto, al sicuro
ruba all’altro la lingua mentre sogna.

La lingua che vi chiama ora è la vostra
mostre le genti magiche, le spezza.
Eppure dentro il mondo, era il mio mondo.

Allora lo vedevo come un prato
in parallelo al cielo interminato.

 

Da: Ciò che il mondo separa, Francesca Matteoni,  Collana Le Ali a cura di Fabio Pusterla, Marcos Y Marcos, 2021

 

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