Alda Merini, “La Terra Santa”

Alda Merini

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

Splendide e strazianti le poesia di Alda Merini contenute nella raccolta “La Terra Santa” del 1984.
La terra Santa è il manicomio nel quale è rinchiusa la poetessa, luogo di oscurità e solitudine, di conoscenza e introspezione, luogo in cui la poesia affiora e si rafforza.

Il manicomio, nel quale “l’esistenza è negata”, come in un inferno, è vissuto da Alda Merini come uno stato d’animo, una condizione annientante che trascina giù verso il basso e, prima ancora che ce ne possa accorgere, si diventa reclusi, prigionieri.

Eccola lì, Alda, sola, disorientata. Obbedisce a chi detta le regole di una vita che non riconosce… e allora la poetessa si affida alla “divina follia” che ha depositato in lei i “versi della riscossa” e del riscatto. Una poesia che diviene atto di resistenza, sconfinamento.

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Manicomio è parola assai più grande
delle oscure voragini del sogno,
eppur veniva qualche volta al tempo
filamento di azzurro o una canzone
lontana di usignolo o si schiudeva
la tua bocca mordendo nell’azzurro
la menzogna feroce della vita.
O una mano impietosa di malato
saliva piano sulla tua finestra
sillabando il tuo nome e finalmente
sciolto il numero immondo ritrovavi
tutta la serietà della tua vita.

Il dottore agguerrito nella notte
viene con passi felpati alla tua sorte,
e sogghignando guarda i volti tristi
degli ammalati, quindi ti ammannisce
una pesante dose sedativa
per colmare il tuo sonno e dentro il braccio
attacca una flebo che sommuove
il tuo sangue irruente di poeta.
Poi se ne va sicuro, devastato
dalla sua incredibile follia
il dottore di guardia, e tu le sbarre
guardi nel sonno come allucinato
e ti canti le nenie del martirio. Continua a leggere

Vittorino Curci, il poeta e il sassofonista

Vittorino Curci

La parola poetica nasce dal silenzio. Solo dal silenzio. Questo sembra dirci Vittorino Curci in questo nuovo libro in cui certo non mancano spigolosità, spaesamenti, colpi di scure sulla lingua (fino all’utilizzo di parole ed espressioni inventate come “quartali” o “vèrbate collura”). Il tutto però sembra muoversi verso una schiarita, forse per il peso che ogni parola, ogni sillaba, assume nel contesto di una prassi compositiva che, sospinta da
una forza ineluttabile fatta di passione e verità, trova il suo fulcro nel legame indissolubile tra immagine e suono.

TESTUALITA’ DEI CORPI

1.

a te si addice il torpore che festeggia
la vita, il formicolio della quinta ora.
al primo svoltare
è questo il giorno, il vocativo conciso
della macchina del tempo
costruita con le tue mani.
e poi facce, facce una sull’altra.
di ciò che è stato
è rimasto appena un grido

ma anche questo è un tempo
un precipizio di luce
sugli anni che non vedremo.
e sono confusi i pensieri, confusi
i gesti che ci portano alla frontiera
di una terra diversa, ereditata

2.

il pittogramma del buon principio,
come una profezia dei boschi, si fissa
per sempre nei tuoi occhi dove
l’ipnagogico sillabare del fuoco
da luoghi lontani, africani
clessidra la forza lustrale del disarmo
e il magistero intonso dei dannati.
riportati a terra, niente è come prima…
nessun pentimento, neanche un cenno
all’albatros depennato al primo rigo…
alla febbrile assenza di un respiro…
alla piovana sequenza di un nome
tra voci sbussolate e nude sulle dune

3.

nel ventunesimo delle fortune mancate
la nostra terra è un disegno sulle carte,
il dono assente dei quasiversi orchestrati
per violini scacciamosche.
gli oscurati portano semi nel pugno, luce
imperitura di chi mai pensa alla resa
e al vessillo cencioso dei malvagi
che misura il tempo della fuga e il lontanare
dei frammenti rosicchiati al buio.
ieri invocavamo l’infinire del rubato
per disossare completamente il mare.
la notte per le mani spianava il cielo
a apostrofi di comete…

4.

dal corridoio con le luci al neon
scendiamo nell’interrato delle partite
perse, nell’obitorio degli annegati…
l’orecchio buono del silenzio
cade nella pania del talento
e ci esorta a lasciare senza tornaconti
l’andare a capo del braccio e questa
vigilia su cui declina un piccolo sole

 

SEGNALI DI FUMO

 

è giusto che si facciano un’idea del prezzo, che controllino
ogni cosa. hanno solo respirato aria. l’aria
di sempre. l’aria di tutti. ma spesso la luna dei pozzi
ci ripensa. utilizza il tempo a suo piacimento
la città industriale si sveglia al ticchettio di un orologio
[fermo.
memoria dei linfomi. pugno di consonanti in un vicolo
[cieco.
nebbia alle sei del mattino.
le scolaresche, dopo l’appello, sono pronte.
se potessero tornare indietro…

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Clemente Rebora (1885 – 1957)

Clemente Rebora

O PIOGGIA DEI CIELI DISTRUTTI

O pioggia dei cieli distrutti
che per le strade e gli alberi e i cortili
livida sciacqui uguale,
tu sola intoni per tutti!
Intoni il gran funerale
dei sogni e della luce
nell’ora c’ha trattenuto il respiro:
bussano i timpani cupi,
strisciano i sistri lisci,
mentre occupa l’accordo tutti i suoni;
intoni il vario contrasto
della carne e del cuore
fra passi neri che han gocciole e fango:
scivola il vortice umano,
vibra chiuso il lavoro,
mentre s’incava respinta l’ebbrezza.
Ma tu, ragione, avanzi:
onnipossente a scaltrire il destino,
nell’inflessibil mistero
a boccheggiare ci lasci;
ma voi, rapimento e saggezza
in apollinea gioia
in sublima quiete,
al marcio del tempo le nari chiudete
o mitigando l’asprezza
nella fiala soave dell’estro
o vagheggiando dall’alto
la vita, che qui di respiro in respiro
è con noi belva in una gabbia chiusa!
Un’eletta dottrina,
un’immortale bellezza
uscirà dalla nostra rovina.

Clemente Rebora, da Frammenti lirici, Libreria della Voce, Firenze, 1913 Continua a leggere

Marco Munaro, “Le falistre”

Marco Munaro

Lo senti l’odore fresco nell’erba
premere contro la faccia schiacciata
per terra? Fa male? Prendimi il braccio,
stòrzamelo dietro la schiena
fino a quando se non grido, pietà!

***

Prima di tutto l’odore, di maggio,
e poi magari anche i fioretti, quando
le risa delle bambine feriscono
l’aria e le candele rubate accese
per loro bruciano di desiderio.

La luce monta s’inselvatichisce,
gli uccelli diventano proprio pazzi
come nei libri di lettura, e file
di operose formiche vanno e vengono
verso la dispensa in cucina mentre
ronzano calabroni e coccinelle
e l’erba è alta come in una fiaba.

La notte non verrà neanche stanotte.
La luna è piena e rossa ed il profumo
delle rose stordisce: sei seduto
sulla soglia di casa, insonne, annusa
la terra bagnata nelle mutande

***

Devo uscire – aria invernale
o primaverile ma tersa –
e apparire nell’orto.
Devo sfasciare tutto.

***

Ricorda il male che,
per il tuo bene, ti hanno fatto.

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Una poesia di Mario Benedetti

Per mio padre

Sta solo fermo nella tosse.
Un po’ prende le mani e le mette sul comodino
per bere il bicchiere di acqua comprata,
come tanti prati guardati senza dire niente,
tante cose fatte in tutti i giorni.
Intorno ha una cassettiera con lo specchio,
due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una stufa.
Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo,
un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue.
Davanti il cielo che è venuto insieme a lui,
gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi
e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio di tutto.
A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle,
un respiro che scivolava sui sassi.
A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di lettura
vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria.
A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato
e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose,
gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male. Continua a leggere