di Luigi Trucillo
Chissà perché i testi ancorati alle esitazioni delle fasi di passaggio riescono a parlarci meglio dell’anacronismo degli spazi interiori. La risposta più semplice è che con il proprio formalizzarsi nell’indeterminatezza di una pausa riescono a fare dell’impasse un movimento conoscitivo. Da questo punto di vista risultano quasi esemplari gli esiti dell’ultima prova poetica di Federica D’Amato, che fin dal titolo “Avere trent’anni”, si sofferma sullo sconcerto di chi al termine della giovinezza si trova davanti alla necessità di un consuntivo. Continua a leggere