Monthly Archives: luglio 2017
Gianluca Chierici, “Il grido sepolto”

Gianluca Chierici
dalla Nota introduttiva di Milo De Angelis
Gianluca Chierici – poeta delicato, visionario e fiabesco che stringe la propria sapienza in trentadue testi ad alta densità metaforica – sigilla il suo breve viaggio con queste parole, rivolte a una altro, a una donna, a se stesso, a tutti noi:
Non perdere il poeta per trattenere l’uomo.
L’uomo è un fiore qualsiasi.
Il suo costume è buffo.
Il passo incerto barcolla tra le foglie di memoria.
Egli clona se stesso ad ogni istante,
in visi e corpi nascosti tra i rami.
Trattieni il poeta.
Il suo cuore è tutto un secolo.
“Trattieni il poeta”, non farlo scomparire, fa’ che duri per il tempo eterno del suo secolo, ossia del suo cuore. Questo suggerimento è anche un imperativo e ci costringe a ripercorrere dalla sorgente il fiume che sfocia nella sentenza finale, a redigere “un documento che sia antico nel suo mistero e nel suo ardore”, a restare nell’abbraccio strettissimo/ che sale verso l’ignoto”. Perché il senso dell’antico e del mistero, la percezione di un canto ferito e l’assedio dello sconosciuto premono potenti su queste pagine. Pagine indifese e urlanti, solcate da un grido che è anche una profezia: il nostro verso è interamente vulnerabile e solo chi è poeta può accompagnarlo in un viaggio così pieno di insidie e di rischi mortali. Continua a leggere
Gianfranco Lauretano
“In tutti i miei libri c’è il desiderio di venire al mondo, dell’alba, il miracolo che mi colpisce sempre – e non lo faccio apposta, non lo scelgo. E poi il fiorire dello stesso inizio, la trepidazione della vigilia e della promessa di ogni cosa.”
Gianfranco Lauretano
Riallacciamo rapporto, mondo,
commerciamo ancora in affetto
scambiamo la mercanzia dell’amore.
Tra te e me non corre sempre buon sangue
le strade del nulla mi distraggono
ma rischiamo ancora la sollecitudine ti prego
troppo caldo nella scatola del cervello
troppo comodo, non me ne frega niente
oh attraversare la strada e incontrare
la ragazza trascinata dal cagnolino
i vecchi che non ricordano le storie
lo sbruffone in motocicletta… Continua a leggere
L’orlo di Sylvia Plath

Sylvia Plath
di Andrea Galgano
La poesia di Sylvia Plath (1932-1963) è abitata da un grido[1] di stanze sfumate che inseguono la traccia intrisa e bruciante di una gemma interiore in cui consistere, nata nella sopravvivente cicatrice di segno doloroso che si sacrifica nella sua anarchia depositata che sconvolge le linee e si appropria del mistero della realtà e acuisce la dinamica sospesa dell’esistere:
Non vedo semplicemente alberi quando pedalo per il campus. Vedo la forma e il colore all’esterno, e poi le cellule e i meccanismi microscopici sempre in funzione all’interno. Senza dubbio questo suona un po’ caotico, ma è quell’euforia particolare che ti viene quando ti accorgi sempre di più delle infinite possibilità e suggerimenti che ti offre il mondo intorno.[2]
Tali linee oscillano in un bisogno estremo, si muovono nella propria peculiarità caotica, sospingono la scrittura in una dimensione di rivelazione e pelle di specchio che coglie percezioni e vibra in ogni angolo: «A volte mi prende un senso di attesa come se sotto la superficie della mia capacità di comprensione ci fosse qualcosa in attesa che io lo afferri. È la stessa sensazione tormentosa di quando si ha il nome sulla punta della lingua e non si riesce a ricordarlo»[3].
Nata in un distretto di Boston da genitori immigrati tedeschi, perse il padre, un professore di biologia e entomologo, per embolia a soli otto anni e già nel 1953, prima di laurearsi brillantemente con una tesi su Dostoevskij e dopo una eccezionale carriera scolastica, era stata sottoposta a un ciclo di elettroshock dopo aver tentato il suicidio in un’orbita senz’ombra che offre tutta la sua imponente redenzione di un amore personale e privato che offre se stesso in tutta la sostanza del mondo: «Per le radici dei capelli mi afferrò un qualche dio. / Sfrigolai nei suoi volt azzurrini come un profeta nel deserto. / Le notti sparirono di scatto come palpebra di lucertola: / un mondo di giorni bianchi e nudi in un’orbita senz’ombra». Continua a leggere
I finalisti del Premio Antonio Fogazzaro
Per la poesia edita in lingua italiana e in dialetto i finalisti sono (in ordine alfabetico) Gaia Formenti (Milano) con “Poesie criminali” (stampa2009, 2016); Sergio Gallo (Savigliano, CN) con “Corvi con la museruola” (LietoColle, 2017); Eleonora Rimolo (Nocera, SA) con “Temeraria gioia” (Giuliano Ladolfi Editore, 2017); Francesca Serragnoli (Bologna) con “Aprile di là” (LietoColle, 2016); Federica Volpe (originaria di Carate Brianza, MB) con “Parole per restare” (Raffaelli Editore, 2016) e Michelangelo Zizzi (Martina Franca, TA), con “La Resistenza dell’Impero” (LietoColle, 2016). Continua a leggere