Poesie d’amore di Carol Ann Duffy

Carol Ann Duffy

 

A CURA DI BERNARDINO NERA E FLORIANA MARINZULI

Nata a Glasgow verso la fine del 1955, Carol Ann Duffy è la primogenita di una famiglia cattolica di estrazione sociale operaia, composta dal padre Frank Duffy, dalla madre Mary Black e da altri quattro fratelli. All’età di sei anni Carol Ann si trasferisce insieme alla famiglia a Stafford, nel nord dell’Inghilterra, per motivi di lavoro del padre.

L’esperienza di emigrazione e sradicamento dalle proprie origini scozzesi risulterà decisiva nella formazione del carattere dell’allora bambina Carol Ann. In particolare, lo stato di iniziale esclusione da parte dei coetanei inglesi e la conseguente alienazione nel vivere fra due dimensioni, quella domestica, familiare, rassicurante contrapposta a una dimensione a lei estranea, nuova e alla quale vi è la necessità, seppur con fatica, di integrarsi e adattarsi, la portano a sviluppare una sensibilità singolare nei confronti degli accenti e della lingua in generale.

L’interesse per la poesia nasce tra i banchi della St. Joseph’s Convent School, incoraggiata dalla sua insegnante, June Scriven, che ne aveva individuato la naturale inclinazione, ma è la città di Liverpool, dove Carol Ann Duffy si trasferisce nel 1974 per intraprendere gli studi di filosofia, a iniziarla ai numerosi poetry reading messi in scena in città e a farle da scuola di formazione artistica.

A Liverpool Carol Ann frequenta assiduamente Adrian Henri, e fin d’allora tra i due nasce un intenso rapporto affettivo e artistico che originò la composizione dell’opera poetica scritta in coppia e pubblicata in tiratura limitata nel 1977, con il titolo Beauty and the Beast.

Il 1985 è l’anno dell’esordio letterario con la pubblicazione della prima raccolta poetica, Standing Female Nude, accolta assai positivamente dalla critica. Seguono Selling Manhattan (1987), The Other Country (1990), Mean Time (1993), The World’s Wife (1999), Feminine Gospels (2002), Rapture (2005), e The Bees (2011) che le valgono tra i più importanti riconoscimenti poetici, dal Dylan Thomas Award del 1989 per The Other Country al prestigioso T. S. Eliot Prize del 2005 per Rapture, al Costa Book Awards per la penultima raccolta della poetessa: The Bees (2011). L’ultima antologia poetica pubblicata con il titolo Sincerity, è del 2018 ed è stata tradotta in italiano da Bernardino Nera e Floriana Marinzuli, nel 2020 per l’editore Ladolfi.

Il 1 maggio 2009 Carol Ann Duffy viene nominata Poet Laureate del Regno Unito. Oltre a essere consacrata ufficialmente voce poetica più significativa e amata del paese, la sua nomina segna una svolta memorabile nella tradizione letteraria britannica. È difatti la prima donna, omosessuale dichiarata, a rivestire tale carica in 341 anni di laureateship al maschile. Nel succedere ad Andrew Motion, Duffy si dichiara onorata dell’incarico e non nasconde di aver umilmente accettato a nome di tutte le donne, proprio perché nessun’altra prima di allora era stata insignita di tale onorificenza.

La nomina a Poet Laureate di Carol Ann Duffy segna finalmente l’agognato riconoscimento da parte delle istituzioni della poetessa a figura pubblica.

L’incarico conferitole dalla Regina Elisabetta, che prevede la composizione di versi in occasione di eventi ufficiali, ha dato nuova linfa al suo genio creativo e ha messo fine a un lungo periodo di silenzio, segnato dalla grave perdita della madre e dalla separazione dalla poetessa scozzese Jackie Kay.

L’antologia Lo splendore del tempio, pubblicata dall’editore Crocetti nel 2012, dalla quale sono tratte alcune delle poesie tradotte in italiano da Bernardino Nera e Floriana Marinzuli che presentiamo ai lettori del blog, include in maniera completa ed esaustiva gran parte delle poesie d’amore pubblicate dal 1985, compreso l’intero indice di un’antologia pubblicata nel 2010 con il titolo Love Poems. L’opera, insignita nel 2013 con il Premio Achille Marazza per la traduzione poetica, rappresenta una silloge i cui testi di volta in volta trattano i molteplici volti dell’amore, nelle sue diverse declinazioni e manifestazioni di passione, brama e struggimento che si tramutano in stati di sofferenza, separazione, perdita e lutto, e al contempo giocano sull’elemento dell’ambiguità nei riguardi dell’oggetto del desiderio, al quale sovente non è dato né un nome né un’identità specifici, innescando in tal modo un’opera di esplorazione e rinegoziazione dei rapporti tra innamorati con l’intento, da parte della poetessa, di sovvertire la divisione sbilanciata di potere tra uomo e donna, amante e amata su cui da sempre la tradizione lirica amorosa si è basata. Continua a leggere

Il poeta cileno Mario Meléndez

Mario Meléndez

ARTE POETICA

 

Una mucca pascola nella nostra memoria
il sangue scappa dalle mammelle
il paesaggio è ucciso da uno sparo

La mucca insiste nella sua routine
la sua coda spaventa la noia
il paesaggio risuscita al rallentatore

La mucca abbandona il paesaggio
continuiamo a sentire i muggiti
la nostra memoria adesso pascola
in quell’immensa solitudine

Il paesaggio lascia la nostra memoria
le parole cambiano nome
ci soffermiamo a piangere
sulla pagina in bianco

Ora la mucca pascola nel vuoto
le parole stanno sulla sua groppa
il linguaggio si burla di noi

 

ARTE POÉTICA

Una vaca pasta en nuestra memoria
la sangre escapa de las ubres
el paisaje es muerto de un disparo

La vaca insiste con su rutina
su cola espanta el aburrimiento
el paisaje resucita en cámara lenta

La vaca abandona el paisaje
continuamos escuchando los mugidos
nuestra memoria pasta ahora
en esa inmensa soledad

El paisaje deja nuestra memoria
las palabras cambian de nombre
nos quedamos llorando
sobre la página en blanco

La vaca pasta ahora en el vacío
las palabras están montadas sobre ella
el lenguaje se burla de nosotros Continua a leggere

Rosmarie Waldrop, “La riproduzione dei profili”

Rosmarie Waldrop

FATTI

 

Avevo dedotto dalle immagini che il mondo era reale e per questo mi fermavo, perché chi sa cosa può accadere se parliamo di verità salendo le scale. Di fatto, avevo paura di seguire l’immagine fino a dove raggiunge la realtà, contro cui si poggia come un righello. Pensavo che sarei morta se il mio nome non mi avesse toccata, o se l’avesse fatto soltanto con la sua estremità, lasciando l’interno aperto a così tante antenne come una pioggia casuale che scroscia dalle nuvole. Hai riso e hai detto a tutti che avevo preso la Torre di Babele per Noè nella sua Ebbrezza.

*

Non volevo prendere, nella mia mano fredda, questa strada che mi avrebbe riportata a casa, né seguire il consiglio che mi avevi dato di trovare un altro uomo che mi trattenesse perché lo studio di un’emicrania non avrebbe risolto il problema della sensazione. Tutto quel tempo, provavo a pensare, ma il fiume e la sponda si fondevano in un’unica oscurità, e le parole si appropriavano di significati che le rendevano difficili da usare alla luce del giorno. Credevo che entropia significasse abbracciarmi le gambe strette al corpo così che l’ombra del ponte sul Seekonk potesse scriversi nel mozzo della sua ruota abbandonata.

*

Nella mia immagine del mondo la parte accidentale cade con la pioggia. Qualche volta, di notte, l’aria diluita. Mi hai detto che le case più povere, giù lungo il fiume, portano ancora il segno dell’inondazione, ma il mondo si divide in fatti simili a vagabondi sorpresi e scompigliati da un vento improvviso. Quando hai smesso di preparare citazioni dai misogini dell’antichità era chiaro che avresti presto dimenticato la mia strada.

 

FACTS

 

I had inferred from pictures that the world was real and therefore paused, for who knows what will happen if we talk truth while climbing the stairs. In fact, I was afraid of following the picture to where it reaches right out into reality, laid against it like a ruler. I thought I would die if my name didn’t touch me, or only with its very end, leaving the inside open to so many feelers like chance rain pouring down from the clouds. You laughed and told everybody that I had mistaken the Tower of Babel for Noah in his Drunkenness.

*

I didn’t want to take this street which would lead me back home, by my own cold hand, or your advice to find some other man to hold me because studying one headache would not solve the problem of sensation. All this time, I was trying to think, but the river and the bank fused into common darkness, and words took on meanings that made them hard to use in daylight. I believed entropy meant hugging my legs close to my body so that the shadow of the bridge over the Seekonk could be written into the hub of its abandoned swivel.

*

The proportion of accident in my picture of the world falls with the rain. Sometimes, at night, diluted air. You told me that the poorer houses down by the river still mark the level of the flood, but the world divides into facts like surprised wanderers disheveled by a sudden wind. When you stopped preparing quotes from the ancient misogynists it was clear that you would soon forget my street.

Rosmarie Waldrop, La riproduzione dei profili, a cura di Maristella Bonomo, nella collana “Le Meteore”, a cura di Domenico Brancale e Anna Ruchat, per FinisTerrae di Ibis, Pavia 2021.

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La poesia di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni

L’arte del montaggio: Gabriele Galloni, Creatura breve, Ensemble, 2018
di Giuseppe Martella

 

Per comprendere a fondo la poesia di Gabriele Galloni, è bene tenere a mente le preziose indicazioni che egli ci ha offerto in diverse occasioni, a partire dall’intervista concessa a Michele Paoletti su Laboratori di poesia, dove, alla domanda su come nascano le sue poesie, risponde: “Di solito parto da un’immagine, un fotogramma di vicenda, una situazione – la narrativa non mi abbandona mai. Cerco di misurare e limare quello che voglio dire; lo costringo nella melodia della metrica, che mi permette di consumare il consumabile nel modo migliore possibile – cioè puntando all’essenziale e senza sprechi linguistici. Altre volte invece mi visita improvviso un verso, undici sillabe perfette, e da lì continuo sviluppando o riducendo, mutilando.” Questa bipolarità caratteristica della inventio di Gabriele è un indizio di un più decisivo dualismo che caratterizza la sua poetica: quello fra immagine e parola, che si manifesta poi con diverse modalità e a diversi livelli nei suoi vari testi. Come se fra l’ordine verbale (più pacato e tradizionale) e quello iconico (più convulso e sovversivo) corresse una continua tensione, irriducibile all’unità di un solo codice. Si tratta di un dialogismo radicale che non riguarda solo o tanto l’ambito dei generi letterari, coinvolgendo invece i vari media della espressione artistica, come se i suoi versi costituissero nel contempo gli appunti di una sceneggiatura cinematografica in fieri.

Le sue poesie nascono dunque da una istantanea che contiene un nucleo narrativo che poi si sgrana nel rosario dei versi da cui attinge da un lato la misura e dall’altro la possibilità della messa a fuoco di qualche dettaglio, nel gioco degli stacchi e dei controcampi, proprio come nell’esercizio del montaggio cinematografico. In questo duplice movimento si realizza in senso tecnico quella tensione fra discorso e figura, o fra vita e forma, che anima da un lato il testo artistico e dall’altro la creatura vivente, per quanto breve sia il tempo della sua esposizione allo sguardo altrui. E’ ciò che io chiamo poetica del foto-gramma intendendo con ciò la resa (o l’arrendersi) dell’istantanea nella traccia chirografica e nella gabbia del verso. Non si tratta dunque solo della traduzione dell’immagine viva in segni inerti, didascalie della vita, ma anche della tensione irrisolta fra due tipi di segno, l’icona e il simbolo, come se fossero entrati in un vortice gravitazionale che conduce a uno stravolgimento dello spazio-tempo del discorso: come nel vertice di una clessidra, o spirale di un passaggio epocale, doppia elica che segna il fissarsi di una traccia (treccia) nel DNA dell’esserci qui ed ora della “creatura breve”. Del Fanciullo Divino, il poeta millennial, scrittore ed editor di immagini, che si cala nella sua cesura epocale, giocando ai limiti della trasparenza dove ogni ritocco è a rischio di cancellazione.

Poetica del fotogramma, intesa poi anche nel senso proprio della istantanea predisposta al montaggio cinematografico o digitale, ma pertanto sempre esposta al rischio di essere scartata dalla versione finale del film, per diventare appunto un out take, come recita il titolo della prima lirica di questa silloge che ci dà la chiave per l’interpretazione di tutta la produzione di Galloni, che obbedisce a una poetica del ritaglio e del prelievo, del ritocco e della cancellazione, operando sulla soglia che distingue l’epoca della rappresentazione da quella della simulazione e la civiltà letteraria da quella digitale, fondendo l’ontologia dell’icona con quella del simbolo. Perché qui si tratta di un montaggio anomalo, spurio, che coniuga immagini e parole senza risolverne il dissidio, mantenendole in una esitazione prolungata che complica di fatto quella canonica fra suono e senso, caratteristica di tutta la poesia. La complica assumendola come un’eredità defunta, da un lato, e dall’altro consegnandola all’interazione con l’immagine-movimento, così come i nostri trapassati sono “le didascalie del mondo” e “l’indicibile/ della conversazione” e la loro musica “il contrappunto/ dei passi sulla terra”, per usare immagini tratte dalla silloge precedente che pone tra l’altro anche una domanda cruciale sul destino della creatura breve e della sua traccia, del singolo e della specie umana.

I due testi sono infatti intimamente connessi nella loro struttura radicale, al di qua della tematica stessa. Se insieme a Slittamenti e a In che luce cadranno questa Creatura breve è infatti terza di una trilogia, bisogna precisare però che si tratta della costola di una costola, dal momento che Slittamenti costituisce il repertorio tematico-strutturale da cui viene poi estratta ed espansa la pantomima dei morti viventi, di cui a sua volta Creatura breve costituisce un ritaglio che ne espande certi dettagli, mostrando scorci inediti e sorprendenti. Si tratta dunque a mio avviso di un’opera cruciale nella breve carriera di Galloni, come uno spasma rivelatore del “poco tempo concesso all’autore”[1], perché qui raggiungiamo il massimo della contrazione del discorso e le sue figure raggiungono la massa critica, scomponendosi in gesti spasmodici che preparano il Big Bang, quella loro dissoluzione in atmosfera che si attuerà mirabilmente nell’Estate del mondo. Se è vero infatti che qui si interroga la natura della brevitas letteraria in quanto tale, sondando i limiti dell’aforisma e dell’epigramma in quanto forme di chiusura del senso nello spazio chirografico, tali limiti si sfumano e sfrangiano poi nel rinvio all’immagine, nel passaggio di genere dal racconto alla sceneggiatura, nella mutazione funzionale della scrittura dal momento che è divenuta un pretesto di quel racconto per immagini che è il film e più in generale di tutte le composizioni audiovisive che gli hanno fatto seguito. Di queste mutazioni Creatura a breve reca una traccia da non sottovalutare perché, se in una prospettiva puramente letteraria questa silloge è probabilmente la meno riuscita della triade, nella dimensione intermediale in cui effettivamente opera essa è assolutamente rivelatrice della poetica di Galloni, in quanto nuovo paradigma in cui comprendere la poesia dei millennials. In questa prospettiva essa dischiude anche la bellezza e il valore di una serie di gemme in sottotraccia, perché il terreno di questo discorso porta le crepe, i segni di un terremoto metafisico. Si osservi infatti la struttura frattale dell’opera intera di Galloni, di cui ogni parte riprende il disegno dell’intero come in un effetto zoom in cui affiorano particolari imprevisti, veri e propri annunci angelici icasticamente e perversamente condensati per esempio nello sperma che l’angelo pazzo e muto depone in bocca alla Vergine o alla Beatrice di turno (8.) Messaggio in codice genetico (16), fenotipica torsione di ogni progetto esistenziale o storico, nonché dell’intero genere della profezia biblica, mutazione della parola incarnata (poetica o evangelica) in quanto testimonianza dell’offerta del Creatore che si fa creatura, e più in generale del sacrificio del capro espiatorio di turno (parte maledetta e pietra angolare di ogni comunità immaginabile) e della sua trasfigurazione nel Dio di un popolo. O si prenda per l’appunto il tema dei “morti viventi”, prelevato di peso dalla raccolta precedente e messo subito a fuoco e a soqquadro all’inizio di questa silloge, come scarto di montaggio, Outtake recuperato, messo in rilievo e riassunto in una immagine folgorante che coniuga il destino della eredità culturale con quello della speculazione, affondando nel medesimo naufragio il retaggio della civiltà letteraria e l’atto della sua rappresentazione: “I morti naufragano negli specchi.” (7) Da cui emergono poi, nello spazio della simulazione intermediale, squisiti e blasfemi, osceni e perversi, gli ologrammi della nuda vita. Naufragio epocale alla presenza di una divinità interdetta e ammutolita, nel vortice di angeli ed annunci che segna il nuovo gioco del mondo: “Giocammo a ciò che ci sembrava/ essere il gioco giocato dagli angeli -/ ma Lui non potrebbe mai dirvelo.” (9) Continua a leggere

Biennale Venezia/Leoni per il Teatro

Krzysztof Warlikowski (FOTO M. STANKIEWICZ)

 

Krzysztof Warlikowski Leone d’oro alla carriera

Kae Tempest Leone d’argento

E’ il regista polacco Krzysztof Warlikowski, figura emblematica del teatro post comunista che ha marcato la scena internazionale creando visioni memorabili, il Leone d’oro alla carriera per il Teatro 2021.

Il Leone d’argento è tributato all’inglese Kae Tempest, insieme poeta, autore per il teatro e di testi narrativi, rapper e performer di travolgenti e affollatissimi reading.

Lo ha deliberato il Consiglio di Amministrazione della Biennale di Venezia accogliendo la proposta di ricci/forte (Stefano Ricci e Gianni Forte), direttori del settore Teatro.

La premiazione avrà luogo nel corso del 49. Festival Internazionale del Teatro (2 > 11 luglio).

“Da più di vent’anni Krzysztof Warlikowski – secondo la motivazione – è fautore di un profondo rinnovamento del linguaggio teatrale europeo. Utilizzando anche riferimenti cinematografici, un uso originale del video e inventando nuove forme di spettacolo atte a ristabilire il legame tra l’opera teatrale e il pubblico, Warlikowski sprona quest’ultimo a strappare il fondale di carta della propria vita e scoprire cosa nasconde realmente”.

Presente con le sue regie teatrali nei maggiori festival di tutto il mondo – dall’Europa alle Americhe – e con i suoi allestimenti lirici nei più importanti teatri d’opera – da Parigi a Londra e Salisburgo – Krzysztof Warlikowski è “un artista libero – scrivono ricci/forte – che apre brecce poetiche illuminando con un fascio di luce cruda il rovescio della  medaglia;  che  rompe  la  crosta  delle  cose  toccando le coscienze; che scende nelle viscere del dolore e mette in discussione con ironia le ambiguità sia della Storia con la “s” maiuscola sia quelle della nostra esistenza individuale, offrendoci la visione di una società minacciata da cambiamenti radicali e sempre più assediata da una tentacolare classe dirigente di predatori famelici, evidenziando la violenza nei rapporti sociali e familiari e il bisogno urgente che l’emozione di un puro e semplice desiderio d’amore ci può donare”.

Kae Tempest (FOTO JULIAN BROAD)

Kae Tempest è “la voce poetica più potente e innovativa emersa nella Spoken Word Poetry degli ultimi anni – recita la motivazione – capace di scalare le classifiche editoriali inglesi e raccogliere consensi al di fuori dei confini nazionali per il coraggio ardimentoso nel dissezionare e raccontare con sguardo lucido angosce, solitudine, paure e precarietà di vivere, i più invisibili eppure concreti compagni di vita della nostra epoca – tra identità, ipocrisie e marginalità vissute anche sulla sua pelle – scaraventandosi contro l’odierna morale imperante e opprimente.
Kae Tempest, con una candidatura ai Brit Awards 2018 e riconoscimenti intitolati a Ted Hughes e T. S. Eliot, è ora attribuito il Leone d’argento per il Teatro 2021 – scrivono ricci/forte – “per l’audacia luminosa nel posizionare deflagranti inneschi riflessivi e per voler ancora sperimentare in un genere definito di nicchia, come la poesia, mescolando l’aulico con il basso, la rabbia con la dolcezza degli affetti – tra versi e rime taglienti di shakespeariana memoria e dal forte contenuto sociale, miti classici e ibridazioni hip hop – arrivando a parlare col cuore a un pubblico sempre più vasto, entrandoti fin dentro le ossa, costringendoti a specchiarti nella tua dolorosa intimità”.

The Book of Traps & Lessons è l’ultimo dei leggendari reading di Kae Tempest che verrà presentato in prima per l’Italia al 49. Festival Internazionale del Teatro. Continua a leggere