Louise Glück, la voce della poesia

Louise Glück

    

  TIMOR MORTIS


 Why are you afraid?

 A man in a top hat passed under the bedroom window.
 I couldn’t have been
 more than four at the time.

 It was a dream: I saw him
 when I was high up, where I should have been
 safe from him.

 Do you remember your childhood?

 When the dream ended
 terror remained. I lay in my bed—
 my crib maybe.

 I dreamed I was kidnapped. That means
 I knew what love was,
 how it places the soul in jeopardy.
 I knew. I substituted my body.

 But you were hostage?

 I was afraid of love, of being taken away.
 Everyone afraid of love is afraid of death.

 I pretended indifference
 even in the presence of love, in the presence of hunger.
 And the more deeply I felt
 the less able I was to respond.

 Do you remember your childhood?

 I understood that the magnitude of these gifts
 was balanced by the scope of my rejection.

 Do you remember your childhood?

 I lay in the forest.
 Still, more still than any living creature.
 Watching the sun rise.

 And I remember once my mother turning away from me
 in great anger. Or perhaps it was grief.
 Because for all she had given me,
 for all her love, I failed to show gratitude.
 And I made no sign of understanding.

 For which I was never forgiven.

 Louise Glück


 TIMOR MORTIS


 Perché sei spaventata?

 Un uomo dall'alto cappello passò sotto la finestra della camera da 
                                                                                                            letto.

 Non dovevo avere
 più di quattro anni allora.

 Era un sogno: lo vidi
 quando ero in alto, dove avrei dovuto essere
 al sicuro da lui.
 
 Ti ricordi la tua infanzia?

 Quando il sogno finì
 il terrore rimase. Giacevo nel mio letto -
 nella mia culla forse.

 Sognai che ero stata rapita. Questo significa
 che sapevo cosa fosse l'amore,
 come metta a rischio l'anima.
 Lo sapevo. Sostituii il mio corpo.

 Ma eri un ostaggio?

 Avevo paura dell'amore, di essere portata via.
 Chiunque ha paura dell'amore ha paura della morte.

 Facevo finta di essere indifferente
 anche in presenza dell'amore, in presenza della fame.
 E più profondamente sentivo
 meno ero in grado di reagire.

 Ti ricordi la tua infanzia?

 Capii che ha la grandezza di questi doni
 era bilanciata dal mio rifiuto.

 Ti ricordi della tua infanzia?

 Giacevo nella foresta.
 Immobile, più immobile di ogni creatura vivente.
 Guardando il sole spuntare.

 E ricordo una volta in cui mia madre distolse il viso da me
 con grande rabbia. O forse era pena.
 Perché per tutto quello che mi aveva dato,
 per tutto il suo malore, non ero riuscita a mostrare gratitudine.
 E non detti alcun segno di comprensione.

 Per questo non fui mai perdonata.

Da Nuovi poeti americani, a cura di Elisa Biagini, Einaudi, 2020

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Piero Bigongiari, “l’amore del mondo”

Piero Bigongiari

 Il tuo occhio guarda nel fuoco
 la visione brucia
 un gelo nutre il seme della luce
 nel ghiaccio, la banchisa
 celeste si sfa.
 Io non so quel che è stato
 la terra si cretta, escono scorpioni
 il ragno sale al centro della tela
 il mare opina
 che il sole esiste per tingersi di terra
 sulle acque pensieroso.
 Non oso, amore, non oso
 chiamarti.
 Appoggiata a una domanda non è una risposta
 ma tutto l’amore del mondo
 è una parola.

 Piero Bigongiari, una poesia da Antimateria, Mondadori, 1972

 ***

 Ti perdo per trovarti, costellato
 di passi morti ti cammino accanto
 rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
 nella notte ti finge un po’ di rosa.

 Quali muri mutevoli, tu sposa
 notturna, quale spazio abbandonato
 arretri al niveo piede, al collo armato
 del silenzio dei cerei paradisi

 che in festoni di rose s’allontanano?
 Eco in un’eco, mi ricordo il verde
 tenero d’uno sguardo che dicevi
 doloroso, posato non sai dove

 di te, scoccato dentro il misterioso
 pianto ch’era il tuo riso. Oh, non io oso
 fermarti! non i muri che dissipano
 di bocci fatui un’ora inghirlandata.

 Odi il tempo precipita: stellata,
 non so, ma pure sola Arianna muove
 dalla sua fedeltà mortale verso
 dove il passo ritrova l’altra danza.

 Piero Bigongiari, una poesia da La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1992

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La luce incerta di Sandro Penna

Sandro Penna, fotografato a Roma nella sua casa in Via della Mola de’ fiorentini, sul lungotevere

 La vita… è ricordarsi di un risveglio
 triste in un treno all’alba: aver veduto
 fuori la luce incerta: aver sentito
 nel corpo rotto la malinconia
 vergine e aspra dell’aria pungente.

 Ma ricordarsi la liberazione
 improvvisa è più dolce: a me vicino
 un marinaio giovane: l’azzurro
 e il bianco della sua divisa e fuori
 un mare tutto fresco di colore.

 ***

 Mi nasconda la notte e il dolce vento.
 Da casa mia cacciato e a te venuto
 mio romantico amico fiume lento.

 Guardo il cielo e le nuvole e le luci
 degli uomini laggiù così lontani
 sempre da me. Ed io non so chi voglio
 amare ormai se non il mio dolore.

 La luna si nasconde e poi riappare
 — lenta vicenda inutilmente mossa
 sovra il mio capo stanco di guardare.

 ***

 Felice chi è diverso
 essendo egli diverso.
 Ma guai a chi è diverso
 essendo egli comune.

 ***

 Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.
 Ma più belli di te ragazzi ancora
 dormiranno nel sole in riva al mare.
 Ma non saremo che noi stessi ancora.

 ***

 Talvolta, camminando per la via
 non t’è venuto accanto a una finestra
 illuminata dire un nome, o notte?
 Rispondeva soltanto il tuo giudizio.
 Ma le stelle brillavano ugualmente.
 E il mio cuore batteva per me solo.

 ***

 Io vivere vorrei addormentato
 entro il dolce rumore della vita.

 da: Sandro Penna, Poesie, Milano Garzanti, 2000

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Gli occhi di Valerio Magrelli

Valerio Magrelli

 Ho spesso immaginato che gli sguardi
 sopravvivano all’atto del vedere
 come fossero aste,
 tragitti misurati, lance
 in una battaglia.
 Allora penso che dentro una stanza
 appena abbandonata
 simili tratti debbano restare
 qualche tempo sospesi ed incrociati
 nell’equilibrio del loro disegno
 intatti e sovrapposti come i legni
 dello shangai.

 

 

E la crepa nella tazza apre
 un sentiero alla terra dei morti”
 (W.H.Auden)

...come quando una crepa
  attraversa una tazza
 (R.M.Rilke)

 

 Ricevo da te una tazza
 rossa per bere ai miei giorni
 uno ad uno
 nelle mattine pallide, le perle
 della lunga collana della sete.
 E se cadrà rompendosi, distrutto,
 io, dalla compasione,
 penserò a ripararla,
 per proseguire i baci ininterrotti.
 E ogni volta che il manico
 o l’orlo s’incrineranno
 tornerò a incollarli
 finché il mio amore
 non avrà compiuto
 l’oper dura e lenta del mosaico.

 ***

 Scende lungo il declivio
 candido della tazza
 lungo l’interno concavo
 e luccicante, simile alla folgore,
 la crepa,
 nera, fissa,
 segno di un temporale
 che continua a tuonare
 sopra il passaggio sonoro,
 di smalto.

 Da: Valerio Magrelli, Nature e venature, Mondadori, 1987

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