Il Nobel svedese Tomas Tranströmer

Tomas Tranströmer Premio Nobel Letteratura 2011

UNA NOTTE D’INVERNO

La tempesta poggia la sua bocca alla casa
e soffia per emettere un suono.
Dormo inquieto, mi giro, leggo
il testo della tempesta assopita.

Ma gli occhi del bambino sono spalancati al buio
e il temporale mugola per lui.
Entrambi amano le lampade che dondolano.
Entrambi sono a metà strada dal linguaggio.

La tempesta ha mani infantili e ali.
La carovana si lancia verso la Lapponia.
E la casa avverte la sua costellazione di chiodi
che tiene insieme le pareti.

La notte è immobile sul nostro pavimento
(dove tutti i passi attutiti
riposano come foglie affondate in uno stagno)
ma fuori infuria la notte!

Sul mondo passa una piú grave tempesta.
Poggia la sua bocca alla nostra anima
e soffia per emettere un suono – temiamo
che la tempesta soffiando ci svuoti.

***

EPILOGO

Dicembre. La Svezia è una nave malandata
in missione. Contro il cielo del tramonto sta
il suo albero aspro. E il tramonto è più lungo
di un giorno – la via che porta qui è sassosa:
solo verso mezzogiorno esce la luce
e il colosseo dell’inverno si alza,
illuminato da nuvole irreali. Allora sale d’un tratto
vertiginoso il fumo bianco
dai villaggi. Altissime stanno le nuvole.
Alle radici dell’albero celeste fruga il mare,
distratto, come in ascolto di qualcosa.
(Invisibile viaggia sull’altra metà
dell’anima un uccello che sveglia
chi dorme con le sue grida. Così il telescopio
gira, cattura un altro tempo
ed è estate: mugghiano le montagne, gonfie
di luce e il ruscello solleva lo scintillío del sole
nella mano trasparente… sparito in quell’attimo
come quando la pellicola di un film si spezza al buio.)

Ora l’astro della sera brucia attraverso la nuvola.
Alberi, recinti e case aumentano, crescono
nella silenziosa slavina che precipita nel buio.
E sotto la stella ancor più si suscita
l’altro paesaggio nascosto che vive
la vita dei confini sulla radiografia della notte.
Un’ombra trascina la sua slitta tra le case.
Stanno in attesa.

***

SFERE DI FUOCO

Nei mesi oscuri la mia vita scintillava
Solo quando ti amavo.
Come la lucciola si accende e si spegne, si accende e si spegne,
dai bagliori si può seguire il suo cammino
nel buio della notte tra gli ulivi.

Nei mesi oscuri l’anima stava rannicchiata
e senza vita
ma il corpo veniva dritto verso di te.
Il cielo notturno mugghiava.
Furtivi mungevamo il cosmo e siamo sopravvissuti.

Tomas Tranströmer da: Poesia del silenzio, Crocetti Editore (Milano, 2001, 2008, 2011), a cura di Maria Cristina Lombardi
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Eugenio Montale, l’ora del dolore

Eugenio Montale

NOTA DI LETTURA DI FABRIZIO FANTONI

Raro e prezioso ci appare questo componimento di Thomas Stearns Eliot “Canto di Simeone” nella superba traduzione di Eugenio Montale.

Il testo prende le mosse dalla figura biblica di Simeone – uomo giusto e timorato di Dio che attendeva la consolazione di Israele – trasfigurandolo nella dimensione archetipica dell’essere umano che resiste con speranza alle avversità della vita.

Straordinario l’incipit del componimento contrassegnato dall’uso del correlativo oggettivo – “Signore, i giacinti romani fioriscono nei vasi” – che allude all’occupazione militare della Terra Santa da parte dei Romani.

Nei versi di Eliot, Simeone non è il sacerdote ispirato da Dio, ma un semplice uomo anziano che nella sua invocazione confessa la sua fragilità e i suoi timori per il futuro dei suoi congiunti: “Chi penserà al mio tetto, dove vivranno i figli dei miei figli/ quando arriverà il giorno del dolore?”

In questi giorni di clausura e di incertezza per tutti, la figura di Simeone tratteggiata da Eliot ed il suo grido di speranza lanciato verso il cielo ci appare come la forma più civile e densa di resistenza al caos.

Siamo noi Simeone, siamo noi ad invocare la pace “ prima che giunga l’ora di un materno dolore”.

Canto di Simeone

Signore, i giacinti romani fioriscono nei vasi
e il sole d’inverno rade i colli nevicati:
l’ostinata stagione si diffonde…
La mia vita leggera attende il vento di morte
come piuma sul dorso della mano.
La polvere nel sole e il ricordo negli angoli
attendono il vento che corre freddo alla terra deserta.

Accordaci la pace.
Molti anni camminai tra queste mura,
serbai fede e digiuno, provvedetti
ai poveri, ebbi e resi onori ed agi.
Nessuno fu respinto alla mia porta.
Chi penserà al mio tetto, dove vivranno i figli dei miei figli,
quando arriverà il giorno del dolore?
Prenderanno il sentiero delle capre, la tana delle volpi
fuggendo i volti ignoti e le spade straniere.
Prima che tempo sia di corde verghe e lamenti
dacci la pace tua.

Prima che sia la sosta nei monti desolati,
prima che giunga l’ora di un materno dolore,
in quest’età di nascita e di morte
possa il Figliuolo, il Verbo non pronunciante ancora e impronunciato
dar la consolazione d’Israele
a un uomo che ha ottant’anni e che non ha domani.

Secondo la promessa
soffrirà chi Ti loda a ogni generazione,
tra gloria e scherno, luce sopra luce,
e la scala dei santi ascenderà.
Non martirio per me -estasi di pensiero e di preghiera-
nè la visione estrema.
Concedimi la pace.
(Ed una spada passerà il tuo cuore,
anche il tuo cuore).
Sono stanco della mia vita e di quella di chi verrà.
Muoio della mia morte e di quella di chi poi morrà.
Fa’ che il tuo servo partendo
veda la tua salvezza.

(Traduzione di Eugenio Montale) Continua a leggere

Quando quaranta inverni assedieranno la tua fronte

Camelie rosse, a tutte le donne ph. Luigia Sorrentino

Quando quaranta inverni faranno assedio alla tua fronte

Quando quaranta inverni faranno assedio alla tua fronte
Scavando trincee fonde nel campo della tua bellezza,
L’imponente livrea dell’ammirata giovinezza
Sarà ridotta a uno straccio d’abito tenuto in poco conto:
Se allora si chiedesse dove la tua bellezza giace,
Dove tutto il tesoro dei giorni caldi di vigore,
Dire: nei tuoi propri occhi infossati profondamente,
Mostrerebbe con indiscreta lode, ingiuria implacabile.
Ma quale lode ispirerebbe la tua bellezza logora
Se tu potessi replicare: “Questo mio ragazzino,
Assolverà il mio debito, scusabile farà ch’io invecchi”,
La sua bellezza dimostrandosi, per successione, tua!
Sarebbe il tuo rinnovamento quando già sarai vecchio,
Vedresti il tuo sangue ardere quando già ne sentirai il gelo.

 

William Shakespeare

(Traduzione di Giuseppe Ungaretti) Continua a leggere

Corrado Benigni, “Nell’occhio di Medusa”

NOTA DI LETTURA DI LORENZO CHIUCHIU’

Là fuori di Corrado Benigni può essere letto come parte di una trilogia che comprende i precedenti Tribunale della mente e Tempo riflesso.

Premio Ciampi Valigie Rosse del 2020, la raccolta completa un itinerario verso una realtà che, di libro in libro, perde sempre più i propri connotati realistici.

Per Là fuori non solo la res cogitans, ma anche la res extensa sono immagini mentali. E da Berkeley a Schopenhauer che la differenza fra cogitatio e extensio sia discriminabile è dubbio. La mente vede immagini (la traccia mnemonica di cose fuori dalla mente) e immagini di immagini (immagine di ciò che non è fuori dalla mente, o perché non ancora o non più presente, o perché inesistente, immaginata).

I rimandi alla fotografia (si vedano le belle fotografie di Olivo Barbieri che scandiscono il libro) hanno per Benigni una ragione poetologica: lungi dall’essere un occhio senza interiorità, lastra neutra impressa, la fotografia è proprio il contrario: esposizione di ciò che appartiene al senso interno, immagine conformata da una mente particolare. La fotografia non fa insomma che esibire l’immagine mentale, le impressioni dell’anima fuori dall’anima, irrevocabilmente esposte, sottratte all’interiorità.

«L’occhio è un organo per affondare nell’esterno / come pietra, lama, radice». L’esterno si scopre essere la mente del poeta che ne fa immagine: «La casa di fronte è un’immagine della mente», scrive Benigni.

Che poi la realtà corrisponda all’immagine mentale a volte è incerto («Ciò che non appare / e rimane informe all’evidenza»), altre volte è impossibile: «Il visibile» è una traccia di «ciò che non esiste».

«Sappiamo quello che i nostri occhi vedono / ma scriviamo per riprodurre un difetto della vista»: scriviamo cioè per rintracciare il punto cieco che corrisponde a un punto d’arresto del tempo dove si intuisce «ciò che non appare» e «ciò che non esiste». Quello che vediamo sono

figure cariche di tempo, sfigurate
in perenne lotta con il fondo che le trattiene.

Le figure sono associate al tempo perché il tempo non è che la dimensione del senso interno determinato dal susseguirsi di immagini mentali: tempo riflesso. Non esiste tempo al di fuori della successione di immagini nella nostra mente.
Il «difetto della vista» arrestando il fluire delle immagini sospende il tempo, intuisce un «fondo» che trattiene l’immagine definitiva:

alla cieca cerchiamo l’immagine definitiva
di ciò che siamo.

È noto che Perseo uccise Medusa difendendosi dal suo sguardo con un’immagine riflessa: si avvicinò alla Gorgone di spalle, osservandola attraverso il riverbero dello scudo. Perseo scherma la sua mente osservando il riflesso di un’immagine che pietrifica, ovvero di un’istantanea sottratta al tempo.

La fotografia e l’anguicrinita sono sorelle, il tempo è una parentesi prima dell’avvento dell’immagine definitiva:

Così il tempo trova in noi
la sua durata, la sua salvezza,
prima che tutto torni nell’occhio della Medusa. Continua a leggere

Ucciso il poeta K Zar Win

K Zar Win

UN INTERVENTO DI CARLA BURANELLO

Il poeta del Myanmar K ZAR WIN è stato ucciso

Un movimento non violento di disobbedienza civile si sta diffondendo nel Myanmar per protestare contro il colpo di stato militare che il primo febbraio di quest’anno ha imposto per un anno lo stato di emergenza.

Le forze di polizia stanno rispondendo con violenza.

Mercoledì 3 marzo 2021 sono rimasti uccisi, in un solo giorno, 38 manifestanti. Numerose altri, tra cui anche giornalisti e reporter, sono stati tratti in arresto.

Secondo Pen America, sono più di 1.100 le persone attualmente detenute in carcere. Tra le vittime due poeti, K Zar Win e Daw Kyi Lin Aye.

Il poeta e traduttore Ko Ko Thett era in contatto con K Zar Win e già a gennaio aveva tradotto in inglese e diffuso una sua poesia, come spiega nel necrologio che segue. Questa poesia è stata ora tradotta anche in italiano e in spagnolo (ed è in corso di traduzione in polacco).

Dal poeta e traduttore Ko Ko Thett:

“Necrologio” : Poeta K Zar Win (1982-2021)

Il poeta K Zar Win, le cui poesie sono apparse su riviste del Myanmar a partire dal 2004, è stato ucciso nel corso di una protesta a Monywa, il 3 marzo 2021. K Zar Win era nato in una famiglia contadina, nel Latpadaung vicino a Monywa, nel 1982. La regione del Laptadaung è luogo di conflitti dal 2010, a seguito del trasferimento forzoso di varie comunità rurali imposto dalla compagnia mineraria cinese Wanbao Copper Mining Ltd.

La violenta repressione della polizia del Myanmar nei confronti degli abitanti in lotta contro l’impresa cinese, rivelò il lato oscuro della “transizione democratica” del Myanmar.

K Zar Win fu uno degli studenti universitari che manifestarono da Mandalay a Yangon nella “Lunga Marcia per le Riforme Educative”. Per questo fu condannato a un anno e un mese di carcere, durante i quali pubblicò “La mia risposta a Ramond”. La poesia che segue è tratta da “La mia risposta a Ramond” che misi in circolazione a gennaio. K Zar Win mi scrisse per dirmi quanto avesse apprezzato la traduzione. Gli risposi:
“Abbi cura di te, fratello”.

Caro Padre,
il Fiume dal ventre
squarciato
ha dichiarato guerra
alla nostra minuscola casa sulla riva, non è così?
Proprio davanti a casa
starai cercando chi
ti aiuti a rafforzare
l’argine con dei pali
per contenere il fiume,
a tappare i buchi con
sacchi di sabbia.
Nell’acqua torbida,
che cresce come il fusto del bambù,
starai guardando
il campo di sesamo –
carico di frutti
pronti per il raccolto.
Starai pensando
al pugno di riso che ti sarà tolto
di bocca con la forza.
Forse troverai conforto
nella religione, contemplerai
i nostri cinque nemici.
Forse penserai
al vuoto
che il lavoro di un figlio può riempire.
Un figlio, due figlie e ancora un figlio;
Il più grande è un poeta in prigione,
la prima figlia, un’insegnante,
la seconda, è diplomata cuoca,
il più piccolo, studia ancora.
Il figlio poeta,
può almeno essere utile
quanto la dah che usi per estirpare le erbacce?
Non perdonare nulla, Padre.
Nulla!
“Pho Chan, figlio,
cosa sono quei rumori intorno a te?”,
hai chiesto al telefono.
“Sono alla fermata dell’autobus
vado a imbucare un articolo per un giornale”, ho mentito.
Da tuo figlio bugiardo sul banco degli imputati
ai delinquenti che ti blandiscono
con le loro lingue puntute,
“Ai nostri benefattori contadini…”,
perché vogliono prenderti alle spalle,
odiali tutti, Padre.
Odiali tutti.
Il ladro non è
armato.
Un delinquente è
armato fino ai denti.
Se i ladri sono ingovernabili,
se i delinquenti sono ingovernabili,
a cosa serve il governo?
Qualunque cosa accada alle giungle
qualunque cosa accada alle montagne
qualunque cosa accada ai fiumi
a loro non importa.
Amano il paese
come amano scavare una noce di cocco,
dall’interno verso l’esterno,
per estrarne il latte.
Mattone dopo mattone, per innalzare il loro trono,
punteranno i fucili all’urna
sulla fronte del Signore Buddha.
Così ostile è il loro stile.
Se la tua religione ti impedisce
di maledire quello stile
lascia che io abbandoni quella religione.
Riporterò l’azzurro nel cielo
per te.
Forse ancora non lo sai
tuo figlio è stato
arrestato
perché ha chiesto alla sedicente polizia
di non fare del male a dei civili.
Un giorno
tuo figlio, che non è un ladro
né un delinquente,
diventerà utile,
proprio come la tua dah che estirpa le erbacce.
Per ora, Padre,
continua a guardare il campo
che hai arato con la forza delle tue spalle nude.
Continua a cantare
l’inno
dell’Unione Contadina.
Sempre tuo,
K Za Win

Cella 1, Sezione 10
Prigione di Thayawaddy

Traduzione di Carla Buranello Continua a leggere