Antonio Bux, “La diga ombra”

Antonio Bux

Povero vento, che a raccordo
chiami le ossa di persone
mai sole… le senti di polvere
e parole come di forza
frangere la vita dove il soffio
tuo sposta soltanto
una eco mai chiara per loro;
un po’ d’eterno, a vole misero,
ma costante, sentirebbero davvero
se in quelle onde annegasse
chiaro il tuo corpo, di vento che voli…
Nascerebbero amori… o destini!
Ma più scemi, nemmeno sanno
di volare con te, né un fianco
smisurato a parte spingerebbe
a volarvi dentro per vederli simili…
Proprio non ce la fanno, e poveri
del tuo vento dimenticano
il corpo così morto, aperto solo
alla carne, ne fanno un rito d’addio.
Di Dio questo loro volere senza volare mai
o tenersi per mano, il consumo
alato di starsene fermi
e tu povero vento che li perdoni frusci
due parole nell’eco, vi sento, vi amo
come l’aria che non sono io vi tengo
per mano ma vi ve ne andate
il mistero non vi interessa.

***

Perché dire un suono. Una figura
non muta al suo risveglio, germina
lontano il geroglifico se parla,
ed è la stessa lingua di vedere
a malapena, sbirciando un prato
l’ombra dove la parola chiama.
Ma un prato, qui, perché dirlo?
Avvolto come in sogno, aprirebbe
al chiaroscuro di ciò che sotto
tende, saprebbe mostrare all’uomo
la curva senza unire, cielo e terra
e una parola così, già sparita.
Perché venire al mondo, allora,
perché parlare e non veder la traccia?
Esseri segreti di un mistero nuovo
avete fatto del tempo suono
senza più parole, dove un uomo ama
anche il suo silenzio; ma dirlo, qui,
a voce strana, sembrerebbe
poco anche per sentire, perché esistere
è la stessa cosa, figura muta umana
il prato continuerebbe a dire.

 

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Due poesie di Antonella Anedda

Antonella Anedda, Photo © Maria Sofia Mormile

Non volevo nomi per morti sconosciuti
eppure volevo che esistessero
volevo che una lingua anonima
– la mia –
parlasse di molte morti anonime.
Ciò che chiamiamo pace
ha solo il breve sollievo della tregua.
Se nome è anche raggiungere se stessi
nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino.
Non ci sonno che luoghi, quelli di un’isola
da cui scrutare il Continente
– l’oriente – le sue guerre
la polvere che gettano a confondere
il verdetto: noi non siamo salvi
noi non salviamo
se non con un coraggio obliquo
con un gesto
di minima luce.

 

***

Mi spingo oltre il dolore
dove nessuno sospetta che si soffra
in una zona di pelle mai colpita
cupa come l’avambraccio
o molata dall’osso come il gomito.
Striscio piano con l’anima coperta da scaglie rosso-grigie
per sostenere i rovi e lasciare a terra
il sangue minimo. Un passo – sono paziente –
e il corpo ha imparato a frusciare dentro l’erba.

Da molto lontano – da un’alba di ottobre
da un oggetto mosso nella sabbia del lago
viene ciò che la pena contempla: un paesaggio
dove non si può dormire.
Era una lunga immagine
il mormorio di un brivido.
Troppo tardi si compone l’astuzia di ogni sera
fingere che il mio braccio sia il tuo
che stringa la mia mano
di nuovo, senza pace.

 

Da Notti di pace occidentale, Donzelli, 1999 Continua a leggere

Riccardo Frolloni, “Corpo striato”

Riccardo Frolloni

sogni I

 

Era lungo la scarpata e i massi e la merda delle vacche
e procedeva bene, a passo svelto, diritto di schiena, nell’aria

leggera della montagna, ognuno attento ai propri piedi
col sudore sotto la camicia e il fiatone, il mal di gola,
nel sonno devo aver perduto la coperta, slabbrato il pigiama
o dimenticato una finestra aperta, così uno spiffero,
un rumore dal fondo delle campagne s’intrufola,
diventa subito un fischio, mio padre già in cima
del primo promontorio, ce ne sarà poi un altro
e un altro ancora, ma neanche una parola, aveva il volto
sereno, da uomo, mi ammoniva di salire, di darmi
un tono, ma io arrancavo, passavo da altre parti, lo perdevo,

lentamente gli altri scomparivano nelle nuvole
o dietro ai sassi, io pure mi facevo più bianco con la pelle
fredda di sudore, mi dicevo non svenire ora, resta sveglio, svegliati.

 

*

 

movimenti I

 

Ci fecero uscire tutti dopo l’ultimo sguardo,
non avevo mai visto il giardino così, la gente

stava in piedi dappertutto, guardavano noi
mezzi scemi, rimbambiti dal piangere, allora

davvero qualcosa era accaduto: prima
la macchia, il cielo, i pioppi intorno, gli stessi.

C’era mia sorella ad aspettarmi e con un respiro
raccolsi tutta l’aria di casa, ed era ancora casa.

 

*

 

 

materiali II

Chi riconosce l’aria della neve
porta guanti di cuoio alle mani
e si passa legna dietro casa,

non ci si dice molto perché
non c’è molto da dire, ogni volta
è come se ci inseguisse qualcosa

le macchine passano per strada
ma più veloci, più sole, trasparenti,
subito rientriamo, odore di polenta,

ci precede un vento che sappiamo
ha il sapore ferroso delle ferite, perché
senza dircelo lo aspettiamo.

 

Riccardo Frolloni, Corpo striato, prefazione di Stefano Colangelo, Industria & Letteratura, 2021

 

 

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Antonio Riccardi, “Ex voto. Tre sogni e un ruggito”

Antonio Riccardi, credits ph. Dino Ignani

 A  N  T  E  P  R  I  M  A      E  D  I  T  O R  I  A  L  E

Pubblichiamo in esclusiva una poesia inedita e una nota di Antonio Riccardi contenute nella plaquette che uscirà con Amos Edizioni a settembre 2021 e che sarà presentata al Festival Pordenonelegge.

 

 

Enigma in forma di alfabeto
Terzo sogno

Ancora in sogno, mio padre plana
dal grande ciliegio del Madone
come se niente fosse e planando
mi parla sottovoce, senza affanno
del nostro podere oggi mal tenuto
a pensarlo nel suo splendore
cinque generazioni prima di noi
quando a tenerlo era Pietro Giovanni
appena chiuso il secolo dei Lumi
e con quello se dio vuole la deriva
la smania di cambiare le cose buone
tanto bene e a lungo pensate.

Non erano mai stati da un’altra parte
in nessun posto, via da Langhirano
dice piegando le ali
come per dire: bisogna capire
aver pazienza con i morti
a volte più che con i vivi…
e per sigillo
prende uno stecco di sambuco
segna in terra vicino a me
due parole con due segni a croce
e un fiore dentro un anello aperto
per dirmi qualcosa che devo capire
un codice che io però non vedo,
non so vedere.

Poi cancella con la mano a taglio,
un gesto largo dal basso in su
e segna in terra una lettera alla volta
per farmi vedere l’enigma del futuro
in forma di alfabeto.

 


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Gario Zappi, “Libro d’argilla”

Puabi

I

o mia dolcissima, Puabi, che di soli astrali, lamine
aurate ri-fulgi, per malte e coralli, per cobalti
di iridi tenui e sfogli d’ocelli variegati iniziali
di nomi, e ri-poni su pastiere di porcellana
fiori-farfalle, memorie d’abissi, segni
di quell’Atlantide spirituale in cui spumeggianti
Titani s’inabissaron tra l’onde: in te
m’adagio, mi dis-solvo nel tuo
sguardo, mi rin-serro, o lamina d’oro che
di soli astrali sei cenno e fulgore, o mia
dolcissima, o
Puabi……..
così, platino e rosmarino, titanio ed euforbia, si sfrangiano
luci sull’acqua: stelle di fonte, arcobaleni, cristalli
sul tavolino: immagini che m’impedirono di
donarti: e ri-trovare le dilacerate mie sensazioni, le
frantumate mie contiguità, il tuo
corpo, astrale bagliore di risonanti effluvii di
Vita……….

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