Daniela Pericone, da “La dimora insonne”

Daniela Pericone, credits ph. Antonio Sollazzo

Restiamo nel folto
che inscena promesse,
l’incerto del bosco è sollievo
ai giorni che non salvano,
scavalco senza respiro perdite
e insonnie – siamo al culmine
o all’esordio della piena –
così d’ognuno la vita, solo
vorrei non dirla divisa
da queste mie mani, se esista
riparo o anneghi la pena
– sperperio, lingua che stenta
e frana anche l’aria.

***

I tuoi fogli, precisa
vaghezza, dimorano
assorti in radure.
Non si cura di loro
la sabbia, solerte ricopre
le rive – non c’è acqua
che basti ai deserti.

***

Tutto è compiuto
le carte dispiegate
contano torri, crolli
irredimibili, tuttavia
non vanisce il prodigio
che c’inventa e non duole –
così dev’essere non tradirsi,
contemplare ostinate
parole tiene unite le crepe.

***

La dimora insonne
consegue il suo silenzio
riposano le carte
mansuete – i suoi labirinti
sono roghi di penombra,
preludio d’ultimo
abbaglio, tenebrore. Continua a leggere

Poesia come traduzione. Amelia Rosselli

Amelia Rosselli, Credits ph. Dino Ignani

 

di GIUSEPPE MARTELLA

L’ipotesi che avanzo in quanto segue, con la massima cautela poiché non sono un italianista di professione, è che la lettura delle poesie giovanili in inglese di Amelia Rosselli che appaiono in Sleep ci offra una chiave preziosa per comprendere la peculiarità e il fascino di tutta la sua produzione.

Questi testi appaiono infatti di una inattualità e di una pregnanza sorprendenti, come fossero estratti dalla matrice del tempo, dall’irripetibile età dell’oro della letteratura inglese, fra Cinque e Seicento, fra Shakespeare e John Donne. Per essere poi proiettati sulla tragedia storica del nostro Novecento, sugli incubi kafkiani di questo secolo breve segnato dalla Shoah e da due guerre mondiali.

Incubi vissuti sulla propria pelle e divenuti saga familiare della poetessa, traumi psicosomatici che ne hanno segnato insieme lo spaesamento esistenziale e la Stimmung poetica, che si può definire come un consapevole delirio prolungato o anche una meditata atonale “arte della fuga” che si arresterà come è noto con un taglio secco come quello dell’ascia che apre la luminosa sequenza di Sleep: “Pray be away/ sang the hatchet as it cut slittingly/ purpled with blood. The earth is made nearly/ round , and fuel is burnt every day of our lives.” “Prego vattene/ cantò l’accetta mentre acuminata tagliava/ imporporandosi di sangue. La terra è fatta quasi/ tonda, e carburante viene bruciato ogni giorno della nostra vita.” (8)

Fatta questa premessa, voglio sviluppare l’ipotesi che tutta l’opera di Rosselli si possa intendere come traduzione da una lingua madre fantasmatica. Lingua madre intendo, l’inglese, perché sua madre era inglese e le avrà probabilmente sussurrato suoni e parole di questa lingua nella prima infanzia; in quella fase precoce di formazione psichica che Lacan chiama “stadio dello specchio” e che si trova mirabilmente condensata nell’antichissimo mito del bambino Dioniso sbranato dai Titani mentre una nutrice gli regge uno specchio in cui egli può vedere i suoi assassini, coi volti coperti di maschere bianche identiche alla sua, circondarlo danzando per farlo infine a pezzi.

E’ il mito della nascita della coscienza individuale dalla nuda vita, dal sentirsi tutt’uno col copro della madre. La lingua materna (fonica, tattile e gestuale) ci offre perciò l’imprinting originario, il sostrato su cui si innesteranno tutte le lingue in seguito acquisite.

I suoi connotati di brusio farfugliante, cantilena, voce-corpo appassionata che detta precocemente la metrica del linguaggio come casa dell’essere, insistendo per essere rimembrata all’occorrenza come ciò che può mutare l’imperativo della legge in un gesto di perdono, appaiono tra le righe di questo mirabile ringraziamento in Sleep: “Pardon in the shape of mother with/ her pale lipstick sticks out/ its tongue at me…And thrice she shifted rule/ into comfort…lisping the three-hatched gum-stuck hole of/ a home: your teats, your mother-/ attitude, your smallest worms, giants/ in the passion.” “Perdono in forma di madre con/ il suo rossetto rosa pallido mi caccia fuori/ la lingua…E tre volte mutò la regola/ in conforto…sondando il campo, farfugliando quel/ buco di casa a tre botole e appiccicato con la/ colla: i tuoi capezzoli, il tuo atteggiamento/ di madre, i tuoi più piccoli vermi, giganti/ nella passione.” (160)

Lingua fantasmatica, però, nel caso della Rosselli, perché la prima parte della sua infanzia fu spesa a Parigi e dunque francese fu il contesto sociale in cui crebbe fino al tragico momento dell’assassinio del padre per mano di sicari fascisti, quando lei aveva sette anni, e dell’inizio delle sue peregrinazioni prima in Inghilterra, poi in Nord America e infine in Italia: della sua “Fuga di morte” (Todesfuge: Celan) fra le lingue del mondo.

In tali peregrinazioni, alcuni anni a suo dire relativamente sereni dell’adolescenza, li trascorse negli Stati Uniti, proprio accanto alla madre, ed è lì che probabilmente la lingua inglese deve avere riaffermato il suo primato poetico nell’espressione di un vissuto travagliato, gettando i semi della splendida fioritura che pochi anni appresso si sarebbe manifestata nelle prime liriche di Sleep (1953), che costituiscono come il preludio di quel lungo sonno-sogno cui avrebbe poi in seguito costantemente anelato come balsamo di una insopportabile tensione psichica, quale appare già in Variazioni belliche (1964) e che sarebbe sfociata infine nella vera e propria psicosi paranoide attestata da Serie Ospedaliera (1969).

In ogni caso è evidente che l’italiano viene buon terzo fra le lingue correntemente parlate dalla poetessa, manifestando infatti quelle improprietà e idiosincrasie, inciampi e giri di frasi inconsueti, che non sfuggono all’orecchio di un parlante nativo e che Pasolini, al momento della pubblicazione sul Menabò delle prime poesie che sarebbero confluite in Variazioni belliche, ebbe a chiamare i “lapsus” caratteristici del suo dettato poetico.

Il mio assunto è qui che l’italiano sia per Rosselli una lingua d’arrivo in cui ella inconsciamente traduce il dettato fantasmatico della madrelingua inglese. Se è vero infatti che la poesia costituisce una lingua di secondo grado, elaborata a partire dalla lingua ordinaria, così come sostiene Jurij Lotman, ciò accade in Rosselli in modo del tutto peculiare. Ed è in quest’ottica che va compreso anche l’interesse della poetessa per la musica atonale, come quella in cui sentiva di poter conseguire quella “emancipazione delle dissonanze” che non sono per lei solo di carattere psichico ma anche eminentemente linguistico, in quanto la prosodia dell’italiano in cui scelse di scrivere è radicalmente diversa da quella dell’inglese, dove per esempio l’enjambement suona molto più naturale almeno fino dai tempi di Shakespeare. Sicché ciò che può sembrare sperimentale nella nostra lingua poetica non è spesso che la norma in quella inglese. L’insistita ricerca dell’enjambement, quel suo andare a capo su particelle enclitiche o sincategorematiche, è un tratto ben noto della versificazione di Rosselli che corrobora questa ipotesi lettura. Continua a leggere

Il ritorno di Beppe Salvia

lettere musive io desto, ignote
cifre che compongono un fregio, tesse
una trama questo disegno, rete
di tessere in questo quadro crette
magia figura di regale soglia
oltre cui accedo ospite senza
credo ai sopiti luoghi della veglia,
voglio saper la meta e chiedo lenza
per il diniego trarre dal mare, le
fughe d’inospiti sirene l’ale
m’apprendono, volo ove è chiave chiara
di questi nodi di noci d’ardesia,
sale una savia siepe a dimorare
dove chiudon la corte due scalee.

*

A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma quasi senza vita, e a lavorare,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.

*

viva le lunghe ore della scuola
il banco celeste come il cielo
serviva a non guardare la lavagna
viva le povere ore di malinconia
viva quel tuo mugugno
viva la veste bianca e le bugie
viva la via deserta tutta
fiocchi bioccoli Continua a leggere

OIKOS, Poeti per il futuro

Oikos. Poeti per il futuro è un progetto poetico-civile dei Classici contro, vale a dire del gruppo di classicisti coordinati da Alberto Camerotto e Filippomaria Pontani (Università Ca’ Foscari di Venezia) che ormai da anni ripercorrono i testi degli autori grecolatini per parlare delle questioni più spinose del presente (l’immigrazione, la giustizia, la bellezza, l’Europa e così via).

Nel 2020 e 2021, il tema dei Classici contro è appunto OIKOS: l’ambiente, la natura, cioè la nostra casa comune.

Il progetto, tra le varie iniziative in cantiere, si traduce in un’antologia contenente 150 poeti contemporanei di molti Paesi del mondo (Oikos. Poeti per il futuro, a cura di Stefano Strazzabosco, Premessa di F. Pontani e A. Camerotto, Disegni di L. De Nicolo, Mimesis/Classici Contro n. 18, Milano-Udine 2020) e in una serie di azioni, tanto in linea come in presenza – quando possibile –, che fanno dialogare i poeti con classicisti, insegnanti e studenti di vari licei italiani.

L’antologia, di cui esiste anche un’edizione minore con una selezione di 80 autori, riunisce alcune tra le voci più significative della poesia contemporanea: per fare qualche esempio, si va dal grande autore marocchino-francese Tahar Ben Jelloun, che come altri ha scritto una poesia apposta per Oikos, alla poetessa beat statunitense Anne Waldman, che dedica il suo testo (anche questo inedito e scritto per l’antologia) all’amica Patti Smith; dagli israeliani Tsuriel Assaf, Sabina Messeg, Maya Weinberg, Adi Wolfson, Elad Zeret, rappresentanti di una eco-poesia che è stata tra le prime a dedicare attenzione ai temi ambientali, alle cinesi Ming Di, Jami Xu e Xiao Xiao; dalla vietnamita Nguyen Phan Qué Mai ai messicani Homero Aridjis, David Huerta, Blanca Luz Pulido; dai colombiani Rómulo Bustos Aguirre, Juan Manuel Roca, Ángela García, Yirama Castaño Güiza, Myriam Montoya, Armando Romero al croato Drazen Katunaric, i cechi Petr Kral ed Erik Ondrejicka, il finlandese Jouni Inkala, gli svedesi Lars Gustaf Andersson e Lasse Söderberg; e ancora, dal congolese Gabriel Okoundji al giapponese Goro Takano e gli statunitensi Bill Mohr, Robin Myers, John Taylor eccetera. Continua a leggere

Mariella Mehr, “L’ultimo miglio di tempo”

Mariella Mehr – traduzione di Anna Ruchat – immagini di Teresa Iaria

 

 

 

Zugeschmerzt
meine letzte Meile Zeit,
sinnlos, ihr lesbare Vergebung
anzubieten.

Etwas wie Blut schmückt meine Hand,
als hätte ich gestern noch
in Fleisch gewühlt mit meinem
Verrat am wispernden Mond.

Die Trauer zwängt sich aus den Ketten,
forscht nach der Farbe, die ich nicht trage.

Nur die Füsse, eine untrügliche Spur,
hinterlassen sich angemessen im Schnee.
Er wird zum lasterhaften Rot beim Betreten,
unbegehbar für andere.

Abgesonnen ist jedes deiner Liebesworte,
unnütz geworden Geste und Blick.

Und doch, und doch
verspinnt mich bei
Niedrigwasser der Foenna
eine Fee zu Kummer,

als wäre da einer der hat,
was mir bisweilen nachts zu
sein gelingt.

Chiuso nel dolore
il mio ultimo miglio di tempo
non ha senso offrirgli una remissione
leggibile.

Qualcosa che somiglia al sangue ingioiella la mia mano
come se ancora ieri avessi
frugato nella carne col mio
tradimento alla luna sussurrante.

Il lutto si libera dalle catene
cerca il colore che io non porto.

Solo i piedi, una traccia inconfondibile,
lasciano la misura di sé nella neve.
Di un rosso vizioso diventa quando la calpesti
impercorribile per altri.

Di senso inverso è ognuna delle tue parole d’amore
il gesto, lo sguardo ormai inutili.

Eppure, eppure,
una fata,
nei giorni di secca della Foenna
mi porta dolore

come se ci fosse qualcuno che ha
quello che ogni tanto di notte
mi riesce di essere.

 

© Mariella Mehr e per le immagini Teresa Iaria

 

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