Ottiero Ottieri, “Poemetti”

ottieriIl libro

Per la prima volta riuniti in un unico volume, i tre poemetti autobiografici di Ottieri mostrano la continuità che li lega e appaiono ancora piú potenti. Sono tre monologhi torrenziali, un’unica confessione estrosa e tragicomica in bilico tra la sanità e la malattia, il privato e il politico, la follia e il desiderio sfrenato. L’ironia è la chiave di questa partitura in tre movimenti. L’autoironia e l’autodenigrazione sembrano uno sberleffo sull’orlo del baratro, uno sberleffo che, attraverso il caso individuale, colpisce il mondo intero. La malinconia e la disperazione sono come nascoste dalla maschera teatrale, dai giochi di parole, dalle rime impreviste, ma costituiscono la struttura profonda dei poemetti, il luogo dove immancabilmente vanno a finire le ossessioni dell’autore e il mondo esterno, risucchiato anch’esso in una spirale senza fine. Continua a leggere

Chiara De Luca, “Alfabeto dell’invisibile”

Cover_Alfabeto_奇foto_Rachel_Slade[1]Anticipazione Editoriale

Ferrara, la voce silenziosa delle pietre”

di Matteo Veronesi

 

 

 

Foto di Rachel Slade

Come scrisse splendidamente, tempo addietro (nel n. 9, ottobre-dicembre 2003, di «Cartapesta», piccola e preziosa rivista imolese oggi defunta), Andrea Pagani, «sarebbe stato difficile trovare una città più adatta di Ferrara – dannunziana “città del silenzio”, con le sue ampie strade deserte, con la sua sospesa solitudine, col senso di attesa e di mistero che trasuda dai suoi monumenti –» ad ospitare e sollecitare la genesi della pittura metafisica. Città, proseguiva, tale da ispirare «la suggestione per un punto di vista surreale del mondo; le pieghe del mistero che si nascondono sotto i contorni della realtà; immagini di sospensione, attesa, presagio; una sorta di occhio veggente e di accostamenti improbabili fra le cose». Continua a leggere

“Nonostante la fine del mondo”

 

serriCiò che Stefano Serri sa fare – e lo sa fare bene – è non cadere nel lirismo troppo acceso, pur non rinunciando a puntare verso la vetta. In questo, un grande pregio della sua poesia – e un pregio che rende Nonostante la fine del mondo un raro esempio di libro “a tema” ben riuscito in forma e sostanza – è quello di evitare una troppo scoperta poesia del quotidiano, come un ciclista evita le buche. In questo esperimento si poteva fallire in diversi modi, due su tutti a parere di chi scrive: esagerare nel compianto, o abbandonarsi alla retorica dei piccoli gesti che salvano. Le due cose, in realtà, coesistono nei componimenti di questo volumetto, ma le dosi sono ottimali, e l’amalgama garantito da una lingua pulita e accessibile – nonostante le dolorose e spesso suggestive inarcature della sintassi – restituisce un elaborato di grande effetto e sicuro piacere della lettura.

 

Dalla prefazione di Marco Bini

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Luciano Benini Sforza, “Dopo questo inverno”

 

COPERTINA DI DOPO QUESTO INVERNO“La frontiera è un canale di nebbia, di suono, di assenza di peso, di quasi niente, di niente visibile, riconoscibile. È stanza buia, la cui uscita è un andare in porto, un tornare a casa. Terra che è mare. Vastità che è piccolezza. Non uno scomparire, un dileguarsi di ogni cosa nell’indistinto, anche se è vero che poco importano un petalo o una galassia, un anno o un giorno (Nel respiro più lungo). Ciò che conta è altro. È il dopo, la riva da vedere ancora, la possibilità di un’altra scelta, la speranza «anche solo / di un minimo gesto», «aprire una porta / nel vento con le nubi e il sole / che vanno e vengono». Dopo, riva, scelta, speranza, aprire una porta nel vento, fare del vento, del respiro una casa.

Che cosa c’è dietro la riva, dietro la spiaggia, la banchina, dietro Ravenna o più ancora Marina di Ravenna, il canale, la pineta come «una preghiera scura che vacilla» (Troppo)? C’è ancora terra? Anche in questo caso l’interrogativo non è quello giusto. Forse dovrebbe essere quello a cui Luciano Benini Sforza stesso risponde. Che cos’è Ravenna o una città simile a Ravenna? Una città che «è una sintesi in bilico, / aperta, / un pavimento che riaffiora dal terreno, / dove scorre la pioggia / e ristagna, / dove il muschio / cova l’arsura e viceversa» (Prospettive umane). In sintesi e in bilico, precisione millimetrica e andare a tentoni, il muschio che cova l’arsura e l’arsura che cova il muschio là dove ci si aspetterebbe fango. (…)

Jean Soldini, estratto dalla Prefazione a Dopo questo inverno Continua a leggere