Opere Inedite, Ivanoe Privitera

Ho conosciuto Ivanoe Privitera nel 2001 a Rainews24 dove lavoro. Ivanoe in quell’anno seguì un breve stage a Rainews24 e aveva già pubblicato il suo primo romanzo“Il cuore di Purcell“. Fu proprio in quel cuore che ci incontrammo. Nel solco di un destino che imponeva al giovane Purcell – protagonista del suo romanzo – di sentirsi da adolescente, in uno stato di privazione e di mancanza… nel cuore cioè di chi si accinge a compiere i primi passi per accedere al mondo dell’amore e del dolore. 

Ivanoe, dal 2009 titolare di una Marie Curie Fellowship biennale in Papirologia all’Università di Oxford, oggi mi scrive: “La poesia sveste la mia interiorità, è rifugio e consolzione mai vana, lungo un cammino che dal passato conduce al futuro. Nel comporre mi affascinano l’immediatezza del potere evocativo delle immagini, il ritmo del verso e le figure retoriche di suono. Spesso basta una singola immagine o un semplice accostamento di parole per intraprendere un’elaborazione formale all’insegna della ricerca fonetica e linguistica.”
di Ivanoe Privitera

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Opere Inedite, Daniela Taliana

Daniela Taliana è nata a Tripoli, in Libia, e vive in Italia, a Ostia. Nel 1970, dopo la guerra tra Israele e Egitto, Daniela, come molti altri tripolini, fu costretta a lasciare la Libia, con tutta la sua famiglia. Daniela racconta così la sua storia di profuga: “I miei genitori mi affidarono a un’amica di famiglia che mi portò in Italia dai nonni materni. Ero piccola, 6 anni non ancora compiuti e non riuscivo a capire quello che stava accadendo”. Daniela mi scrive di uomini armati che giravano per le strade di Tripoli, di finestre di casa oscurate da grandi fogli di giornale, di sagome scure che saltavano sui tetti dei palazzi, di carovane di dromedari, di polvere e di incubi notturni. “La casa dei miei nonni era diventata un punto di riferimento per tutti coloro che condividevano il nostro stesso lutto: la perdita dell’identità. Non ho dimenticato le storie che i grandi mi raccontavano” scrive Daniela “erano la mia famiglia ‘allargata’, come si dice ora. Chiamavo tutti zio, zia… e preparavo il te per tutti… Ascoltavo i loro racconti… mi commuovevo, e, contemporaneamente, acquisivo l’intensità dei miei sentimenti.”

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Opere Inedite, Alessia Scacchi

Alessia Scacchi definisce la poesia “l’unica strada per la conoscenza del reale, in simbiosi con l’immaginario.”

“Quella leggera tempesta d’inverno che agiva costante, all’intersezione tra la persiana di una casa romana di pochi metri e un cielo colorato da cento e più luci di un giallo elettrico, s’impresse al mio sguardo come può il verde brillante di un prato che in primavera si agghinda di fiori, i bianchi narcisi; bassi, nel folto di un’erba incorrotta, essi si affacciano al sole, prudenti.
Io ero, in quel candido aprile, nel mezzo delle gramigne e mi soffermavo, assorta, al lento frusciare dei faggi di una lontana isola di medioevo che ancora racchiude e protegge un’infanzia felice e sfacciatamente contadina.
Questi ricordi mi portano al primo pensiero poetico quando, piccina – seppure di forte corporatura, guardavo e parlavo ad un olmo, un fulgido e umbratile olmo dalle fruscianti foglie; all’ondeggiar del vento parevano pormi i saluti di una natura, quella della Talenti degli anni Ottanta, sopravvissuta all’onta della cementificazione. È come se il ritmo di quelle leggiadre fronde mi avesse sospeso nel tempo e avesse abituato il mio corpo ad osservare i particolari inattesi, le controversie di un reale inspiegabile se non negli schemi di una schiacciante normalità.
Io ero a-normale: avevo una splendida madre trentenne, che sola cresceva una bimba sognante; avevo un padre che assomigliava ad un babbo natale con accento napoletano; convivevo con una zia – seconda mamma – che studiava e piangeva alle difficoltà di un’università occupata; abitavo una casa che assomigliava alle dimore dei Lillipuziani, in una Roma borghese che ostentava un incerto potere economico; ma, oltre questo, avevo uno sguardo attento e intollerante alla presunta normalità…”
di Alessia Scacchi  Continua a leggere

Opere Inedite, Daniele Beghè

Daniele Beghè mi scrive questa lettera che pubblico integralmente.
Mi piace molto ciò che scrive Daniele . Daniele non si rivolge soltanto a me, ma ai lettori del blog. Ed è per questa ragione che rendo pubblica la sua lettera.

Daniele merita una risposta da noi tutti.  

Naturalmente, ringrazio Daniele per avermi scritto.

Per prima cosa dico a Daniele: “Lei deve continuare a scrivere, non posso però dirle ‘come‘. Deve scoprire lei, piano piano, la ‘sua’ voce.”

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Opere Inedite, Federica Venezia

Federica Venezia mi racconta di aver scritto la sua prima poesia all’età di otto anni. In quel periodo iniziava a studiare il violino e, di conseguenza, la musica nel suo complesso: “La durata delle note e delle pause, le figure musicali e la battuta, i segni di frazione del tempo”.
Da allora, in tutte le cose della vita, Federica ha sempre cercato ‘le sonorità giuste’, ‘il ritmo appropriato’: “nella voce da trasmettere alla radio, nella stesura di un articolo, nei piccoli versi pensati per un pentagramma ideale. Armonioso, più che fedele alle regole. Libero e onesto. Mi affascinano i tentativi di dare voce alla poesia;” scive ancora Federica, che spiega: “la poesia musicata è in grado di raggiungere vette di straordinaria bellezza.” E aggiunge: “Penso al maestro Giovanni Nuti, per esempio, e al suo meraviglioso lavoro sull’opera di Alda Merini. Viceversa, amo senza riserve – e considero scrittura in versi sciolti a tutti gli effetti – i testi delle canzoni di grandi autori quali Fabrizio De André, Paolo Conte e Piero Ciampi. Ma anche Bob Dylan, Leonard Cohen e Joni Mitchell. Musica è poesia, poesia è musica. L’una non esclude l’altra. Entrambe riescono ad esprimere l’interiorità dell’individuo con risultati talvolta sorprendenti; ed è questa, a mio avviso, una educazione sentimentale dal valore inestimabile, di cui spesso si sottovaluta l’importanza. Ho intrapreso il discorso poetico dapprima diffondendo via etere le mie liriche preferite; poi, forte della passata esperienza, breve ma significativa, sono tornata a scrivere per il bisogno di rendere manifesta l’evoluzione armonica del mio sentire. Un essere umano centrato, consapevole di sé ed osservatore fine, non può prescindere da un percorso di autentica riflessione, poiché esso è forse il solo capace di fare luce sulle proprie sterminate ombre.”

di Federica Venezia

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