Roberto Carifi, “Nel ferro dei balocchi”

 

 

 

 

NOTA CRITICA DI PIETRO ROMANO

 

Il nesso che unisce gli opposti nell’immagine di un logos che tutto di sé permea è il fulcro tematico dell’opera di Roberto Carifi, Nel ferro dei balocchi (Crocetti, Milano, 2008), in cui si trovano raccolte le poesie scritte in quasi un ventennio, dal 1983 al 2000.

L’infanzia figura come un terreno di indagine sul quale la parola poetica si muove in un’intima solidarietà con il tepore delle immagini che abitano la memoria.

Sin da L’obbedienza, del 1986, il poeta scandaglia il tema della morte come un abisso nel quale scendere per rischiarare una temporalità che si avverte vincolata alle trame di un destino ineludibile. Tale è la percezione attingibile dal testo posto in apertura alla raccolta, che si dà al lettore in una chiave dialogica, quasi Carifi tentasse di ricostruire un dialogo con il fantasma della madre, oramai figura della memoria: «“C’è una luce fortissima, un vento che piega le ginocchia”. /” Dove?” /” Dove non puoi guardare”. / “Dovrò uccidermi, lentamente, come una cosa abbandonata”. / “Non ti capisco”. / “Non parlo più la stessa lingua…non posso”. /” Devo andare”. / “Perché?” / “Qualcuno dà degli ordini… degli ordini inflessibili”. /” Ti aspetterò…” / “È inutile. Hanno sospeso il tempo, c’è una neve che fa tremare, anche qui, in questo campo arato”».

La dicotomia su cui il testo si costruisce avvicina il poeta alla constatazione del confine che separa la vita dalla morte, evidenziando, attraverso le immagini di «una luce fortissima e di un vento che piega le ginocchia», la rapacità di quest’ultima.

Lungi dall’essere espressione di forza rigenerante, la luce appare sempre correlata a una temporalità che, in quanto precaria, incide la vita oggettivandola nella dimensione conoscitiva del dolore: «Quante volte, tra le pagine/ una mano lanciata come un sasso/ negli anni che sono gocce,/ centimetri del tuo sangue/ e la parola adolescente che consumi/ come un cuore inzuppato…/ finché un raggio ferisce tutto/ anche gli attimi invincibili/ e un angelo si solleva,/ con esattezza,/ trafigge la tua domanda/ proprio lì,/ nelle vocali». Rilkianamente, Carifi sembra fare riferimento all’angelo come figura che specchia in sé la vita e la morte, e con essi l’effimero che li innerva, senza però mai redimerlo davvero.

Questa ricerca tematica su un’idea di origine che guida il poeta verso il canto si esprime mediante rappresentazioni pervase da un unico gelo, collocando le visioni in uno stato incerto tra il sonno e la veglia: «Pregano, adesso, in una sfera luminosa/la terra fredda dove l’inesistenza sarà guardata/ tra le stelle filanti e un fratello buono…/ compie due anni la tua infanzia,/ i primi passi nel gelo, quando ti meravigli/ davanti alle rovine e un silenzio benedetto/ protegge la tua gioia…/ forse ti amano, anche lì, nell’occhiata fragile dei morti/ e una mano invincibile ti indica la casa,/ un lumicino accanto al tuo ritratto/ e piangeresti se il tempo non fosse arato/ da un amore più forte, l’obbedienza ad un inverno/ dove di nuovo corri e ti sbucci le ginocchia/ con quel balocco arrugginito, e ridi». Continua a leggere

Carmelo Pistillo, “Poesia da camera”

Carmelo Pistillo

Oltre il sipario della parola

di Luigi Cannillo

L’evocazione di una forma di teatro, a cui si riferisce il titolo della raccolta più recente di Carmelo Pistillo, Poesia da camera (Kammerpoesie) Stampa 2009, 2020, esercita diverse suggestioni. In questo periodo, nel quale palcoscenico e poltrone restano vuoti, può anche accendere la nostalgia degli spettacoli e della condivisione tra scena e pubblico e ne rilancia il desiderio e l’attesa. Il fatto poi che si tratti di “Poesia da camera” aggiunge un nuovo motivo: quello della voce nella rappresentazione di musica e parola in un ambiente di piccole dimensioni nella tradizione del Kammerspiel e della Kammermusik, con le sottili e intime sfumature del sentimento e nei loro risvolti psicologici. E anche sotto questo aspetto la raccolta può corrispondere a quanto percepiamo in un periodo di confinamento in piccoli spazi e di socialità ridotta. Il mondo vive rappresentato e ricostruito in ambienti delimitati che diventano scenario quotidiano.

Questo è il tessuto nel quale fluiscono le sezioni della raccolta: “Fiori nel camerino”, “La voce della ragazza e dell’addio”, “Ritorno a Bolgheri”, “Una manciata di biglie”, “La sonata” e “Quartetto sulla bellezza”. I protagonisti sono personaggi, soprattutto femminili, evocati in momenti o atteggiamenti salienti, sottolineati dalla tensione del gesto. Oppure luoghi con i loro paesaggi, spazi onirici e visionari. L’autore è coprotagonista, compartecipe, narratore: “Mi sono addormentato alla stazione/ al termine della ragione pura/ con le mani di un vecchio adolescente./ Mordendomi le labbra/ ho rivisto le funi della tua partenza/ unite come cavi in pericolo/ lungo la dorsale della fuga./ Di luogo in luogo.// So dove sei. Ma dove sei?/ Quale colore ha la tua patria?/ […]”

Nella nota finale Pistillo sottolinea il filo narrativo “involontario” che attraversa la raccolta in sequenze successive, con l’evocazione delle due donne amate e dell’uomo che le affianca e insegue, con il ritorno a Bolgheri e il testimone passato alla figlia quasi erede di quell’universo scandito in una serie di visioni, forse solo immaginato o trasfigurato nella creazione letteraria, le cui protagoniste, complici nell’illusione d’amore, sono diventate creature spettrali, “forse aspetto della stessa entità”.

Poesia da camera è una raccolta di intensa generosità espressiva. Insieme alle caratteristiche più introspettive, e quasi in controtendenza rispetto ad esse, è un libro di grandi gesti, di sentimenti laceranti e distacchi, nel filo narrativo che percorre le sezioni e vi si distende. L’esuberanza della versificazione si incontra con linguaggio che si esprime spesso per sottrazione, a volte con il ricorso a sintesi enigmatiche, a simboli e metafore a formare un quadro anche allegorico della passione (amorosa, erotica, poetica, artistica), della sua sorte nelle singole vite, delle sue sfide e dei fallimenti. Su tutto domina il senso della rappresentazione teatrale, musicale e poetica, che si dispiega in scenari, personaggi, luci.

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L’eterno ritorno di Milo De Angelis

Milo De Angelis / credits ph. Fabrizio Fantoni – Serralunga di Crea, Monferrato, gennaio 2020

L’ultima stazione

Su Linea intera, linea spezzata di Milo De Angelis

di Fabrizio Fantoni

Basta con le lacrime, vecchio imbroglione!
Smettila di piagnucolare, hai vissuto tanti anni e non ne hai afferrato uno solo, hai desiderato sempre ciò che non potevi avere. La vita ti è passata vicino e adesso la morte, la grande sconosciuta si è posata sulla tua fronte. Forza, devi sbrigarti, devi arrenderti al tempo, devi morire.

Questo frammento del terzo libro del De Rerum Natura di Lucrezio nella traduzione di Milo De Angelis potrebbe costituire un valido commento all’ultimo libro di poesie dello stesso De Angelis  Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021).

Vi è, infatti, una corrispondenza fra l’opera di Lucrezio, (che Milo sta sistematicamente traducendo da molti anni) e l’ultima produzione poetica di De Angelis. Questo lavoro quindi, è testimonianza di un antico sodalizio artistico, un dialogo a distanza mai interrotto fra due maestri che ora trova una concreta e definitiva forma.

È tardi, siamo all’ultima fermata. La vita è passata accanto e al poeta non resta che prolungare l’attimo, fermarsi sul limite per l’ultimo saluto, l’ultimo colloquio, l’ultimo sguardo, per vedere ancora una volta la pioggia cadere…

Il confine che separa l’essere ancora e il non essere più, è breve, fragile, eppure, in questo spazio infinitesimale, mai la vita è stata più vera. Su questo margine che divide ed attrae il poeta rivolge lo sguardo in se stesso per ritrovare la verità e la bellezza di una vita che ora, solo ora per la prima volta, è solamente vita, esistenza che si srotola di fronte ai suoi occhi e gli rivolge lo stesso interrogativo che Lucrezio pone nel secondo libro del De Rerum Natura: “Ti basta questo, ti basta questo spettacolo per guarire la tua anima folle di paura, ti basta questo?”.

In questa domanda è racchiuso il nucleo tematico attorno al quale ruota Linea intera, linea spezzata e, al tempo stesso, la ragione per cui queste poesie sono state scritte. Continua a leggere

Giovanni Agnoloni, “Berretti Erasmus”

Giovanni Agnoloni

NOTA DI LETTURA DI GIORGIO GALLI 

 

Una delle cose più difficili al mondo è arrivare a coincidere con la propria vocazione. Berretti Erasmus. Peregrinazioni di un ex studente nel Nord Europa (Fusta Editore, 2020) è il racconto di come Giovanni Agnoloni ci sia riuscito.

Bisogna per prima cosa chiarire che il titolo è fuorviante: il libro non ha a che fare – se non in parte – con il noto programma di scambio tra le università europee: è piuttosto il racconto di come si forma la mentalità del viaggiatore e di come questa venga a fondersi con la vocazione di scrittore. Un racconto che non esclude – anzi, include a piene mani – momenti di leggerezza in spirito studentesco, ma che guarda a qualcosa di più. Lo percepiamo fin dalle prime pagine, con l’attenzione che lo scrittore rivolge alle periferie delle città che visita. Quest’attenzione però non ha nulla di sociologico: sembra piuttosto un dato esistenziale, e mano a mano che si procede nel libro – che lo scrittore diventa sempre più centrato in sé – la distinzione fra centro e periferia viene a sparire. D’altra parte, il soggiorno in Polonia non ispira ad Agnoloni riflessioni sul sovranismo nascente, né l’Irlanda appare ai suoi occhi quella delle case Magdalene. E non è cecità da parte di Agnoloni, ma il volersi concentrare sulla dimensione esistenziale del viaggio, sull’essere europeo e cittadino del mondo nell’esperienza specifica di un individuo.

È il primo libro in cui Agnoloni si presenta col suo nome. Un memoir, se proprio dobbiamo classificarlo in un genere. Scritto con una prosa da commedia diversissima rispetto alla precedente produzione dell’autore, e che tuttavia incrocia la tragedia: quella di un incidente stradale che si porta via la donna destinata a diventare sua moglie. Un fatto che contribuisce a rafforzare in lui la vocazione solitaria del viaggiatore e dello scrittore. Un fatto raccontato quasi di sfuggita, con discrezione. Sembra che egli abbia voluto usare toni leggeri per girare attorno a questa grande e determinante tragedia, per esorcizzarla aggirandone l’orrore. Il lettore non può che provare gratitudine per tanta discrezione, per la scelta di un simile pudore. Ci si sente grati ad Agnoloni anche per la franchezza con cui si mette in gioco, con le sue debolezze umane, la sua quotidianità eccezionale ma anche molto normale, la sua empatia con lo spirito dei luoghi che visita.

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Daniele Piccini, “Inizio fine”

Daniele Piccini


NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

La poesia di Daniele Piccini è rivolta allo sgorgare primigenio della lingua, quasi al pieno raggiungimento del punto di confluenza tra logos e sorgente lirica. È dunque una poesia del culmine, al contempo deferente e dimessa, che considera gli hölderliniani «tempi di povertà» come occasione per affermare contra res l’assoluta centralità della parola nella vicenda umana. Il verso di Piccini nasce così da due snodi concettuali importanti: l’idea che la letteratura abbia nel suo DNA il desiderio, ossia l’irrinunciabile tensione indirizzata a un compimento massimo delle potenzialità (si veda il collected di saggi Letteratura come desiderio, Moretti & Vitali 2008); il proposito di rendere la poesia stessa come un luogo del santo — non del sacro — attraverso la glorificazione degli strumenti espressivi (qui il riferimento precipuo è La gloria della lingua, Morcelliana 2019): «Al posto del mito della gloria, l’assillo della testimonianza; in luogo della riprova sancita dal riconoscimento, la prova insuperabile, e in sé dotata di senso, del martirio-offerta».

Il compito del poeta è quello di testimoniare il proprio «martirio-offerta» nella considerazione agapica del suo magistero. Il poeta sembra quasi chiamato a vivere, in un momento storico così ostile, la prova della sua santità, asserendo senza sosta la parola che salva. Desiderio e martirio. Desiderio di martirio. I due tronchi teoretici della riflessione di Piccini non sono così distanti dall’Ungaretti del Dolore e dal Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini: non sono così distanti, cioè, da un esercizio della lirica che, pur mantenendo vivo il nocciolo «metafisico» (si ricordi la jonction montaliana Baudelaire-Browning), possiede anche i crismi della poésie pure di Mallarmé.

In un libro come Inizio fine, uscito da Crocetti nel 2013 e ristampato dal medesimo editore in questi giorni, possiamo osservare queste due grandi linee carsiche (la purezza del dettame e lo sguardo per l’oltranza) sintetizzate in un décor asseverativo che assomma in sé la fraternità leopardiana nel dolore e il senso di creaturalità di Francesco d’Assisi. Diviso in sette sezioni, alla cui sommità vi è un proemio slegato a mo’ di incipit («non eravamo nati come parte/ della materia muta che obbedisce»), Inizio fine è il richiamo alla coincidenza dell’«ultimo avamposto/ dell’inverno» e dei «fiori dentro l’erba» in una dizione stentorea e nitida. Coincidenza tanto più stringente quanto più orientata a svelare il mistero delle cose, la «quiete» o il «fuoco» della «comunione», lì dove si conosce per ardore: come nell’intensa elegia dedicata a Leopardi, la «nuova Nerina» viene a cercare il poeta che arde «in tutte le cose che ragionano». Continua a leggere