Patrizia Cavalli, La patria

Un prezioso Sasso delle Edizioni Nottetempo di Ginevra Bompiani, contiene la lunga poesia La patria di Patrizia Cavalli.
Versi indimenticabili che da soli bastano a ricordare il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia.  
Fra le tante figure possibili di patria richiamate da Patrizia Cavalli ” c’è anche quella di una pazza che ormai / dorme per strada.”
E’ forse uno dei versi più belli. Un verso che lancia, letteralmente, un sasso, che ci folgora e ci fa vedere cosa è diventata oggi la nostra nuova patria: “una pazza che dorme per strada”, una senza più casa, un’emarginata, una “senza fissa dimora”. Una patria che si è spostata , che si è perduta, una patria non più.
“Più che bellezza: è un’appartenenza elementare, semplice, già data. Ah, non toccate niente, non sciupate! C’è la mia patria in quelle pietre, addormentata.”  (Il libretto contiene anche la poesia L’angelo labiale.)

(Luigia Sorrentino)

Ostile e spersa
stranita dalle offese dei cortili,
dalle risorse inesauste dei rumori
per varietà di timbri e gradazioni,
braccata dalle puzze che sinistre
si alzano sempre non si sa mai da dove;
tentata senza esito di uccidere
i gabbiani che hanno occupato l’aria
e le terrazza con urla litigiose
– aerei condomini davvero troppo umani;
sbattuta in poche ore da un normanno
novembre a un greco agosto, sempre più
dubitando, eccomi qui obbligata
a pensare alla patria. Che se io l’avessi
non dovrei più pensarci, sarei nell’agio pigro
e un po’ distratto di chi si muove
nella propria casa, sicuro anche al buio
di scansare, tanto gli è familiare
ogni più scabro spigolo di muro.

da La patria di Patrizia Cavalli

http://home.edizioninottetempo.it/

Parliamo di… “Vanità della mente”

 “Vanità della mente” di Gian Mario Villalta, Mondadori 2011

a cura di Luigia Sorrentino

Scelgo le prime sei poesie tratte da Vanità della mente appena uscito con Mondadori nella collana dello Specchio (ero 14,00) per introdurre, per la prima volta in questo blog, Parliamo di Vanità della mente” di Gian Mario Villalta.

Il libro si presenta suddiviso in quindici sezioni, L’invaso, (qui sotto interamente riportata), Notte di San Nicolò, Kindergarten, Nel buio degli alberi, In pensiero di casa, Revoltà, Atto unico, Ritorni istriani, Regione, Il rumore che non senti ancora, Festeggiamenti per il nuovo anno, Cronaca famosa, Mia colpa, Trailer, Migrazioni.

Mi piacerebbe leggerlo insieme a voi, lettori del blog, per conoscere le vostre impressioni su queste poesie che si presentano con una scrittura forte e composta, con scene di profonda realtà. Qui persino il buio rivela qualcosa, annuncia il segreto della poesia, nella notte di San Nicolò, che nel periodo più buio dell’anno, porta dono ai bambini. Continua a leggere

Elena Salibra, il martirio di ortigia

Elena Salibra con il martirio di ortigia (Manni, 2010, euro 10,00) ci presenta una nuova raccolta di versi che conferma il canone poetico già sperimentato nelle due precedenti, vers.es (Diabasis, 2004) e sulla via di Genoard  (Manni, 2007) tutte pubblicate nell’arco di un decennio.
Il titolo rinvia al seicentesco Martirio di Sant’Erasmo, un quadro di incerta attribuzione che la Salibra nella finzione poetica immagina essere di Michelangelo Merisi detto Caravaggio. Il martirio del santo porta in sé un dolore profondo che sembra accomunare i due artisti su un piano esclusivamente letterario: il tormento e lo strappo del pittore in fuga si tramanda alla poetessa, esule dalla sua Sicilia. Il “martirio” della fuga e dell’esilio diviene però, per l’autrice, anche “consolante”, come capita di leggere in uno dei componimenti della prima sezione del libro dal titolo trittico per il martirio di ortigia in cui la Salibra riesce a vedere un “presente” in cui non si riconosce più: “quelle villette anni sessanta tutte/ abusive condonate per metà/ si preparano alla burrasca d’agosto/ un poco anticipata”.
Anche nella penultima sezione del libro dopo i giorni di tobia – ispirata alla figura materna – la Salibra ricorre ad un elemento visivo richiamando nel titolo, un quadro di Giorgio De Chirico Il sogno di Tobia  e scrive: “Mi rabbonivi mi facevi piccina/ – a sfarinare i colori sulla tela/ – non ero buona – dicevi tanto/ tempo fa (a me la davi l’idea d’un/ al di qua compiuto).
Ed è proprio la visione del “presente” a caratterizzare il martirio di ortigia separando quest’ opera – se così si può dire – dalle due precedenti – già citate – dove lo sguardo dell’autrice era più orientato verso il motivo del viaggio, del separarsi da pur ritraendo momenti di vita vissuta, viaggio inteso come metafora di una raggiunta libertà di giudizio e di espressione. Il “presente” diviene, pertanto, nel nuovo libro della Salibra il pretesto e l’idea dentro cui muovere la lingua della poesia che per l’autrice sembra nascere da un pensiero strutturale, più che dall’azione poetica. Si potrebbe dire, quindi, che in questo libro la poetessa tragga la sua ispirazione dalle grandi opere d’arte del passato all’interno delle quali inscrivere la propria esperienza individuale, il suo stare al mondo, la sua presenza. Si prenda in lettura la prima poesia della sezione dopo i giorni di tobia che ha per titolo da un amore: “ma non viene da te quel consumarsi/ d’occhi nel desiderio del mattino/ quando a impeciare/ il tuo marsupio d’anni è la colla// d’un calore. se mi perdi sai trovarmi/ in una cuccia di foglie e aria. qui/ col tetto laterale hai murato/ le rimanenze d’acqua.// non gabbia pare – forse// è mare senza orizzonte in fondo -/ simmetriche la porta la finestra// e l’ascensore che ha l’ansia di/ salire dove scende il malumore/ di tanti te specchiati da un amore// . L’amore è qui vissuto come un’esperienza che si consuma nel desiderio della luce, di un mattino nuovo. E’ un’esperienza che viene dal “marsupio d’anni impeciato dalla colla”, da corpi che si logorano “in una rimanenza d’acqua murata”. Tutta l’immagine che arriva da questa poesia è riflessa dentro uno specchio, dove la porta e la finestra “sono” – nel presente, nell’essere qui e ora – simmetriche e l’ascensore – anch’esso simmetrico – diviene la metafora del salire e dello scendere del tempo che viene “da un amore”. Si comprende, dunque, che l’autrice pur muovendosi all’interno del “presente”, volga lo sguardo indietro, verso gli Antichi Maestri probabilmente per cercare e definire la sua poetica dello sguardo. Il sogno di Tobia, infatti, come osserva Maria Cristina Cubani nell’introduzione al libro, richiama l’episodio biblico in cui Tobia guarisce il padre dalla cecità ponendogli il fegato di un pesce sugli occhi, un’azione che allude al motivo della Rivelazione. Una Rivelazione che ha consentito a De Chirico di conquistare una nuova visione del mondo e delle cose e all’autrice di avvicinarsi a un nuovo modo di vedere e di comprendere il visibile e l’invisibile.
Il legame tra il martirio di ortigia e le precedenti raccolte della Salibra consiste, invece, nel rimanere in un dettato poetico ritmato che risente degli echi dell’azione sperimentale, utilizzata però – a mio avviso – a fini puramente espressionistici e non di rottura della lingua: “ora è un lamento come/ di piccioni attaccati all’abbaino/ o una meraviglia di qualche A4 / che la laserjet blocca a metà/ perché racconti il suo blackout”/ che collocano la sua ricerca poetica in un’epoca e in un tempo ben definito.
Il plurilinguismo della Salibra sebbene sia assimilabile al clima delle neoavanguardie e dello sperimentalismo, non è da essi dipendente. L’autrice, infatti, in tutta l’opera, avverte la necessità di portare “il passato nel presente” ricorrendo spesso a scene urbane, come nella poesia Neapolis in cui il corpo entra fisicamente nel Museo di Napoli immergendosi nel passato, ma anche nella visione della città nella sua realtà, nel presente, di come appare oggi: “e s’apre ai miei tic d’autunno la new/ polis davanti al volto semiserio/ del filosofo tardoimperiale. un poco di traverso nella sala/ museale la donna con lo stilo/ fermato sulle labbra come me/ combina il mosaico/ dei suoi versi. ma è un alternarsi/ di bitorzoli e rientranze/ anche/ questa città che sulla scena ride/ mentre sale/ la funicolare/ tra la roccia e il mare”…
La Salibra, dunque, conferma con il suo nuovo libro che l’alimentazione immaginativa viene dalle grandi opere di pittura – opere di fatto metafisiche – ma qui utilizzate evidentemente come modello di ispirazione-narrativa. Non è un caso che il tondo (“la donna con lo stilo”) di cui l’autrice parla nell’ultima poesia citata, che fa da sfondo al ritratto, è notoriamente attribuito solo letterariamente a Saffo, nella finzione poetica quel volto di donna, in cui l’autrice torna a specchiarsi, è funzionale, se così si può dire, “combina il mosaico/ dei suoi versi”. Il tondo, è bene ricordarlo, proviene da Ercolano, la cittadina distrutta dall’eruzione del Vesuvio del ’79 dopo Cristo, ed è custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Luigia Sorrentino

Mario Benedetti, Materiali di un’identità

In “Materiali di un’identità” (Transeuropa Edizioni 2010, euro 9,50) – prefazione di Antonella Anedda – Mario Benedetti ci presenta una nuova poetica, di forte impatto emotivo.
L’autore calandosi nella sua relazione più intima – l’esperienza della poesia – smaterializza, decompone, disintegra, l’identità dell’uno per consegnare al lettore un corpo poetico dai molteplici significati, chiusi all’interno dell’opera.
Il libro è suddiviso in sei sezioni, La lacerazione del vertice, Ti ricordi?, A metà sulla terra, a metà nel cielo, Maggio 2009 (Intervista con Claudia Crocco), Mi ricordi?, Biosfere.
Ne La lacerazione del vertice scritto in una tipologia testuale saggistica, Benedetti spezzetta frammenti di identità che sospendono il materializzarsi di una sola – di soltanto una – identità e, al tempo stesso, compatta e aderisce a un percorso poetico assoluto che l’identità contiene e ricompone, attraversamento che si realizza a partire da un’iniziazione, un reclutamento.
Chi è veramente quella persona in cui vive e si muove la poesia?
Benedetti sa e non sa.
L’identità del poeta è e rimane un’entità misteriosa. Di essa si può dire solo che è nascosta nel fondo dell’essere e che viene rivelata dalla parola che si fa poesia.
Come accede Benedetti a quel fondo?
“So da chi iniziare e come”, scrive, “ma fino a un certo punto”.
Dopo questa ammissione e presa di distanza (so-non so) Benedetti spalanca il suo laboratorio segreto: il filosofo Michaelstaedter innanzitutto, ma anche Apollinaire, Bataille, Rilke, Celan, Bonnefoy e, Beppe Salvia. Tutti i reclutati hanno un comune denominatore, parlano della stessa cosa, l’anima del mondo.

La “trasparenza” produce “frammenti” scrive Benedetti. Eppure e da lì che viene il dato concreto, esperienziale. Il discorso parte da questi materiali e procede per brandelli – assonanze, interruzioni, intermittenze – fino a raggiungere “la scossa estetica”, il brivido che percorre la colonna vertebrale quando ci si trova di fronte a un’apparizione, a un’immagine divina.

Da quel lontano arriva il timbro inconfondibile della parola che innalza il corpo della poesia: “Gente passava e vi cercavo il mio corpo./ Tutti quelli che sopraggiungevano e non erano me stesso portavano a uno a uno (forse a due a due, coppia amante) i pezzi (gli arti) di me stesso. Mi costruivano a poco a poco come si innalza una torre. Popoli si accatastavano e io apparivo / formato da tutti i corpi e le cose umane.” Qui Benedetti riprende e traduce la prima strofa della poesia Cortège dalla raccolta Alcools di Guillaume Apollinaire. Il discorso però si interrompe bruscamente: “Mi fermo al primo corpo”, scrive Benedetti, “oltre non so andare”. Un atto di rinuncia dopo un’estrema tensione nel corpo della poesia, nell’angoscia-lacerazione, il silenzio, la parola che si chiude, il sacrificio – rendere sacro – il separarsi da – atto propiziatorio – non proseguire, non andare oltre, perché in quel primo corpo c’è già tutto. “Addio versi di Cortège”, scrive Benedetti, “addio torre innalzata. Popoli. Ho le pastiglie per la notte. Guardo i comignoli mentre altri guardano altro. Vado a letto tra poco. E’ tutto.”
Ed è proprio là, nella battuta di arresto, in quello spazio e in quel tempo indefinito, che il vertice si lacera.

“Spiel mit mir ein Spiel, Spiel mit mir ein Spiel” (gioca con me un gioco , gioca con me un gioco) scrive Benedetti riportando una frase tratta da Sehnsucht dei Rammstein. “Tutto si fa diverso – registra il poeta – in questo fragore. Persecutorio. Ossessione compulsiva che non libera. Accompagna. Si ripete.”

Vi è esposizione del corpo in questo libro, materia, ma anche eccedenza della materia. Perché è traboccando, debordando, che si vanifica il senso del nostro limite, la finitude di cui scrive Benedetti richiamando Bonnefoy che “è tutta dappertutto”. Ecco che i materiali del poeta sfiorano o fuoriescono da altri materiali senza mai del tutto concedersi a uno solo. Materiali che sono, ancora una volta, riconoscimento – so da dove vengo – ma anche separazione – non so chi sono -.

“Terrore per la dismisura” scrive Benedetti “di fronte a cui la via seguita non è l’eccedere, l’ ‘ esplodere’ di Bataille ma l’implodere…” E ancora è il “bianco” di cui parla Beppe Salvia a “snebbiare le parole”, ad avere l’effetto di annullare ogni relazione tra le cose, fino a renderle equivalenti, a placare la tensione dall’interno, a scaldare la misura , “la bianca bianca eroina”…

Il corpo tragico di Benedetti si spezza, più e più volte, nel silenzio: “L’intimo della cosa è la sua discrezione, riservatezza, il suo saper mantenere un segreto, ed è pure il suo incantesimo, il suo rimanere ‘incantata’, in qualche modo un suo particolare silenzio.”
Chiuso nell’invisibile, nel vuoto della parola, il corpo indomabile precipita: “Riguardo al mio morire è stato per me un difendersi, un difendersi strenuamente. Non più. Ma non faccio fatica. Come dentro un’epidemia vivo nel casuale.”
La materia viva si contrappone o si sovrappone a altra materia, fino a diventare crosta, strato su strato, come nei gretti di Burri, ma essa è anche materiale umano nel suo disfarsi, che si porta verso il morire.

Figure si schiariscono in forme e essenze che non ci sono, o che non ci sono più: “Essere qui è molto”, scriveva Rilke nella nona elegia, la penultima, “tutto qui ha bisogno di noi”, ma questo stato, questo stato terreno, non sembra revocabile, ci accade una sola volta. Mai più. L’essere transitorio, perituro, caduco di cui parla Benedetti è il non revocabile, il terreno, di cui parla Rilke. Ecco dunque che nell’ultima sezione Biosfere, il poeta ci parla di un fegato “appuntato con gli spilli”, prima di cadere nella malattia del “poco respiro”, dove si soffoca: “… lo so,/ che tutto è qui, adesso, con tutto quello che c’è, di me e di noi.”

di Luigia Sorrentino

«Sono uscito di mattina prima di partire, di corsa fino alla chiesa per vedere l’interno. Ho preso del vino, delle caramelle per il viaggio. Ho fatto colazione. Non so, cosa dovevo fare?
Che cosa si deve fare? Dico anche i vestiti, il caldo alle mani, il guardare le mani rigirandole…»
Da ‘Materiali di un’identità’ di Mario Benedetti

Mario Benedetti è nato a Udine nel 1955. Vive a Milano.
Ha pubblicato fra l’altro le raccolte I secoli della Primavera, Sestante, Ripatransone 1992, Umana gloria, Mondadori, Milano 2004 e Pitture nere su carta, Mondadori, Milano 2008 (Premio “Stephen Dedalus” 2009).
Ha tradotto il volume antologico delle poesie di Michel Deguy, Arresti frequenti, Luca Sossella, Roma 2007. Ha curato per gli Oscar Mondadori l’antologia Bloggirls – Voci femminili dalla Rete. Collabora all’Almanacco dello Specchio di Mondadori.

Francesco Forlani: Autoreverse (Un segno certo d’amore)

Incontriamo Francesco Forlani (nella foto) alla libreria KOOB di Roma per parlare di Autoreverse (L’ancora del mediterraneo, pagg. 157, euro 13,50). L’allure del performer-scrittore è in perfetta simbiosi con il suo alter ego, il mostro sacro, Cesare Pavese che nella sua opera  i Dialoghi con Leucò aveva affrontato il tema della morte come condizione ineluttabile della natura umana. Ed è proprio sui Dialoghi con Leucò che Pavese scrisse il suo epitaffio: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.
Le installazioni di Roberto Donatelli affisse alle pareti rimandano a ebollizioni della materia, provengono da un mondo mai visto – forse un mondo interiore – da galassie lontanissime che si dissolvono, a un certo punto, nella forma del tavolo attorno al quale siamo seduti. Dentro questa stanza planetaria le nostre voci si mescolano alle voci di poeti altissimi, come Pasolini e Ungaretti, ci attraversano le loro voci nelle spennellate di un artista del suono, RSX, voci che riverberano nell’ambiente semivuoto. Nell’atmosfera glaciale in cui siamo la luce è azzurrognola, fredda, però a un certo punto tutto si riscalda e da una sorta di alambicco arriva… un odore, improvviso. E’ un… profumo. Il profumo di una voce rimbomba come l’anima di uno strumento, una fibra che trasporta le note dalle corde alla cassa di risonanza.
La nostra conversazione inizia da questa dilatazione, proprio come accade in Autoreverse: Francois e Angelo si ritrovano al bancone del bar. Parlano e bevono. Si sono conosciuti alla reception dell’Hotel Roma a Torino, l’albergo dove Cesare Pavese si è suicidato. Lì Angelo, immigrato meridionale, fa il portiere di notte e Francois ha prenotato per la sua ultima notte in Italia, la stanza in cui Cesare Pavese trascorse le sua ultima notte. (Qui la parola notte ricorre tre volte).
The cats will know – I gatti lo sapranno -. E’ il titolo di una delle ultime poesie di Pavese. Le ultime poesie sono in inglese. Lo scrittore parla la lingua della sua ultima donna. Costance. Viene dall’America. E “America significa tutto” per Pavese. America è Costance, Costance Dowilng. L’ultimo infelice amore. La sua figura, ora, attraversa lo spazio. La luce è netta, azzurrognola, passa da una parete alla parete opposta e poi sparisce. Dissolta. – The cats will know – I gatti lo sapranno -. E’ quasi un’ossessione. E’ la sua ultima voce. Se mai riusciremo a sentirla.
Nell’albergo Roma i destini dei diversi personaggi per ironia della sorte, si incrociano ed hanno, alla fine, un comune denominatore, nella costante, sovrapposizione. 

di Luigia Sorrentino

Il video 

(Con Francesco Forlani, Luigia Sorrentino, Roberto Donatelli, RSX e Fabrizio Fantoni)

Immagine anteprima YouTube

Intervista a Francesco Forlani

Autoreverse: il tuo romanzo inizia dove termina la vita di Cesare Pavese. Cesare Pavese trascorre la sua ultima notte a Torino, all’albergo Roma, e Francesco Forlani trascorre la sua prima notte a Torino all’Hotel Roma.
La prima notte trascorsa all’albergo Roma ha fatto ‘circuitare’ le esperienze come spesso accade in letteratura. Ho dormito all’Albergo Roma dove aveva dormito Cesare Pavese la sera in cui aveva deciso di andare via… delicatamente.
Arrivando a Torino venendo da Parigi, ho scoperto una cosa sorprendente. Se vieni da fuori Torino la scritta sotto i portici dice ‘Hotel Roma’. Se invece ritorni da Piazza Castello la stessa scritta con il neon sospeso sotto i portici dice ‘amoR letoH’. Letizia dell’amore e del poeta. O amore letale, amore mortale? L’insegna dunque ti fa vedere la ‘double face’, l’altra faccia, l’autoreversibilità, la reversibilità, semplicemente, di una storia. Ed è questa reversibilità a rendere reversibile anche il suicidio che è il gesto irreversibile per eccellenza.
Tutto il romanzo è attraversato da un tono ironico e coinvolgente che diviene il registro narrativo delle storie dei personaggi che si intrecciano. Autoreverse fa, dall’inizio alla fine, un discorso ‘rovescio’. Man mano ci si accorge che i personaggi diventano uno, la voce diventa monologante, in un canto per voce sola, una mondodia.
Cesare Pavese viene trovato morto da una donna dell’albergo, una cameriera ‘storica’ molto amica del proprietario dell’hotel che soffriva della mia stessa malattia…
Faceva molto caldo quando entra in camera la cameriera. Guarda Pavese e dice – in piemontese ovviamente – : ‘Ma come? aveva tanti capelli e si è suicidato così?’ Lo stesso suicidio, la morte di Pavese fa vedere, in controluce, tutta l’ironia della sorte. In questo aneddoto è l’ironia la sorte che racconta la cameriera.
La dimensione poetica è presente in tutto il romanzo, ma ci sono anche degli aspetti grotteschi, ridicoli: già, ‘perché un uomo con così tanti capelli dovrebbe suicidarsi?’
Nel romanzo si passa da Cesare Pavese a Angelo Cocchinone che è, naturalmente, un personaggio ridicolo. Il ridicolo è il massimo per un romanziere. E’ quanto di più ‘romanesque’ (nel senso di ‘poetico’) possa capitare a un uomo… Diciamo che l’ironia è nella semplicità dei personaggi. Pavese amava la semplicità dei personaggi, di luoghi autentici, autenticamente popolari. In realtà non è ‘attrezzato’ Pavese per la società letteraria e culturale dell’epoca che è ‘complicated’, cioè complessa, nel senso anche borghese…
Con questo romanzo ho voluto mettere in scena personaggi che forse Pavese avrebbe amato: il portiere di notte, la sua squadra dell’albergo e tutta una serie di figuranti, di persone che si incontrano, e che sono di passaggio, come la ‘madame’ che va ogni fine mese all’albergo Roma…
Come è nata l’idea di Autoreverse?
Io credo nella dimensione ‘romanesque’ (‘poetica’) dello scrittore.
C’è invece chi dice che dobbiamo essere dei narratori di qualcosa che è altro da noi, vale a dire agli antipodi dell’autobiografia… Io credo che una cosa non è vera perchè l’abbiamo sperimentata e vissuta. Una cosa è vera – anzi è ancora più vera – quando è una cosa che avremmo potuto vivere e non abbiamo vissuto.
Se tu oggi incontrassi Cesare Pavese cosa vorresti dirgli?
La prima notte all’hotel Roma ricordo che ci fu una dimensione molto… quasi da ‘actor studio’ nel senso di entrare e immediatamente immergersi nella storia che volevo raccontare. Mi sono guardato in quello specchio, che era lo stesso specchio in cui Pavese si era specchiato, lo specchio e il letto erano gli stessi elementi dell’epoca. Poi c’è la storia legata a una delle camere che nel romanzo il lettore scoprirà… Ho visto Pavese accogliermi malissimo come può accoglierti un torinese, quando uno ‘sbarca’ in casa sua. Mi ha bruciato, il suo primo sguardo. Ho provato un senso di estraneità, di ostilità…  Poi, invece, siamo entrati proprio in risonanza, con il lato disperato che ho, che abbiamo tutti… Noi tutti possiamo immaginare in bianco e nero, senza un sorriso, e invece scoprire di essere ‘persone a colori’, con una voce forte. Ecco, Pavese mi ha messo ‘sulla pista’ della storia che era giusto raccontare, la storia che ho raccontato.