Emilio Rentocchini, “44 ottave”

Emilio Rentocchini, credits ph. Giorgio Gilberti

Tre e-mail
a Maria Cristina Cabani
sull’ottava

(Estate 2014)

– Caro Emilio, in attesa di spedirti il libretto /Amori/, che è finalmente uscito, mi rivolgo a te in cerca di suggerimenti. A settembre andrò a Città del Capo dove sono stata invitata ad un Convegno sulla poesia del ’900. Avrei intenzione di parlare della fortuna dell’ottava e dei poeti che la usano, prendendo le mosse dal /Requiem /di Patrizia Valduga.
In particolare vorrei esaminare come i poeti sfruttano la doppia natura, lirica e narrativa, del metro (tu mi sembri uno dei pochi che ne apprezza la liricità). Ti chiedo se puoi indicarmi interventi o saggi in proposito (anche e soprattutto tuoi) e anche se puoi dirmi in poche parole che cosa ti affascina dell’ottava, visto che è fra le tue forme predilette.
Un caro saluto.

Cristina

Temo, cara Cristina, che ti toccherà concentrarti sulla sfortuna dell’ottava nel Novecento, perché, a memoria, non mi viene in mente nessun poeta che l’abbia usata: a parte Sanguineti. Mi sembra anche di ricordare che nel discorso di accettazione del Nobel, Montale abbia esplicitamente affermato che nel suo -e nostro- secolo non si poteva più scrivere in ottave.
Comunque, per quel che mi riguarda, si è trattato di un colpo di fulmine, dopo aver riletto tutto d’un fiato il Furioso, nei pigri pomeriggi della primavera del 1988.
Ero partito con l’idea sonnolenta di leggiucchiare qua e là, in un noiosissimo periodo di insegnamento, dal quale tornavo avvilito. Be’, la magia del cristallino e liquido
endecasillabo ariostesco mi obbligò a leggerlo avidamente, senza scartare un verso, senza perderne una sillaba, o meglio, una nota…
E mentre leggevo mi chiedevo se non si potesse arditamente provare a riprendere in dialetto quella struttura di otto versi, coi quali tutto era stato detto, e così bene, un
tempo; in cui ogni cosa aveva trovato il suo posto, alonata di stupore. Il Novecento non crede ai poemi, non conosce cavalieri, mi dicevo. Ovvio che occorresse ripensare l’uso
dell’ottava. Il poeta è isolato, il dialetto è accerchiato, pensavo. Isoliamo l’ottava e facciamone un rifugio ed un mondo, pensai in conclusione. Il limite era proprio questo: tentare di tenere all’interno di otto endecasillabi una goccia di vita che continuasse
a muoversi, senza scivolare via o prosciugarsi. Ma praticando l’ottava mi accorgevo via via che l’angustia del metro offriva spazi insperati. E vivevo come in una continua scoperta speleologica, su un terreno carsico dove sprofondare equivaleva spesso a riemergere in un altrove luminoso. Al punto che non mi sono mai sentito così libero come prigioniero dell’ottava. Uno dei momenti più commoventi e pieni della mia vita. Tanto più se pensavo che stavo usando la lingua degli avi, a cui per certi versi davo voce, una lingua atemporale, mitica. E in quanto mitica, in grado di reggere l’anacronismo della misura chiusa.
Altro grande vantaggio dell’ottava, poi, la brevità memorizzabile che mi permetteva di lavorare a mente, in qualunque momento: di levigare e ritoccare e portare a compimento senza bisogno d’altro che di una buona concentrazione… non mi è mai piaciuto scrivere. Con la sensazione di poter tenere dentro quello scrigno da niente musica e pensiero, poesia e poetica. Continua a leggere

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La poesia di Dino Campana e la sua eccezionalità nella letteratura del Novecento

OLTRE IL MITO DELLA FOLLIA
DI MARCO TESTI

La fascinazione dell’oltre

Dino Campana (Marradi 1885, Castel Pulci, Firenze, 1932) rivelò già dalla prima adolescenza un carattere difficile, soprattutto per le sue tensioni, sfociate poi nella psicosi, con la madre. Iniziano così le sue peregrinazioni, causate anche da una fissazione itinerante, che lo porteranno, secon¬do quanto egli stesso raccontò, per l’Europa, la Russia, l’America meridionale. Una squassante relazione con la musa di quegli anni, Sibilla Aleramo, l’accentuarsi delle crisi depressive e il ricovero nel 1918 all’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, la morte per una non meglio identificata “setticemia del sangue” il 1 marzo 1932, hanno contribuito a costruire il mito postumo del poeta maledetto italiano.

La sua opera più famosa, i Canti orfici, terminati in una prima stesura nel 1913 e poi pubblicati a sue spese nel 1914, è certamente la testimonianza più drammatica di come le nuove soluzioni stilistiche che cercavano di liberarsi dalle tutele positivistiche e romantiche abbiano coinvolto le individualità dei giovani intellettuali in una complessa operazione non solo letteraria: Boine, Serra, Rebora, Slataper, Michelstaedter, oltre a Campana, si trovano a fare i conti con una realtà profondamente mutata dai nuovi sistemi economico-industriali e dalla perdita di potere da parte dell’intellettuale, non più uomo di corte ma neanche inserito nei nuovi processi produttivi. Il rifiuto di quella realtà, come rimozione della perdita di potere, trova terreno nelle coscienze europee più inquiete e pronte ad una rimessa in discussione, e quindi alla trasgressione, del pensiero razionalista occidentale. Qui si potrebbe subire la tentazione-e in effetti il paragone venne fatto- di vedere in Campana un epigono di Rimbaud, un maledetto post-litteram, sfasato cronologicamente: ma paradossalmente il giudizio di suoi contemporanei, come Boine, arriva a sgombrare l’orizzonte da ogni nube sospetta di imitazione rimbaudiana: per Boine (e non solo per lui) Campana era un pazzo sul serio anche nel senso che la sua poesia era tutt’uno con la sua crescente perdita di comunicatività, con le sue iterazioni ossessive, con il suo precipitare verso quella notte che sarà la sua sconfitta e, ironia della sorte, la sua incoronazione poetica.

Spesso il suo destino, segnato così profondamente dal viaggio e dalla follia, ha attirato la curiosità e l’ammirazione soprattutto dei giovani, anche perché la sua poesia è testimonianza di una fedeltà estrema alle proprie ragioni umane; e queste ragioni esprimevano anche una critica risentita e radicale dell’industria culturale e della società del primo Novecento italiano.
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Kathleen Jamie, da “Falco e ombra”

Kathleen Jamie

Hawk and Shadow

I watched a hawk
glide low across the hill,
her own dark shape
in her talons like a kill.

She tilted her wings,
fell into the air –
the shadow coursed on
without her, like a hare.

Being out of sorts
with my so-called soul,
part unhooked hawk,
part shadow on parole,

I played fast and loose:
keeping one in sight
while forsaking the other.
The hawk gained height:

her mate on the ground
began to fade,
till hill and sky were empty,
and I was afraid.
Osservavo un falco
planare lento lungo il pendio,
la sua forma scura
negli artigli come una preda. Continua a leggere

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Valentina Colonna, da “Stanze di città e altri viaggi”

Valentina Colonna

Finestre, quasi tutto
Arioso

La felicità cammina per strada
con una bici scrostata e un vestito
azzurro. Si solleva passando
davanti al bar, ai signori in velocità
nella frenata alla svolta della piazza.

Lei se ne va correndo col sobbalzo
degli sguardi che si alzano. Va con l’aria
tra le coste. Il manubrio senza sosta
da solo in tondo nel paese. Si ciba dei muri
bianchi, della luce nei soffitti a cielo aperto
con gli odori, che diffondono di pranzo.

Signore mio, Signore, ogni respiro ancora
mi è solo tutta vita in avanzo.

***

I paesi bianchi appesi alla collina diradano.
La sera sul balcone prima della furia,
della tromba d’aria, l’eccitazione
di mia madre a proteggere i fiori
nelle luci intermittenti dei fulmini.
Lei lì ad agitare, ad aspettare
tutta in fremito la vita.

***

Il temporale quando arriva piano
si annuncia da lontano nei paesi a fianco
con la tromba nera del cappello.

L’aria si fa d’acqua, d’aglio selvatico.

A sprazzi i lampi dai vetri sfilano
in una lenta marcia funebre. Continua a leggere

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Presentazione di Johann Gottfried Herder, “Iduna, o il pomo del ringiovanimento”

Johann Gottfried Herder (1744-1803)

Dal cuore del tardo Illuminismo tedesco si apre un varco in direzione della facoltà mitopoietica dell’uomo, un passaggio che porterà direttamente al Protoromanticismo. È in questo spazio utopico che trova dimora un importante testo di Johann Gottfried Herder (1744-1803), dal titolo Iduna, o il pomo del ringiovanimento (1796), dedicato (almeno come spunto) alla dea dell’eterna giovinezza nella mitologia norrena. In questo “dialogo” immaginario tratteggiato da Herder, si confrontano come in un contrappunto due voci distinte e opposte: quella del mitologo Alfred, che rivaluta l’importanza della mitologia nordica, e quella “mitoclastica” di Frey. Le loro posizioni e argomentazioni costituiscono le coordinate entro le quali si muove la cultura tedesca successiva, dall’estetica letteraria di Friedrich Schlegel alla cosiddetta Mythosdebatte del secondo Novecento. Continua a leggere

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