“Il dolore è una cosa con le piume”

Max Porter

DAL RISVOLTO

Una sofferenza indicibile che travolge e stordisce.
Un uomo, studioso di Ted Hughes, è rimasto solo con i due figli, nella loro casa di Londra, dopo la morte della moglie. I tre devono fare i conti con un tempo che si è fermato, con un dolore ingombrante come una presenza. Fino alla visita inaspettata di uno strano personaggio che ha le piume e l’aspetto di un corvo. Un corvo dotato di un feroce senso dell’umorismo, un po’ baby-sitter, un po’ terapeuta, ma soprattutto amico. Un corvo che potrebbe aiutarli a venire a patti con la sofferenza e a dare un senso a un evento terribile. Sogno o realtà? Quello che è certo è che i ricordi feriscono, ma a poco a poco leniscono anche. E giorno dopo giorno il tempo ricomincia a scorrere.

Fiaba, romanzo, poesia, questo libro è una struggente storia sul dolore, sulla perdita, e sulla forza dell’immaginazione e delle parole che aiutano a vivere.

Un autentico caso letterario, una storia sul senso della perdita e sul ricordo come cura.
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Dylan Thomas, due poesie

Dylan Thomas nella traduzione di Maria Borio

La collina delle felci (apparsa su «Testo a fronte», 58, I, 2018)

Quando ero giovane e puro sotto i rami di mele
Vicino alla casa sonora e felice perché l’erba era verde,
La notte immensa sopra la valle stellata,
Il tempo mi faceva esultare e risalire
Dorato l’apice dei suoi occhi,
E fra i carri adorato ero il principe delle città di mele
E una volta oltre il tempo, divino, alberi e foglie
Con orzo e margherite trascinai
Lungo i fiumi di luce dei frutti caduti nel vento.

E verde e spensierato, celebre fra i granai
Vicino all’aia felice, e cantavo perché la fattoria era casa,
Nel sole che solo una volta è giovane,
Il tempo mi faceva giocare
Dorato nella grazia dei suoi mezzi,
E verde e dorato ero il cacciatore e il mandriano, i vitelli
Cantavano al mio corno, le volpi sulle colline latravano limpide e fredde,
E il giorno del Signore risuonava lento
Fra i ciottoli dei ruscelli sacri.

Per tutto il sole era correre, era bello, i campi
Di fieno alti come la casa, le melodie dai camini, era aria
E gioco, bello e d’acqua
E il fuoco verde come l’erba.
E la notte sotto le pure stelle
Mentre cavalcavo il sonno i gufi portavano la fattoria lontano,
Per tutta la luna, fra le stalle beato, sentivo i caprimulgi
Volare con il fieno dei covoni e i cavalli
Illuminarsi nel buio.

E poi sveglio, e la fattoria, come un nomade bianco
Nella rugiada, tornava indietro, il gallo sulla spalla: era tutto
Splendore, era Adamo e la vergine,
Il cielo nuovamente si addensava
E il sole si faceva rotondo proprio in quel giorno.
Così doveva essere la creazione della luce
Pura nel posto rotante del principio, i cavalli incantati
Caldi andavano fuori dalla stalla che nitriva verde
Verso distese di lode.

E celebrato tra le volpi e i fagiani vicino alla casa gioiosa
Sotto le nuvole appena create e felice quanto il cuore durava,
Nel sole più volte nato,
Percorrevo le mie strade svagate,
I desideri facevano correre la casa nel fieno alto
E non mi curavo, nei miei scambi celesti, che il tempo accogliesse
In ogni suo giro melodioso solo poche canzoni d’alba
Prima che i bambini verdi e dorati
Lo seguissero fuori dalla grazia,

Non mi curavo, nei giorni bianchi agnello, che il tempo mi portasse
Alto nel solaio affollato di rondini con l’ombra della mia mano,
Nella luna che sempre sta sorgendo,
Nemmeno che cavalcando il sonno l’avrei sentito
Volare con i campi alti e al risveglio nella fattoria
Dileguato per sempre da una terra senza bambini.
Oh, quando ero giovane e puro nella grazia dei suoi mezzi
Verde e morente mi teneva il tempo
Benché cantassi nelle mie catene come il mare.

Traduzione di Maria Borio Continua a leggere

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Nella lingua di Domenico Brancale

NOTA

Scannaciucce è il nome crudele che i contadini lucani di Sant’Arcangelo diedero alla pianta dell’agave che cresceva ai bordi di aspri e argillosi sentieri. Le lunghe foglie contornate di spine ferivano con ferocia gli asini, che passavano da lì. Da qui il nome e il titolo di questa raccolta di Domenico Brancale uscita nel 2019 con Mesogea Editore: scanna-re asino, ciucce.

 

Qua e pure llà
ne ’ssute tutte quande pacce
E chi u sàpe
si pure i na matine
mi gauzère pp’ ’a lune storte
e m’ ’a ruppère ’a cape
mbacce a nu specchie di luce.

Qui e pure lì
sono tutti usciti pazzi
E chi può dirlo
se pure io una mattina
mi sveglio con la luna storta
e mi rompo la testa
contro uno specchio di luce.

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Giampiero Neri, la memoria a ritroso

Giampiero Neri

Dallo stesso luogo

 

Come l’acqua del fiume si muove
contro corrente vicino alla riva
si disperde dentro fili d’erba
lontana dal suo centro
la memoria fa un cammino a ritroso
dove una materia incerta
torna con molti frammenti. Continua a leggere

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Sylvia Plath, “Olmo”

Sylvia Plath

L’OMBRA DELLA PAROLA FATALE

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Non ha paura del fondo perché lo ha abitato, Sylvia Plath. La sua poesia, confessionale eppure incapace di insterilirsi sul puro piano dell’autobiografia, adombra una ricerca finissima in ambito lessicale e fonico e, dalla voce di dentro, proietta sulla pagina letteraria un dialogo viscerale e sanguigno con la natura e i suoi elementi. Non c’è spazio per la neutralità: l’urlo deve essere ribadito, perché ai tormenti è necessario dare del ‘tu’. Tuttavia, sebbene la consapevolezza delle proprie ombre sia portatrice di una qualche lucidità, il dolore non porta qui a un livello superiore di conoscenza. L’autrice è ancora inchiodata al ruolo di Elettra che da sola ha voluto assegnarsi, non ha ancora imparato – né mai ne avrà occasione – la legge di Zeus per cui la sofferenza fa scaturire scintille di luce e di sapere. Orfana, culla la propria afflizione e come in un rito pronuncia per tre volte la parola fatale cui andare incontro. Continua a leggere

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