Piero Bigongiari, “l’amore del mondo”

Piero Bigongiari

 Il tuo occhio guarda nel fuoco
 la visione brucia
 un gelo nutre il seme della luce
 nel ghiaccio, la banchisa
 celeste si sfa.
 Io non so quel che è stato
 la terra si cretta, escono scorpioni
 il ragno sale al centro della tela
 il mare opina
 che il sole esiste per tingersi di terra
 sulle acque pensieroso.
 Non oso, amore, non oso
 chiamarti.
 Appoggiata a una domanda non è una risposta
 ma tutto l’amore del mondo
 è una parola.

 Piero Bigongiari, una poesia da Antimateria, Mondadori, 1972

 ***

 Ti perdo per trovarti, costellato
 di passi morti ti cammino accanto
 rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
 nella notte ti finge un po’ di rosa.

 Quali muri mutevoli, tu sposa
 notturna, quale spazio abbandonato
 arretri al niveo piede, al collo armato
 del silenzio dei cerei paradisi

 che in festoni di rose s’allontanano?
 Eco in un’eco, mi ricordo il verde
 tenero d’uno sguardo che dicevi
 doloroso, posato non sai dove

 di te, scoccato dentro il misterioso
 pianto ch’era il tuo riso. Oh, non io oso
 fermarti! non i muri che dissipano
 di bocci fatui un’ora inghirlandata.

 Odi il tempo precipita: stellata,
 non so, ma pure sola Arianna muove
 dalla sua fedeltà mortale verso
 dove il passo ritrova l’altra danza.

 Piero Bigongiari, una poesia da La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1992

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La luce incerta di Sandro Penna

Sandro Penna, fotografato a Roma nella sua casa in Via della Mola de’ fiorentini, sul lungotevere

 La vita… è ricordarsi di un risveglio
 triste in un treno all’alba: aver veduto
 fuori la luce incerta: aver sentito
 nel corpo rotto la malinconia
 vergine e aspra dell’aria pungente.

 Ma ricordarsi la liberazione
 improvvisa è più dolce: a me vicino
 un marinaio giovane: l’azzurro
 e il bianco della sua divisa e fuori
 un mare tutto fresco di colore.

 ***

 Mi nasconda la notte e il dolce vento.
 Da casa mia cacciato e a te venuto
 mio romantico amico fiume lento.

 Guardo il cielo e le nuvole e le luci
 degli uomini laggiù così lontani
 sempre da me. Ed io non so chi voglio
 amare ormai se non il mio dolore.

 La luna si nasconde e poi riappare
 — lenta vicenda inutilmente mossa
 sovra il mio capo stanco di guardare.

 ***

 Felice chi è diverso
 essendo egli diverso.
 Ma guai a chi è diverso
 essendo egli comune.

 ***

 Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.
 Ma più belli di te ragazzi ancora
 dormiranno nel sole in riva al mare.
 Ma non saremo che noi stessi ancora.

 ***

 Talvolta, camminando per la via
 non t’è venuto accanto a una finestra
 illuminata dire un nome, o notte?
 Rispondeva soltanto il tuo giudizio.
 Ma le stelle brillavano ugualmente.
 E il mio cuore batteva per me solo.

 ***

 Io vivere vorrei addormentato
 entro il dolce rumore della vita.

 da: Sandro Penna, Poesie, Milano Garzanti, 2000

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Gli occhi di Valerio Magrelli

Valerio Magrelli

 Ho spesso immaginato che gli sguardi
 sopravvivano all’atto del vedere
 come fossero aste,
 tragitti misurati, lance
 in una battaglia.
 Allora penso che dentro una stanza
 appena abbandonata
 simili tratti debbano restare
 qualche tempo sospesi ed incrociati
 nell’equilibrio del loro disegno
 intatti e sovrapposti come i legni
 dello shangai.

 

 

E la crepa nella tazza apre
 un sentiero alla terra dei morti”
 (W.H.Auden)

...come quando una crepa
  attraversa una tazza
 (R.M.Rilke)

 

 Ricevo da te una tazza
 rossa per bere ai miei giorni
 uno ad uno
 nelle mattine pallide, le perle
 della lunga collana della sete.
 E se cadrà rompendosi, distrutto,
 io, dalla compasione,
 penserò a ripararla,
 per proseguire i baci ininterrotti.
 E ogni volta che il manico
 o l’orlo s’incrineranno
 tornerò a incollarli
 finché il mio amore
 non avrà compiuto
 l’oper dura e lenta del mosaico.

 ***

 Scende lungo il declivio
 candido della tazza
 lungo l’interno concavo
 e luccicante, simile alla folgore,
 la crepa,
 nera, fissa,
 segno di un temporale
 che continua a tuonare
 sopra il passaggio sonoro,
 di smalto.

 Da: Valerio Magrelli, Nature e venature, Mondadori, 1987

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Derek Walcott (1930 – 2017)

Derek Walcott

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,

e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,

le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. E’ festa: la tua vita è in tavola.
*
Vivo sull’acqua,
solo. Senza moglie né figli.
Ho circumnavigato ogni possibilità
per arrivare a questo:

una piccola casa su acqua grigia,
con le finestre sempre spalancate
al mare stantio. Certe cose non le scegliamo noi,

ma siamo quello che abbiamo fatto.
Soffriamo, gli anni passano, lasciamo
tante cose per via, fuorché il bisogno

di fardelli. L’amore è una pietra
che si è posata sul fondo del mare
sotto acqua grigia. Ora, non chiedo nulla

alla poesia, se non vero sentire:
non pietà, non fama, non sollievo. Tacita sposa,
noi possiamo sederci a guardare acqua grigia,

e in una vita che trabocca
di mediocrità e rifiuti
vivere come rocce.

Scorderò di sentire,
scorderò il mio dono. E’ più grande e duro,
questo, di ciò che là passa per vita.

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L’Odissea di Kazantzakis tradotta da Crocetti

Nikos Kazantzakis

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Nel 1956 il Premio Nobel per la Letteratura è assegnato ad Albert Camus, che diviene il più giovane detentore dell’ambita onorificenza. Lo scrittore francese di origine algerina, con eleganza d’antan, invia un telegramma al più anziano collega : «Voi l’avreste meritato cento volte di più». Di fatti — si saprà in seguito — in quella tornata l’autore neogreco arrivò secondo, fortemente penalizzato per altro dal suo stesso paese che «si mobilita, non già per sostenerlo, bensì perché non gli venga assolutamente assegnato il prestigioso riconoscimento». È quanto scrive Nicola Crocetti nell’informatissima introduzione all’Odissea di Kazantzakis, opus magnum del poeta cretese, diviso in 24 canti — come le lettere dell’alfabeto greco — e composto dal «numero sacro» di 33.333 versi (5.527 in più dei poemi omerici messi insieme!) in decaeptasillabi, una sorta di metro barbaro che tenta di ricreare il ritmo degli esametri classici.

L’Odissea costa al suo versatile artefice 13 anni e mezzo di lavoro (dal 1925 al 1938), 7 stesure autografe, 240.000 versi redatti a mano, con un esercizio di scrittura che arriva anche a 200 decaeptasillabi quotidiani e con la presenza di 7.500 athisàvrista, ossia parole introvabili sui vocabolari, trascritte personalmente sul taccuino e recepite nelle isole Cicladi, espressione della cosiddetta dimotikì, la lingua popolare.


Ma il multiforme ingegno di Kazantzakis non era nuovo a imprese di questo genere: fu traduttore infaticabile dell’Iliade, della Divina Commedia, di Shakespeare, del Faust di Goethe e anche di Bergson, Darwin e Nietzsche, autore di drammi, opere di poesie, romanzi (si pensi a Zorba il greco, Il poverello di Dio e L’ultima tentazione, portata al cinema da Scorsese nel 1988). La sua «sconfinata fantasia» e la «prodigiosa capacità lavorativa» divengono presto leggendarie. Siamo, infatti, dinanzi alla vastità di un’intelligenza come poche nell’intero Novecento, uno scrittore profondamente incompreso a causa dei suoi rimpasti filosofici e ideologici (un eclettismo à la Posidonio), di quell’ibridismo sincretico che è alla base della sua stessa concezione religiosa.

La parola d’ordine dei libri di Kazantzakis è forse contaminatio, ossia quella tecnica di fusione di registri stilistici e visioni spirituali che ha come risultante un condensato caleidoscopico: non stupisce allora che il sequel dell’Odissea omerica, fluvialmente composta dal poeta di Iraklio classe 1883, funzioni come una «sintesi di tremila anni di storia del pensiero» e appaiano nel corso del poema Gesù (il Pescatore Gentile), Don Chisciotte (Capitan Uno), Buddha e addirittura Trotsky, Lenin e Stalin sotto mentite spoglie.

Ma qual è il significato profondo del testo? «Tutta l’opera di Kazantzakis — scrive Crocetti che ha lavorato indefessamente alla traduzione per quasi un decennio, producendo per altro una versione armoniosa e naturale, premiata recentemente dai lettori del Corriere della Sera —, e l’Odissea in particolare, è animata dalla lotta del bene contro il male. Secondo l’autore cretese, il compito di un poeta e di uno scrittore non dev’essere la ricerca del bello, ma la verità; non la creazione di un’utopia, ma la trasformazione dell’utopia in realtà». Dietro alle ottime aspirazioni si cela però un «pessimismo eroico» e il tentativo ulissiaco di fondare una Città ideale fallisce con l’esaurimento delle forze tensive.

L’Odissea, monstrum letterario che richiama a sé in un unico calderone lo scibile, racconta l’evoluzione stessa dell’umanità, il desiderio di grandezza, la sete inesausta di avventure e lo scontro con il trascendente (come Giacobbe e l’angelo di Dio), lo smisurato anelito dell’uomo non soltanto verso la conoscenza — aspetto che Kazantzakis ha mutuato dall’Ulisse dantesco —, ma soprattutto verso un principio di pienezza e di pace, già ravvisabile nelle prime battute dell’epos (Proemio, vv. 1-3): «Sole, grande astro orientale, berretto d’oro della mente,/ che amo portare di traverso, ho voglia di giocare,/ perché gioiscano i cuori finché siamo entrambi vivi». Le trappole logiche e i paradossi insiti nella poesia di Kazantzakis, persino nell’impurità linguistica, sintattica e ortografica, coincidono con le misticheggianti antinomie del suo pensiero, con il suo immaginare Dio ostaggio d’amore dell’uomo.

Magnifico è l’episodio in cui la Morte si addormenta e sogna la vita (canto VI, vv. 1265-1292): «Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,/ che sulla terra s’innalzino case, palazzi e regni,/ che sorgano giardini fioriti, e che alla loro ombra/ passeggino donne nobili e cantino le schiave».

 

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