Poesie assetate d’aria

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Quanto mai attuale risuona oggi l’interrogativo di Hölderlin, «perché i poeti in tempo di povertà?». La risposta suona identica a quella di allora, e ce la ricorda Heidegger: «Il linguaggio è la casa dell’essere» e la poesia è il recinto di terra dove si innalza questa casa: nei tempi di povertà i poeti ci riportano al fondamento dell’essere. È allora un’iniziativa lodevole dare la parola alle impressioni di chi modella la lingua di giorno in giorno, come fosse un manufatto prezioso e fragile, sempre sul filo dell’estinzione, e quindi un “oggetto” (almeno secondo Pessoa e Caproni) da trattare con estrema delicatezza.

L’idea di un’antologia di liriche ai tempi del Covid-19, Dal sottovuoto. Poesie assettate d’aria (a cura di Matteo Bianchi, Samuele Editore), sfida la possibilità di confrontarsi con l’effettuale, con l’hic et nunc, richiamando un ampio gruppo di poeti a redigere il diario dell’emergenza: tema di assoluta verticalità poetica — la vera poesia è sempre in emergenza —, il rapporto tra versi e libertà conferisce alla scrittura la nobilissima preoccupazione per le individualità minacciate non soltanto dal nemico invisibile, ma anche dalla prigione interiore, dallo spleen, dallo scacco esistenziale, dalle recrudescenze del solipsismo globalizzato, dal lutto. Come sottolinea il curatore, questa antologia «mette nero su bianco la volontà di confrontarsi sul tema dell’isolamento, di una quarantena tanto improvvisa quanto obbligata. L’idea è scaturita dalle sparute riflessioni trapelate sul web, ovvero dalla necessità sommersa di molti intellettuali di liberare un vuoto interiore che una volta confinato rimbombava con maggiore violenza». Continua a leggere

Il restyling di Crocetti Editore

Nicola Crocetti

Crocetti-Feltrinelli

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Da quando Crocetti Editore è entrato nel Gruppo Feltrinelli — la notizia Ansa è del 29 maggio 2020 — sono usciti otto libri (ma il catalogo è in aggiornamento) e due numeri della storica rivista «Poesia», divenuta bimestrale in brossura e con considerevole restyling grafico e strutturale. Nelle copertine della nuova serie di «Poesia» figurano Edna St. Vincent Millay e Carol Ann Duffy, sferzanti autrici anglofone che sembrano aprire davvero nel migliore dei modi le ultime incursioni nella lirica contemporanea (e non solo). La devozione di Nicola Crocetti per le voci femminili è completata da tre volumi di solidissime quote rosa: Adrienne Rich con Cartografie del silenzio, Alejandra Pizarnik con La figlia dell’insonnia e Mariangela Gualtieri con Antenata. L’americana originaria di Baltimora è stata una delle massime interpreti della letteratura politica femminista: ben presto lasciò le secche del modernismo di maniera per addentrarsi nel tema identitario di un complesso e fluttuante io lirico. Cartografie del silenzio è un’antologia di poesie scelte lungo l’asse 1951-1995 che «usa con estrema precisione gli strumenti grafici della scrittura, dislocando parole per suggerire intonazioni, esitazioni, intuizioni: il controllo del flusso», commenta nell’introduzione Massimo Bacigalupo. Tra le opere più rappresentative della Rich figura An Atlas of the Difficult World, che riporta la soggettività al noi in forma di «murale»: tra quest’ultimo e la «mappa» promessa «non c’è una grande differenza/ e la questione è da dove lo guardiamo».

Biografia altrettanto forte per l’argentina Pizarnik, poetessa cult nei paesi ispanofoni. Così la descrive Enrique Molina: «Creatura affascinata e affascinante, vittima e maga, ardeva sul rogo e, nello stesso tempo, con quella crudeltà propria della poesia, appiccava il fuoco al mondo circostante, lo faceva ardere con una fosforescenza tenera e cupa, che illuminava con un sorriso da fantasma il suo volto di bambina». Tra poème en prose e schegge basaltiche di versi la Pizarnik si muove con Nerval e Blake in un mondo onirico, visionario, contraddistinto da un’inesausta ricerca dell’innocenza perduta e dall’insorgere di voci multiple, come in questa intensa poesia scritta per Cristina Campo, Anillos de cenizas: «Stanno le mie voci al canto/ perché non cantino loro,/ i grigiamente imbavagliati nell’alba,/ i camuffati da uccello desolato nella pioggia.// C’è, nell’attesa,/ una voce di lillà che si spezza./ E c’è, quando si fa giorno,/ una scissione del sole in piccoli soli neri».

La materializzazione fisica della voce è invece al centro della poetica di Mariangela Gualtieri che esordisce nel 1992 proprio con Antenata: la phoné è espressa visivamente dall’utilizzo — diffuso in tutta la silloge — del maiuscoletto che sembra dare corpo alle parole nell’evidenza di una pronuncia più nitida, capace di modificare persino il timbro declamatorio (la Gualtieri è anche autrice di testi drammaturgici e ha fondato con Cesare Ronconi nel 1983 il Teatro Valdoca). Il motivo dominante è la presenza del sacro nell’immagine quotidiana, quasi in ogni gesto consueto e, in particolare, nella divinità dell’umano («tutte le gocce/ sulla sua faccia portano/ il consolo del fresco»).

Infaticabile traduttore della poesia neogreca, Crocetti ripropone anche un’antologia delle liriche di Ghiorgos Seferis, il quale — come ricorda Nicola Gardini — sembra attuare «la voce di tante voci», mettendo cioè in campo forze poetiche uguali e contrarie, assorbite da vaste letture nascoste in un faux exprès e dalla spiccata sensibilità di chi deve fare a cazzotti con le proprie origini. L’aspetto polifonico e altresì trasmutante della sua poesia è modulato sui simbolisti e modernisti di cui fu, non a caso, ottimo traduttore: Eliot, Pound e Auden su tutti. Da quest’ultimo pare accogliere il gusto per l’understatement e il disarticolare le cadenze ritmiche fino a produrre suggestioni differenti e distorcenti, in nessun modo legate fra loro: «Ma gli esorcismi, i beni, l’oratoria/ a che servono se sono lontani i vivi?». La mancanza di un continuum si riverbera finanche nei nodi espressivi dell’autore smirneo: non un lirico puro — benché abbia conosciuto a fondo Mallarmé e Valéry —, ma un istrione che passa rapidamente dal pensiero diaristico all’haiku, dalla secca boutade a versi tentacolari. Tra le tematiche più frequenti la statua, il marmo, il tratto devastatore e solvente del mare (non siamo distanti dagli Ossi di seppia, anche se con filtri antinomicamente evangelici): «Ancora poco/ e vedremo i mandorli fiorire/ i marmi splendere al sole/ il mare frangersi in onde;// ancora poco,/ solleviamoci ancora un po’ più su». Le storture e il senso non parificato della poesia di Seferis dipendono naturalmente dalla condizione esistenziale e politica in cui versa lo scrittore. Eppure, il canto dell’allodola riesce a salire in linea verticale e qui il poeta sa bene dove crivellare i suoi rimandi. Omero, Erodoto, Sofocle: l’invidiabile pedigree che, non senza contraccolpo, rinfocola l’amor patrio. Continua a leggere

Le poesie giovanili di Paolo Volponi

Paolo Volponi

Il giovane Volponi

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Forse la poesia è tutta un riecheggiare, un ritorno improvviso di connessioni, svasature di senso, brandelli di cose scritte e rivissute. Una recensione occupata a leggere e a commentare le Poesie giovanili di Paolo Volponi, a oggi inedite e riesumate in tre diversi fascicoli da un cassetto della sua casa urbinate, può avere l’occorrenza — con lieve inarcarsi di ciglia e diffusa bonomia — di lasciare per un attimo gli albori (Il ramarro e compagnia) e partire dalla fine, dall’ultima silloge pubblicata in vita da Volponi stesso: Nel silenzio campale (Manni, 1990). Apocalittico ma anche un po’ integrato, lo scrittore che da poco aveva mandato alle stampe Le mosche del capitale (si noti l’insistenza del suffisso -ale), con la sua ultima incursione nella lirica sembra restituire a mo’ di testamento un parlar aspro, un’ispirazione petrosa che è forse la linea carsica su cui si muove la sua intera vena poetica. Dagli inizi, appunto. O ancora prima: dall’Urvolponi di queste liriche frante e onestissime, che «nel primo fascicolo esaminato, il più robusto — le 90 carte — approdano al Ramarro» mentre per gli «altri due, più esili ma anche meno eterogenei, denominati Immagini e Altre, la raccolta di riferimento è L’antica moneta», commenta Ritrovato nella corposa introduzione. «Non mancano, ovviamente, casi di smembramento e di ricombinazione di gruppi di versi che rimbalzano da un fascicolo all’altro, a riprova del fatto che ci troviamo idealmente di fronte a quaderni di lavoro, all’interno di un laboratorio in cui il poeta sperimenta, testa, saggia e non cestina».

Siamo nel pieno degli anni Quaranta, Volponi frequenta l’Università della città natale con gli umori di un intellettuale in formazione lontano dai classicismi (c’è qui forse una consonanza con il Bianciardi studente a Pisa), ruvido, pizzicato dal surrealismo e dai lirici spagnoli, vergine nell’approccio all’opera e non ancora sfrigolato dalle sirene di un ermetismo residuale. I testi «verso Il ramarro» sembrano in aperto dissidio con l’esito finale della silloge del ’48: crudi, d’humor nero («Hai riso,/ ed io avrei sputato/ dentro la tua gola/ aperta»), in certo modo orrorifici («Come se il sangue/ annoiato/ godesse d’uscire») e dal sapore biblico («Io rido/ dietro pascendo/ la mia maledizione»), profondamente corporali («Diventi misurato squadrato,/ da non trovare appoggio/ nelle anche rotonde/ dei corpi delle donne»). Le sequenze sono nitide, affilate e già nascondono in germe i migliori esiti della lirica volponiana («Aspettavo i tuoi occhi/ comparire dal mattone», «Tra la testa e la pietra,/ tra gli specchi e le spade,/ ancora lungo/ è il discorso»). Le poesie «verso L’antica moneta» — estratte da un manipolo di 59 carte in tutto, come spiega Serenelli nella puntuale Nota al testo, seguita dall’apparato critico che ricrea la facies grafica dei manoscritti e dattiloscritti — pèrdono il tono scheggiato delle prime prove per acquisire maggiore doppiezza e impeto narrativo. Continua a leggere

Alberto Fraccacreta, “L’essere nel mondo”

Alberto Fraccacreta

Jaccottet nel suo studio mentre scrive Et, néanmoins

DI ALBERTO FRACCACRETA

Paroles à la limite de l’ouïe, à personne attribuables,
reçues dans la conque de l’oreille comme la rosée par une feuille.

Philippe Jaccottet, Et néanmoins

Pensa al martin pescatore del gesuita Hopkins.
L’arancio e l’azzurro come la polpa di una vetrata
della cattedrale a lui preclusa.
Riflette su come sia sfolgorante quell’esserino
accovacciato nel fiume di alcuni anni fa,
senza accorgersi che anche il suo volto lo stia diventando.
Stia distendendo le grinze, sia stirato. Sua moglie dipinge nell’atelier.
Lui rivolge l’attenzione a un frutteto di mele cotogne
che cambiò la percezione delle cose.
Ha cassato un titolo, poi ha scritto
con la pazienza e la deferenza del botanico
dei boschetti sacri sulle Alpi e di un minuscolo pettirosso
che da poco lo ha raggiunto in giardino. Si ferma Philippe. Ha un cedimento.
(La Drôme è d’animo grigioperlaceo, Alvernia rimane in silenzio.)
Ascolta parole che nessuno mai in alcun tempo sentì.
La sua penna cauterizza l’aria.

‘Tutte cose da niente, infime. Esca l’io dalla poesia’,
sembra balbettare, mentre affetta un fico
che deterge lo scrittoio e lascia un alone.
‘Entri la docilità della viola, l’umiltà
della carota selvatica, l’assenza del soggetto,
l’accoglienza della non dimenticanza di sé.’
Sorride, e la sua bocca è un grappolo di ribes.
Le nubi dell’Alta Provenza tendono l’orecchio. Il Rodano si volta.
‘Entri un soggetto capiente, che fa largo come un canneto.
Un io non io presente a sé stesso.
Entri la drappeggiatura turchina di convolvoli nel mio spazio. L’infimo. L’insulso.
Io resto.’ Philippe si alza adagio dalla scrivania
e ora cammina circospetto,
perché qualcosa sembra aver capito,
una nuova consapevolezza si erge oltre le opinioni di Starobinski
e pare condurlo nel mormorio indistinto
di un io povero,
di un centro della terra, un aratro dove non si cede
al limite del botro, non si scivola più per attrito
ma si vive la pratica di una fresca purezza
nel nido dell’anemone di Grignan. ‘Ma soprattutto, ripete,
entri l’umiltà della carota selvatica.’ Continua a leggere

Una poesia inedita di Charles Simic

Charles Simic

Something Evil Is Out There

That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.

Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe

Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,

With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.

C’è qualcosa di malefico là fuori

Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non sentiamo niente —
ancora più terrificante che sentire qualcosa.

Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere

ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,

con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.

Traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, da  “Avvicinati e ascolta” in uscita questo inverno per le Edizioni Tlon.

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