Amelia Rosselli (1930 – 1996)

Amelia Rosselli /credits ph Dino Ignani

Da “Variazioni belliche”

Se per il caso che mi guidava io facevo capriole: se per
la perdita che continuava la sua girandola io sapevo: se
per l’agonia che mi prendeva io perdevo: se per l’incanto
che non seguivo io non cadevo: se nelle stelle dell’universo
io cascavo a terra con un tonfo come nell’acqua: se per
l’improvvisa pena io salvavo i miei ma rimanevo a terra
ad aspettare il battello se per la pena tu sentivi per
me (forse) ed io per te non cadevamo sempre incerti nell’avvenire
se tutto questo non era che fandonia allora dove rimaneva
la terra? Allora chi chiamava – e chi rinnegava?
Sempre docile e scontenta la ragazza appellava al buio.
Sempre infelice ma sorridente mostrava i denti. Se non
v’era aiuto nel mondo era impossibile morire. Ma la morte
è la più dolce delle compagnie. La più dolce sorella era
la sorellastra. Il dolce fratello il campione delle follie.

*

da “Serie Ospedaliera”

Di sollievo in sollievo, le strisce bianche le carte bianche
un sollievo, di passaggio in passaggio una bicicletta nuova
con la candeggina che spruzza il cimitero.

Di sollievo in sollievo on la giacca bianca che sporge marroncino
sull’abisso, credenza tatuaggi e telefoni in fila, mentre
aspettando l’onorevole Rivulini mi sbottonavo. Di casa in casa

telegrafo, una bicicletta in più per favore se potete in qualche
modo spingere. Di sollievo in sollievo spingete la mia bicicletta
gialla, il mio fumare transitivi. Di sollievo in sollievo tutte

le carte sparse per terra o sul tavolo, lisce per credere
che il futuro m’aspetta.

Che m’aspetti il futuro! Che m’aspetti che m’aspetti il futuro
biblico nella sua grandezza, una sorte contorta non l’ho trovata
facendo il giro delle macellerie.

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BIOGRAFIA

Un episodio marchiò la vita e l’opera di Amelia Rosselli, un episodio a far capire che scrivere e vivere sono una cosa seria, e molto spesso sono la stessa cosa, soprattutto quando segnati da una tragedia: l’assassinio nel 1937 del padre, Carlo Rosselli, e del fratello di questi, Nello, durante la Resistenza antitifascista. Continua a leggere

Gino Scartaghiande, poesie scelte

Gino Scartaghiande credits ph. Dino Ignani

Poemi naturali

Quando s’apre non si
ripercorre nel sogno suo
insabbiandosi come un folto
di luci già entrato e pronto
alle voci raccolte intorno.
Poi qualcuno certo si spaventa
a vederlo ma lancia una striscia
solida di conservazione
e attende gli uccelli ad ogni
bordo forcaiolo che li dissangua.
Uscire ora sarebbe entrare.
Ho concesso senza perdermi,
parlando piano lungo una parete
che subito mi riassorbiva.

*

Ho letto i miei anni
nell’insinuarsi lento
delle strade. Come un mutante
dagli occhi marini
nel bianco scomporsi
della sacralità. S’è svuotato
di nuovo. Chiunque vorrà
il mistero, e per due notti
intere, è un corpo gettato
alla fame densa dei colori.

*

Mentre passanti tra i vetri
colmi della degradazione,
anch’io più volte in
essi, l’intero discorsivo
giorno nelle relitte a riva
o in largo. Vedete ora
il distacco è
tale vicinanza. Non saprei
essere. Ma se vola
un uccello da una torre
all’altra e in mille. Saprà solo
lo spontaneo meno dell’azzurro.
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Carmelo Princiotta, “Dalla poesia mi aspetto una nuova musica relazionale”

Carmelo Princiotta, credits ph Dino Ignani

BISOGNA DI NUOVO IMPARARE A SCRIVERE?
DI CARMELO PRINCIOTTA

Non so come sarà la poesia dopo il Covid. Non so nemmeno come sarà la nostra vita. Che cosa davvero significherà questo dopo, se ci sarà un dopo inteso come discontinuità oppure no. So che la poesia è costellata di molti dopo, sia storici che letterari: dopo la guerra, dopo Auschwitz, dopo Montale, dopo i Novissimi, dopo il ’68. E che ogni poeta ha declinato il suo dopo nei modi più vari, vivendolo volta per volta come nostalgia, ebbrezza o esaurimento. La percezione di un dopo ha spesso autorizzato il ricorso a categorie come quelle di postumità e postremità, che in futuro verranno forse trattate così come noi oggi trattiamo per lo più le decadenze e i decadentismi, perché sappiamo quante cose terribili e straordinarie sarebbero venute dopo. Più di recente, all’insistenza sul dopo, spesso avvertito come cappa, ipoteca, impossibilità, si è sostituita, negli studi letterari, l’attenzione all’oltre, non necessariamente secondo la logica del superamento, ma certo in quella dell’oltrepassamento, o, se vogliamo, di un ricominciamento che abbia coscienza non della fine, ma di una fine, forse intermittente.

«Bisogna di nuovo imparare a vivere» recita un verso di Anna Achmatova che Biancamaria Frabotta ha inserito ne La materia prima, il libro inedito con cui si chiudeva nel 2018 il suo Tutte le poesie 1971-2017: La materia prima un’interrogazione acuminata e trepidante della senescenza, biologica, storica, cosmica, e insieme una ricognizione del fondamento ultimo del nostro stare al mondo, che oggi possiamo leggere come un libro profetico, per la sua insistenza sulle «cure primarie» (questo il titolo della prima sezione). La risorgenza e la penultimità si intrecciano in un continuo contrappunto, come Espero e Lucifero, il «pietoso pianeta» che segna sia la fine che l’inizio delle nostre giornate, con l’ambiguità che è tipica di Venere. Il contrappunto è la vitalità di una poesia cosciente della nostra ineluttabile (più che della propria eventuale) mortalità. Perché a Frabotta gli esseri umani interessano più delle poesie. E le poesie interessano per la loro relazione con l’umano. Questo è il punto del dopo-Covid. Continua a leggere

Mario Benedetti (1957 – 2020)

A due mesi dalla scomparsa di Mario Benedetti, poeta italiano, pubblichiamo alcune poesie di Benedetti tradotte in inglese da  Roberto Binetti. 

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Da Moriremo guardati (1994)

Quando s’incatina il cielo
che non è più fermo.
Mi perde la tranquilla tersità
già dell’estate.

Più non si sfugge
dalle vie calde di portici.
Al refrigerio murato
del fingersi sovrani
più non riporta
l’incarto rotto del pensiero.

When the sky’s bulging
to the point that is no longer still.
The calm terseness gets me lost
of the late summer.

No longer one could slip away
from the hot lanes of the colonnades.
No longer the cracked wrapping
of thought recalls
the walled relief
from faking regality.

Da Umana gloria (2004)

È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.
Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,
il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.
Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono.

 

To live was a great dream
and real, always, painful and full of joy.
They came for our laughter,
for our tears burst against the table and the work in the fields.
They came to stare at us, here’s the miracle:
that is a man, those are all men.
He was the needle for the straw bags, the clear eye,
the knee pressing on the grass
in the etching with the clearly-drawn child in a clear day,
the dead father, smooth and clear
like a clean tile, an apple in a glove-box.
A poor man arrived from the woods’ banks and beneath the sky
with stories from other poor men that used to amass over the benches
and I was staring at him as I would stare at these buildings
with the ripped walls of the houses that do not stand anymore. Continua a leggere

“E stare soli è più grande”

di Giovanni Ibello

 

Si è scritto tanto in queste settimane su Mario Benedetti. Devo dire che ho molto apprezzato la eterogeneità degli interventi proposti su questo spazio ed è bello che il blog “Poesia, di Luigia Sorrentino” su Rai News abbia instaurato un dialogo così fecondo sulla parola di questo autore. Mario Benedetti sapeva individuare con esattezza il confine tra biografia e slancio universale della parola poetica. A mio avviso la sofferenza fu per il poeta non tanto una personalissima trincea esistenziale, come invece è stato scritto nei giorni passati, bensì un prezioso cifrario che gli ha consentito di sondare e decodificare l’umano, sia nelle sue espressioni più elevate che in quelle più misere: la commozione (“E piange la parola che riesce a dire”), il disarmo, la solitudine, lo smarrimento, la metastatica condizione dei fragili, il peso delle cose, “il peso degli oggetti… il loro significare peso e perdita” (come peraltro scriveva Amelia Rosselli in Documento, Garzanti, 1976).

Ha perfettamente ragione Antonio Riccardi quando scrive (in introduzione al volume Benedetti, Tutte le poesie, Garzanti, 2017)  di un poeta “fedele alle cose, soprattutto le più comuni e dimesse”. La poesia di Mario Benedetti, certamente umile e antiretorica, si pone dunque come un atto di conoscenza essenziale della vita, dello smarrimento (come archetipo dell’esistenza) e della morte. Non si può giammai parlare di mero diarismo (a tal proposito è magistrale l’emistìchio “Si diventa altri occhi per morire dovunque”, da Tersa Morte, Mondadori, 2013). Il poeta non fa mai esplicito riferimento alle sue vicende private, ma ci mostra un’umanità desolata (“adesso che piangere è pioggia, / e stare soli è più grande”) e lo fa adottando una sintassi franta e faticosa. Va da sé che in Benedetti la forma esprime anche una co-sostanza del pensiero poetico. Con la sua testimonianza in versi, Benedetti ci confessa che “il poeta da semplice creatura che vive nel mondo diventa colui che crea e rinnova perpetuamente il mondo stesso” (questo l’auspicio di Adonis in La musica della balena azzurra. La cultura araba, l’Islam, l’Occidente, Guanda, 2005). Benché si tratti di un modo di “stare nelle cose della vita” pienamente consapevoli della propria caducità, è curioso che la parola di Benedetti sembra quasi celebrare un’assenza, stringere intime alleanze con un vuoto di parole (che “non sono per chi non è più”) e di interlocutori. Continua a leggere