Nello sguardo di Iosif Brodskij

Iosif Brodskij

OLTRE OGNI DUREVOLE BUIO

COMMENTO E SCELTA DEL TESTO DI BIANCA SORRENTINO

L’indolente atmosfera delle rovine di Roma avvince l’esule Brodskij in una luminosa fascinazione. Sulla scorta delle Elegie romane composte da Goethe durante ben altri fasti, il poeta russo si inserisce nella tradizione rinverdendola: la lezione dell’antico, pur nella sua vigorosa persistenza, si lascia pervadere da un novecentesco disincanto. Così la meditazione oraziana sul tempo, privata dell’aura di sacralità, rivive negli stupori e nell’ironia di un ‘barbaro’, nella disillusione di chi vaga tra le vestigia della cultura classica e ne ricava una riflessione feroce su ciò che è eterno e ciò che invece non sa durare. L’invisibile abita i nostri luoghi; l’indivisibile è capace di inchiodarci alla gratitudine, ai ricordi, all’appartenenza. Roma è nella sua luce: l’oro che si è salvato dalla sua decadenza rimane nello sguardo del poeta, sopravvive alle molte ombre della storia ed è sufficiente a riscattare ogni durevole buio. Continua a leggere

Sylvia Plath, “Olmo”

Sylvia Plath

L’OMBRA DELLA PAROLA FATALE

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Non ha paura del fondo perché lo ha abitato, Sylvia Plath. La sua poesia, confessionale eppure incapace di insterilirsi sul puro piano dell’autobiografia, adombra una ricerca finissima in ambito lessicale e fonico e, dalla voce di dentro, proietta sulla pagina letteraria un dialogo viscerale e sanguigno con la natura e i suoi elementi. Non c’è spazio per la neutralità: l’urlo deve essere ribadito, perché ai tormenti è necessario dare del ‘tu’. Tuttavia, sebbene la consapevolezza delle proprie ombre sia portatrice di una qualche lucidità, il dolore non porta qui a un livello superiore di conoscenza. L’autrice è ancora inchiodata al ruolo di Elettra che da sola ha voluto assegnarsi, non ha ancora imparato – né mai ne avrà occasione – la legge di Zeus per cui la sofferenza fa scaturire scintille di luce e di sapere. Orfana, culla la propria afflizione e come in un rito pronuncia per tre volte la parola fatale cui andare incontro. Continua a leggere

Isabella Morra, da “Rime”

Isabella Morra

CANTO PER IL PADRE

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Sotto i colpi inferti da una Fortuna a lei avversa, Isabella Morra cristallizza la sua fulminea esistenza in un piccolo e adamantino canzoniere, composto nell’altissima solitudine di un castello. La condanna al destino dell’abbandono, celebrata dalla sua stessa famiglia, acuisce in lei la sensibilità per la sorte delle Arianne, le fanciulle che nel mito giacciono addormentate su una riva dimenticata, dopo la partenza dell’amato. Nei versi morriani, l’addio è alla figura paterna in fuga: il suo canto filiale si consuma in un funambolico equilibrio tra innocenza e accusa di tradimento. Il tormento che deriva dalla permanenza nel luogo dell’infelicità non impedisce tuttavia alla poetessa di proiettare il suo sguardo oltre il limiite imposto, nella ricerca mai paga di una visione che culli una qualche novella.

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La poesia di Antonia Pozzi

Antonia Pozzi

DESIDERI BIANCHI DI NEVE

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

La poesia, e dunque la vita, di Antonia Pozzi ruotano attorno alle ombre della parola ‘desiderio’, si nutrono degli slanci legati alla volontà di donarsi e soffrono al contempo un destino di spietati rifiuti e subìte solitudini. Nei suoi versi immaginifici i fotogrammi di assoluta levità parlano spesso di quiete e pace: colori pastello, azioni appena annunciate e mai compiute, distanze che non sanno scatenare passioni irruente. Una sola è la preghiera che si leva – leggerezza. Il cuore pesa come un macigno, e il placido paesaggio che si stende davanti agli occhi non sa stemperare questo stato dell’anima. Eppure resta un confidente immaginare il futuro: una sera che verrà, l’anima ormai libera saprà – senza far rumore, muovendosi appena – farsi beffe della lontananza e intraprendere un cammino ancora inesplorato.

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Char, “la finità del poema è luce”

POESIA COME RISVEGLIO

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Immarcescibile perché eternamente capace di suscitare la vita, la parola ha per René Char la responsabilità etica del risveglio: dall’oscurità dell’incompiuto la poesia traghetta la finitudine dell’uomo verso una luminosa pienezza. Ricusati i “ninnoli di vacuità” dell’esperienza surrealista, l’autore francese partecipa – attraverso il suo dire poetico che conosce il mistero dell’origine ed è pronto ad accogliere la promessa dell’avvenire – alla costruzione del Senso dello stare al mondo; la sua sfida alla gola nera della morte è una resistenza libera e laica, è una rivolta che deriva dall’attitudine a invenire – più che a inventare –, a scoprire dopo aver cercato. Negli anni Sessanta, su iniziativa di Bassani e parallelamente al lavoro di Sereni, Caproni si accosta pudico ai frammenti incorruttibili dell’esistenza di Char e ne restituisce nella resa italiana una ricchezza così pregnante da segnare il suo personale cammino. Fuoco e cenere, i due poeti hanno cantato lo scontro con la Bestia innominabile, l’incontro con la vita, sempre riconquistabile, e hanno conferito significato alla bellezza della parola ‘gratitudine’.

 

On ne peut pas commencer un poème, sans une parcelle d’erreur sur soi et sur le monde, sans une paille

d’innocence aux premiers mots.

Non si può cominciare un poema senza una particella d’errore su di noi e sul mondo, senza una pagliuzza d’innocenza alle prime parole.

 

La poésie me volera ma mort.

La poesia mi ruberà la mia morte.

 

Pourquoi poème pulvérisé? Parce qu’au terme de son voyage vers le Pays, après l’obscurité prénatale et la

dureté terrestre, la finiture du poème est lumière, apport de l’être à la vie.

Perché poema polverizzato? Perché al termine del suo viaggio verso il Paese, dopo l’oscurità prenatale e la durezza terrestre, la finità del poema è luce, apporto dell’essere alla vita.

 

Le poète ne retient pas ce qu’il découvre; l’ayant transcrit le perd bientôt. En cela réside sa nouveauté, son infini et son péril.

Il poeta non trattiene ciò che scopre; dopo averlo trascritto, presto lo perde. In ciò risiede la sua novità, il suo infinito e il suo pericolo.

 

René Char nella traduzione di Giorgio Caproni (Einaudi, 2018)

René Char. Poeta francese (L’Isle-sur-la-Sorgue, Valchiusa, 1907 – Parigi 1988), aderì formalmente al movimento surrealista (1929), ma ne rimase in effetti distaccato assumendo anche atteggiamenti critici. La rarefazione del linguaggio poetico esprime, in Char, una profonda e impegnata ricerca umana, che fa della sua lirica uno dei più alti esempi d’invito a una fraternità che nulla esclude: neppure le cose che circondano l’uomo. Tra le sue raccolte poetiche: Arsenal (1929); Le marteau sans maître (1934), che ha ispirato l’omonima composizione vocale-strumentale di P. Boulez; Dehors, la nuit est gouvernée (1938); Feuillets d’Hypnos (1946), nate dalla sua esperienza nella Resistenza; Fureur et mystère (1948); Les matinaux (1950); Recherche de la base et du sommet (1955); La fausse relève (1959); La parole en archipel (1962); Commune présence (1964); L’âge cassant (1965); Retour amont (1966); Le nu perdu (1971); La nuit talismanique (1972); Aromates chasseurs (1976). In collaborazione con A. Breton e P. Éluard ha scritto Ralentir, travaux (1930). Ha riunito in Trois coups sous les arbres (1967) l’insieme dei suoi testi drammatici. È anche autore di saggi. Una selezione di Poesie tradotte da Giorgio Caproni è stata pubblicata nel 2018 per i tipi di Einaudi, a cura di Elisa Donzelli.