Diego Bentivegna, “Il fiume mare”

Diego Bentivegna

DIEGO BENTIVEGNA  
Dopo quasi tre settimane chiusi a casa, un mese fa abbiamo ripreso ad andare in bicicletta.
Almeno una volta alla settimana, facciamo una lunga strada in bicicletta, fuori cittá, verso il Nord, dove sono nato e dove ho vissuto fino ai 28 anni.
Al Nord vivono i miei. E vive anche la madre di M.
In bicicletta, quei giorni, andiamo anche fino la casa del padre di M., che abita a 18 kilometri da casa nostra, a Victoria. Sempre verso Nord.
Per fare tutto quel pellegrinaggio, per arrivare all´ultima stazione del percorso e per tornare a casa nostra, bisogna quindi intraprendere una bella escursione, sotto alberi che, nei giorni d´autunno, hanno le foglie un po’ gialle, un po’rossastre, un po’ marrone.
Vicino al fiume.
Si è parlato tantissimo d´animali in queste settimane. Ho letto anche testi bellissimi sul rapporto tra uomo, animale, ambiente.
A dire il vero, già qualche messe prima che arrivasse il male, abbiamo visto un certo cambiamento nel nostro rapporto – diciamo un po’ lontano (da anni che non ho neanche un gatto) -, con i veri altri, con gli animali.
D´estate, nei colli, a Calamuchita, ci piace guardare gli altri.
Quasi ogni sera, quando cade il sole, usciamo di casa per trovare i gufi.
Quasi ogni mattina, verso le undici, andiamo fino il fiume del paese per guardare dalla riva gli uccelli acquatici. Siamo andati oltre il fiume, dove una azienda mineraria ha aperto enormi pozzi, oggi con acque, dove abitano cigni e dove abitano anche delle anatre.

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Jorge Luis Borges (1889 – 1986)

Jorge Luis Borges

El desierto

Antes de entrar en el desierto
los soldados bebieron largamente el agua de la cisterna.
Hierocles derramó en la tierra
el agua de su cántaro y dijo:
Si hemos de entrar en el desierto,
ya estoy en el desierto.
Si la sed va a abrasarme,
que ya me abrase.
Ésta es una parábola.
Antes de hundirme en el infierno
los lictores del dios me permitieron que mirara una rosa.
Esa rosa es ahora mi tormento
en el oscuro reino.
A un hombre lo dejó una mujer.
Resolvieron mentir un último encuentro.
El hombre dijo:
Si debo entrar en la soledad
ya estoy solo.
Si la sed va a abrasarme,
que ya me abrase.
Ésta es otra parábola.
Nadie en la tierra
tiene el valor de ser aquel hombre. Continua a leggere

Le lettere di Alejandra Pizarnik

Alejandra Pizarnik

A cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini, è uscito per Giometti&Antonello L’altra voce, (2019) una raccolta di lettere di Alejandra Pizarnik. La corrispondenza è durata dal 1955 al 1972. Pubblichiamo una delle lettere, inviata da Alejandra a Jean Strarobinski.

Buenos Aires, 17 dicembre 1971
Caro Jean Starobinski,
La ringrazio immensamente del suo attestato e non di meno della sua lettera. Sì, lo dice perfettamente: «Le mie terribili esperienze devono essere ricoperte dei segni della poesia…». Sì, bisogna ricoprire di poesia le fratture, le crepe, i buchi… tutto quello che convoca la presenza dell’assenza (o dell’assente). Credo anche e soprattutto nella correzione dei testi. «Guarire» una poesia significa guarire questa frattura così ben definita da P.V. Troxler (Béguin: L’âme…) significa, anche, ricostruirsi. Artaud: «Ricostruirò l’uomo che sono».
Al tempo stesso, la mia sete di toccare, la mia sete animale è così grande che soffro molto (o troppo, se vi fosse una misura) per il semplice fatto di non potere, ad esempio, bere la parola «acqua».
So che si tratta di concetti un po’ ambigui. Fino al dicembre 1970 – data della mia frattura centrale – bevevo la poesia, avevo nella poesia una piccola casa per me sola (sono solo venuta a vedere il giardino – dice l’Alice di Carroll), avevo un giardino minuscolo nelle mie poesie e, soprattutto, vedevo in esse «gli occhi che porto nel mio ventre disegnati» (San Giovanni della Croce). Ora le mie poesie sono sorprendentemente orali o colloquiali e soprattutto procaci (metafisiche anche, ma è un termine, questo, che mi dà vergogna, e lo sostituisco con le strane melodie di Scardanelli – immaginarle, queste melodie («dissonanti» come dicono i prof.) mi ossessiona…).
C’è un canto degli indios dell’America del Sud che fa: «Cantare… cantare… / Preferisco (o voglio) mangiare le pietre…». Solo («c’è sempre un solo» – Lautréamont, mio adorato carnefice) che questo canto ricorda anche questi versi:
«ma con la lingua fredda e morta in bocca
non vedrò la voce a te dovuta».

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Juan Arabia, alla ricerca di un esilio

Juan-Arabia

Juan Arabia

di Antonio Nazzaro

Negli anni 70 il Sud America ha vissuto la tragedia delle dittature. Dittature che hanno portato il tema dell’esilio come uno degli elementi più forti, dittature che hanno inevitabilmente fatto nascere una nuova corrente di pensiero: la letteratura dell’esilio.

La generazione dei letterati nata a cavallo di quegli anni oscuri ha al centro dei suoi testi il conflitto tra il non aver voluto vedere o l’essere stati complici del regime, il confronto tra i padri e i figli e la speranza di un paese nuovo.

La poesia di Juan Arabia mette al centro dei suoi scritti un nuovo *destierro senza esilio. Come si fa evidente nel suo ultimo libro, già pubblicato in diversi paesi dell’America Latina, Il nemico dei Thirties e si spera di pronta pubblicazione in Italia. Continua a leggere

Marcella Graziosi, “Il gioco della campana”

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Nota di Marcella Graziosi

“Pubblicare il primo libro è per me una partenza che racchiude tanti precedenti passaggi attraverso il gioco della vita, compiuti con gioia, a volte con sofferenza ma sempre con l’impegno instancabile di quando da piccola giocavo al gioco della campana, o rayuela, per le strade di Buenos Aires.
Una memoria dei molti viaggi che mi hanno condotto ad essere ciò che sono; perché nulla vada perduto del bagaglio da portarmi dietro quando la vita chiamerà ancora e il mio cuore sarà pronto a seguirla verso nuovi spazi.”

Dall’introduzione al libro scritta dall’autrice

Il gioco della campana, la Rayela in argentino, ha rappresentato per me uno dei divertimenti preferiti quando a Buenos Aires, mia città natale, trascorrevo molte ore per strada a saltare sulle caselle disegnate dai bambini.

Lanciare il sasso e seguirlo nel quadrato dove andava a finire, raccoglierlo e poi tornare al punto di partenza senza cadere, saltando su un piede solo era, ogni volta, una sfida che metteva alla prova la nostra abilità.

Da allora molte volte ho lanciato il sasso nella rayuela della vita e raggiungerlo ha rappresentato una partenza, un viaggio, a volte felice, a volte fatale, a volte voluto, fuori e dentro di me.

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