Benedetti, straniero alla propria morte

MARIO BENEDETTI A RITRATTI DI POESIA, 2011 CREDITS PH DINO IGNANI

Ecfrasis
di Antonella Anedda

“Ho freddo ma come se non fossi io”. In questi versi c’è il mondo di Mario Benedetti, morto il 27 marzo 2020 a sessantaquattro anni.

Chi ha ascoltato le sue letture ricorda come fossero il rendiconto di una distanza all’interno della quale però succedeva qualcosa di sorprendente: Benedetti scavava con il suo linguaggio uno spazio di indifferenza dove inaspettatamente si accendeva una promessa.

Può sembrare un paradosso, ma dire come se non fossi io ci allontana da quella prossimità che avrebbe impedito di scriverlo davvero. Si guarda se stessi, si constata la presenza del gelo e insieme si scandaglia quello che siamo di fronte alla percezione. Dire “come se non fossi io” significa aver attraversato lunghe distese, essere saliti, caduti, risaliti. Freddo, fossati, torrenti, case color ocra, pitture nere come quelle dell’amato Goya, incubi e strappi luminosi.

Mario Benedetti a Nimis in Friuli sul bordo della Slovenia, il paese della madre. Il confine è il sigillo di un’identità che può essere spostato facilmente, è la prova della storia che agisce sulla geografia. Perché se la “storia è fievole” la storia è anche un fiele che corrode. Il confine mostra a tutti noi cosa possiamo diventare e cosa possiamo smettere di essere. Tenuta e smarrimento, coerenza e contraddizione.

La lingua, come il paesaggio (Cividale con la sua arte è a pochi passi) è colta e periferica, attraversata da scosse, sedimentata in fossili, acque di torrente. Fa corpo con quello che guarda, non può prescindere dal dialetto, ma, come hanno riflettuto i suoi amici e poeti Stefano dal Bianco e Gian Mario Villata, invece di usarlo Benedetti se ne lascia “investire”, lo patisce per poi trasmutarlo nell’ italiano estraneo, straniero e straniato di chi è vissuto ascoltando una lingua diversa. Dal dialetto si coagula un quotidiano fatto di suoni fitti di consonanti, fatica, sprofondamenti, ma in grado di farsi colpire da folate di altri linguaggi (il francese prima di tutti) e pensieri, da altri spazi aperti al vento, alle ginestre, alle maree come la Bretagna, con quella materia che aveva già accolto la poesia di Paul Celan. Continua a leggere

Addio a Mario Benedetti (1955-2020)

Mario Benedetti, Credits ph. Dino Ignani

«Povera umana gloria/ quali parole abbiamo ancora per noi?»
(da Umana gloria M. BENEDETTI)

Mario è morto il 27 marzo 2020. Viveva dal 21 marzo 2018 in una residenza a Piadena, in provincia di Cremona. Nel 2014 era stato colpito da un arresto cardiaco con ipossia cerebrale, ma si era ripreso e stava bene, anche se non ha più scritto nulla. E’ morto nell’infuriare di questa epidemia terribile che è il COVID- 19.

Mario Benedetti verrà temporaneamente tumulato nella tomba di famiglia di Donata Feroldi, l’amica di una vita, a Piadena, perché lui aveva espresso il desiderio di essere sepolto acconto al padre a Nimis, dove aveva vissuto,  in Friuli. Ma le circostanze emergenziali in cui tutti ci troviamo, non consentono di farlo subito.

Lunedì 30 marzo ci sarà, in tarda mattinata, una piccola cerimonia funebre al cimitero a Piadena.  Date le circostanze, sarà un semplice saluto, al quale parteciperanno tre o quattro persone.

Da Umana Gloria

È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.

Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,

il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.

Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono.

*

Che cos’è la solitudine.

Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.

Ho freddo, ma come se non fossi io.

Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.

Che cos’è la solitudine.

La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.

L’ho letto su un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.

*

Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.

*

Come dire che due ragazzi camminano
sulla breve salita
e la notte cammina
in quel breve salire,
e in questo poco tempo noi siamo vivi,
erba, fiume laggiù
che mormori a tutto il vuoto e a me
l’eco del salire dei corpi?

*

Non sapevo se le mie parole erano le stesse
per tutti, la mia notte
se era la stessa nessuno lo diceva.
Valli, ogni volta che venivo,
erba ripetevo, adesso è ancora questa erba,
e alberi, toccarli, dire alberi.
Viale che non guardo,
rimasto come lo sapevo ma neppure un viale.
E cammino anche più in là di me
adesso che piangere è pioggia,
e stare soli è più grande.

Mario Benedetti, da Tutte le poesie (Garzanti, 2018)

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Dall’Introduzione all’intervista di Luigia Sorrentino a Mario Benedetti (RAI Radio Uno, 2012)

“Mario Benedetti ha pubblicato numerose raccolte di poesie, traduzioni, saggi critici e prose poetiche. Ha collaborato a vari giornali e riviste letterarie ed è una delle voci più significative della nostra poesia più recente. Nei suoi versi vi è tutta l’incertezza e la provvisorietà dell’essere umano.”

Così raccontava di se stesso nell’intervista radiofonica (n.d.r. “Per il verso giusto” – I poeti su Radio Uno) – realizzata nel 2012 da Luigia Sorrentino: “Sono nato malato… anche da bambino… avevo sempre qualcosa.

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Giovanni Ibello, “Dialoghi con Amin”

Giovanni Ibello, Credits ph. Dino Ignani

Prefazione di Luigia Sorrentino

In questi versi ulcerati di Giovanni Ibello c’è un sopravvissuto che invoca la rivoluzione dal margine dell’abbandono. La città sulla quale riversa lo sguardo il poeta non è patria madre per Amin – figura centrale del poemetto – ma nemmeno per l’altro protagonista di questi versi che condivide con il compagno la frustrazione della cancellazione. Il primo frammento del poemetto è già un avvertimento per il lettore: “La poesia è un lunghissimo addio”. La parola di questa poesia rivela fin da subito la cronicità della separazione, addio, miseria, segregazione si annidano in questi frammenti insurrezionali. I versi sorgono quindi da un grido di addio, dalla rinuncia a “fare alta la vita”, contratti come sono nel loro stato di alienazione, fino allo spasimo dell’ultima variante. Una parola potente che tocca la condizione umana tesa sul cavo di un burrone, una parola folgorante che si fa carico di qualcosa che non riguarda solo la capacita versificatoria di Giovanni Ibello. La lingua del poemetto, ha infatti, una prospettiva ampia, che parla di una generazione disposta a morire e a risorgere con Amin, con versi memorabili come questi: “Ci lega la parola feroce, una giostra di penombre./ L’incanto di una teleferica,/ l’esatto perimetro di un grido,/ tu che muori / in quell’assillo di aranceti / che ritorna.” Il cifrario della poesia di Ibello è uno Yucatan, inteso come luogo irraggiungibile e impenetrabile, che però, alla fine, trova nella cancellazione la tenerezza della visione: “Troveremo il dio delle cose lontane, troveremo una foresta di spine nel buio oltremare.” Ecco che la voce del reietto si fa espressione di una mutazione creaturale e lascia intravedere “un rammendo di secondi luce” che lenisce le ustioni provocate dalla violenza dell’esperienza terrena. Versi che rivelano che la speranza nasce dai disperati, dagli abbandonati: saranno loro a trovare “un altrove di spine e diademi.”

Dialoghi con Amin di Giovanni Ibello (premio Poesia Città di Fiumicino 2018, sezione “Opera inedita). Continua a leggere

Novità editoriale, Giovanna Sicari

Giovanna Sicari, Credits ph Dino Ignani

Ti ho sognato con una divisa allegra da marinaio
giungevi come l’uomo pietoso, dentro la schiuma morbida
toccavi con calma evitando le ferite, ogni giorno
iniziavi la discesa, bruciavano le ferite
ma le vette aprivano drappi e buchi
per istinto uniformi.

Sigillo (Donzelli, 2019)i

Trent’anni dopo la prima uscita di Sigillo di Giovanna Sicari stampato da Crocetti nel 1989, la casa editrice Donzelli pubblica il libro nella sua integrità con una Introduzione di Giancarlo Pontiggia e una Nota di Milo De Angelis.

 

IL LIBRO

S’intende l’innocenza, stasera il suolo ci raggiunge, si sospetta della verginità ancora intatta. Amore non so, non voglio sapere se dalla via s’intravede la statua risorta. Continua a leggere

Mariangela Gualtieri, “Quando non morivo”

Mariangela Gualtieri, credits ph Dino Ignani

IL QUOTIDIANO INNAMORAMENTO

L’amore mio ha tanti di quei nomi.
Batte le foglie a volte come cielo
che scende in gocce. Tira via le foglie
secche e le trasporta in volo.
A volte l’amore mio sorge e risplende
a volte per un momento breve
mi guarda sul sentiero con occhi
spaventati di capriolo. Ha molte facce
l’amore mio. Umane facce
e musi. Ha tutte le parole.
Ha note, sinfonie, voci cantate.
Ha un vuoto così grande
che mi accoglie mi chiama mi
atterrisce. L’amore mio.
Mi consola e mi duole.
E non muore – non muore.
Da forma a forma fiorisce. Continua a leggere