L’ultima lettura di Carlo Bordini

Carlo Bordini, credits ph. Dino Ignani,  Orto botanico, Roma, 2018

 

di Luigia Sorrentino

Questa breve lettura è l’ultima compiuta in video da Carlo Bordini. Carlo presenta la rivista “Diacratica”, da lui co-diretta e legge una poesia tratta da “Sonetti per King-Kong“, (1977) un libro ormai introvabile, mai più ristampato, del poeta Gino Scartaghiande. Un commovente saluto all’amico poeta.

NOTA DI CLAUDIO ORLANDI
(Radio Pomona)

Ero a casa sua agli inizi di ottobre 2020 e gli chiesi se avesse voluto fare una video lettura per Radio Pomona, lui decise per questa presentazione.

Carlo parla del progetto «Arianna – I libri ritrovati», una collana di poesia ospitata dalla rivista online “Diacritica” e diretta da lui, Giuseppe Garrera e Sebastiano Triulzi. (continua dopo il video)

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Gli occhi di Valerio Magrelli

Valerio Magrelli

 Ho spesso immaginato che gli sguardi
 sopravvivano all’atto del vedere
 come fossero aste,
 tragitti misurati, lance
 in una battaglia.
 Allora penso che dentro una stanza
 appena abbandonata
 simili tratti debbano restare
 qualche tempo sospesi ed incrociati
 nell’equilibrio del loro disegno
 intatti e sovrapposti come i legni
 dello shangai.

 

 

E la crepa nella tazza apre
 un sentiero alla terra dei morti”
 (W.H.Auden)

...come quando una crepa
  attraversa una tazza
 (R.M.Rilke)

 

 Ricevo da te una tazza
 rossa per bere ai miei giorni
 uno ad uno
 nelle mattine pallide, le perle
 della lunga collana della sete.
 E se cadrà rompendosi, distrutto,
 io, dalla compasione,
 penserò a ripararla,
 per proseguire i baci ininterrotti.
 E ogni volta che il manico
 o l’orlo s’incrineranno
 tornerò a incollarli
 finché il mio amore
 non avrà compiuto
 l’oper dura e lenta del mosaico.

 ***

 Scende lungo il declivio
 candido della tazza
 lungo l’interno concavo
 e luccicante, simile alla folgore,
 la crepa,
 nera, fissa,
 segno di un temporale
 che continua a tuonare
 sopra il passaggio sonoro,
 di smalto.

 Da: Valerio Magrelli, Nature e venature, Mondadori, 1987

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Franco Loi, un mistico dentro le “cose” del mondo

Franco Loi, Credits ph. Dino Ignani

di Umberto Piersanti

 

Con Franco Loi si chiude l’antologia di Pier Vincenzo Mengaldo e si chiude un’epoca. Il grande interprete della poesia novecentesca, non a caso, ha sempre asserito che gli era molto difficile se non impossibile parlare degli autori venuti dopo. Si chiude anche la stagione dei grandi poeti dialettali che ho conosciuto di persona e che con lui hanno portato questo tipo di scrittura a livelli molto alti: Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Nino Pedretti e Franco Scataglini che lo stesso Loi fece scoprire ad un pubblico più vasto.

Ho sentito Loi leggere molte volte: la sua lingua così difficile e complessa riusciva a raggiungere tutti, anche quelli che non sapevano una parola del dialetto milanese. Un’oralità straordinaria che aveva in comune, in modi certamente molto diversi, con Tonino Guerra.

Non è questa la sede per disquisire sulla complessità di un dialetto che univa al milanese le voci degli inurbati lombardi negli anni cinquanta, apporti emiliani e parole di sua pressoché totale invenzione. A differenza di Pasolini la sua non era una lingua materna, ma una lingua paterna, formatasi più che attraverso le memorie tramandate, attraverso il duro apprendistato della vita, tra osterie, strade e impegno civile.

La forza della sua poesia sta in una visionarietà che penetra nel reale con un’intensità drammatica dove il teatro è la scena del mondo vissuto dentro un panico e assoluto microcosmo milanese.

Molto si può discutere sulle sue prospettive ideologiche, sulla sua visuale “politica” del mondo. Antifascista, militante comunista, vicino alle posizioni della sinistra radicale: li ha delusi però tutti, a cominciare da Franco Fortini e Pier Vincenzo Mengaldo, per il suo misticismo di cui loro avevano individuato solo una componente evangelico-comunista. No, questa tensione religiosa è molto più totale ed assoluta, investe ogni aspetto del vivere. È presente fin dall’inizio, è presente anche tra le opere come Strolegh che appaiono apparentemente dominate da una concezione tra socialista e anarchica, dalla denuncia del mondo capitalistico. Si potrebbe dire che per Loi il regno dell’utopia non è il regno di questo mondo, ma l’aspirazione ad una pace e armonia universale che ha una caratteristica assolutamente trascendente. Niente è più lontano da Loi non dico dal rigore di un’analisi marxista, ma semplicemente da un’analisi razionale del sociale. Loi crede che la poesia viene dettata al poeta stesso da una qualche entità misteriosa e trascendente: quante volte gli ho sentito dire che il poeta è un semplice tramite di una forza che lo trascende. Una volta abbiamo avuto una discussione sulla sconfitta di Hitler nella seconda guerra mondiale: per me Hitler era stato sconfitto dai carri armati sovietici e dagli aeroplani alleati, per Loi carri armati e aeroplani contavano poco davanti a una qualche forza superiore che aveva deciso e sempre decide il corso della storia. Continua a leggere

Giovanna Sicari, eternamente nel cerchio

Giovanna Sicari, Credits ph. Dino Ignani

NOTA DI LETTURA DI MONICA ACITO

Non tutte le donne amate dai poeti si nascondono tra le righe.
Alcune di loro sono fatte solo di inchiostro, altre tremano insieme alla carta.
Altre ancora riposano, dolcemente, tra un verso e l’altro, in attesa che una mano le sfiori per richiamarle alla vita.

Giovanna Sicari non è stata semplicemente la donna di Milo De Angelis, uno dei poeti viventi più importanti della nostra tradizione letteraria: questa veste non le si addice e sta stretta al suo ricordo, che è vivo e selvaggio, come certi frutti di mare che si trovano solo nella sua Puglia.

Giovanna Sicari non è stata mai un attributo o un complemento d’arredo; non è mai stata solo una semplice musa, ma è stata Calliope in persona.

Nata a Taranto nel 1954, in un sud arcaico che profumava del sale dello Ionio, Giovanna Sicari si trasferisce a Roma da piccola, nel quartiere Monteverde.
Il fondale marino della Puglia, prematuramente abbandonato, scorrerà continuamente sotto la pelle della poetessa, pronto a sgorgare, rompere argini e creare crepe nella parola.

Il litorale ionico, salutato a otto anni, rimarrà rannicchiato per sempre in uno stadio prenatale della sua memoria, dove si annidano soltanto i ricordi rimossi e l’acqua del battesimo.

Il mare e l’abisso del sud ritornano nei versi di Sicari con una prepotenza quasi rabbiosa, che ricorda la fusione pànica di alcune liriche di “Alcyone” (1903) di D’Annunzio, in particolare “Meriggio”.

D’Annunzio compie una metamorfosi con il paesaggio marino, dissolvendosi nel suo “mare etrusco” e disperdendo nell’acqua, i suoi connotati

E sento che il mio vólto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;

(Gabriele D’Annunzio, Meriggio, Alcyone, 1903)

Allo stesso, modo, Sicari, lascia che il mare e il mito della sua infanzia le modellino i fianchi; compie un vero e proprio matrimonio con i luoghi che hanno segnato la sua storia.

Sicari è poetessa e sposa:

Non toccarmi con forza
nel lago del sogno della di lui promessa terra desolata
sono promessa sposa nel fondale marino di un bordello:
immancabile è la vertigine,
lo stile appreso è il giusto spavento.

(Giovanna Sicari, “Poesie 1984-2003”, a cura di R. Deidier, Roma, Empirìa, 2006)

Sicari, però, compie un passaggio in più: riesce a trasportare i luoghi marini della sua prima infanzia nel quartiere di Monteverde a Roma, che diventa l’altare ufficiale della sua storia personale, il cerchio da cui partire, per poi girare in tondo e morire.

Monteverde, Monteverde, Monteverde: Sicari ripeteva il nome del suo quartiere come se fosse stata una formula sciamanica o un rito apotropaico.
Mugolava, si passava Monteverde tra la lingua e il palato, nello stesso modo in cui Cesare Pavese sussurrava, tra i denti, le poesie dedicate alle sue campagne delle Langhe piemontesi.

Proprio così lei pronunciava il nome del suo quartiere, come un “talismano contro infelicità e timore”.

A Roma si iscrive a Lettere, vive l’epoca della contestazione giovanile militante e impara la natura “politica” della parola poetica. Continua a leggere

L’epoca nuova di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni, particolare di una foto di Dino Ignani

NOTA CRITICA DI GIUSEPPE MARTELLA

Come si è osservato da più parti, nella sua breve carriera, Gabriele Galloni ha ricevuto notevole attenzione critica, sia per quanto riguarda il valore dell’opera che la sovraesposizione della figura e l’ostentato narcisismo del suo autore. Ma le due cose stanno insieme, come due facce dello stesso foglio di carta ormai consunto, che è diventato da tempo file di testo, sovrascrivibile in un elusivo sottotraccia: ed è questo il primo punto che caratterizza la poetica di Galloni. Il suo essere nativo digitale.

Erede della tradizione lirica come qualcosa di defunto e trapassato, di cui egli raccoglie le spoglie e i profili sparsi, gli echi, le schegge dell’aura, come un testamento o un legato con cui fare i conti. Perché ogni eredità la si conquista, la si abbraccia o stritola, a seconda dei casi, la si irride nel mentre la si onora, la si volge in parodia, meglio ancora se nessuno se ne accorge. E’ questa la posta in gioco specie a un passaggio epocale, dove il rapporto fra tradizione e talento individuale si fa più problematico, come già T.S. Eliot, in un saggio ben noto, aveva perspicuamente e definitivamente sancito. Tutto ciò che è venuto dopo da parte della critica, l’ “angoscia dell’influenza” e tante altre cose amene è solo una glossa a margine di quel breve saggio di neanche dieci pagine, in cui il giovane poeta che ha inaugurato il modernismo europeo, mettendo in scena in una ridda di profili La terra desolata, il disincanto del mondo, dopo la ferita del primo dopoguerra, la cui cicatrice avrebbe segnato a vita il secolo breve, il maledetto mitico Novecento.

Anche Galloni è un giovane poeta, venuto un secolo dopo, in una situazione completamente rovesciata, di stasi e di narcosi, dove ogni tragedia è preclusa allo spirito del tempo, inflazionata dai media al punto da diventare farsa nel migliore dei casi, o peggio di creare assuefazione in un dormiveglia postprandiale davanti alla TV.

Immagini su immagini riviste, nelle nostre Notti di pace occidentale, naufragi con spettatori che moltiplicano l’archetipo discusso da Blumenberg in una foresta di specchi. Quando tutte le risorse del linguaggio sono state saggiate ed esaurite, bruciate dalla prepotenza delle immagini e dalla derisoria sfilata dei simulacri che confondono la parola e la cosa senza residui, e senza remissione.

E’ questa la condizione del poeta nei primi decenni del nuovo millennio: l’essere erede di una tradizione ormai passata in giudicato, come una sentenza illeggibile sul nostro destino. E la sua missione è quella di porsi su una traccia cancellata, come un segugio, fidando nei suoi spiriti animali, o se si vuole come un cyborg progettato a tempo breve, braccato da mille cacciatori di replicanti che ne reclamano le spoglie, fuggendo sempre sul filo della lama del rasoio, come un Blade Runner, che ha visto “cose che voi umani” neanche osate immaginare, per salvarvi, perché “il genere umano non può sopportare troppa realtà” (Quattro Quartetti).

In questo dialogo fra due poeti di statura incomparabile, in molti sensi, che brucia il tempo e lo trasforma in epoca, pura sospensione fra battute di una melodia arcana, dissoluzione auratica di ogni cronologia, di ogni cronaca e storia, indicibile diafano effetto di atmosfera, Stimmung (con tutta la polifonia e il carico semantico della parola tedesca) e stigma impalpabile sul corpo teatro di chi si fa testimone, magari suo malgrado, sacerdote e vittima, paria e capro espiatorio, di colpe che non solo lui ha commesso.

Parte maledetta di un insieme che su di lui si regge a malapena, nelle spirali del sacrificio, dove ciascuna volta, come ne La colonia penale di Kafka, bisogna reimparare la Legge, servi e signori, nella trasfigurazione del volto del prigioniero, alla dodicesima ora, quando l’erpice ha affondato abbastanza il suo uncino nel corpo vivo (punto di svolta, piega e chiasma della carne del mondo) e l’urlo attende la sillabazione. E’ così che il gioco della presenza e della traccia a più riprese si inscena, creando spazi vuoti di storie da riempire, gesticolazioni, graffi sulle pareti delle grotte, graffiti sui palazzi cittadini, tatuaggi sui corpi adolescenti, segni di un passaggio sempre soggetti alla cancellazione. Continua a leggere