Luna su Viale Misurata

Franco Loi

di Paolo Senna

 

Dal balcone vedo la casa di Franco Loi, il civico 60 di Viale Misurata, una strada a veloce percorrenza che sorge sopra la canalizzazione dell’Olona solcata senza sosta da lunghe file di automobili. Oltre al viale, tra casa sua e la mia, una piazza con la giostra dove spesso dall’alto potevo vedere Silvana, la moglie di Franco, passare per la spesa o per altre commissioni. Oggi vedo quella casa che per me come per molti altri resterà sempre “la casa di Franco Loi” così come una volta, accompagnandolo a casa in macchina dopo una serata di letture, passando da Viale Gorizia lui disse: “Questa è la casa di Vittorini”. Milano era la sua città, quella che lo aveva visto crescere e diventare uomo, quella che sarà sempre la città dell’Angel, con le partite interminabili a pallone, le rappresentazioni teatrali fatte da ragazzo un po’ per gioco e un po’ sul serio nella vecchia Via Teodosio, gli sguardi così densi di aspettativa e di vita dei primi amici e dei primi amori. Di Milano Franco conosceva i motti e le facezie, le pieghe cerebrali e intestinali, i personaggi che l’hanno popolata, che hanno riempito gli uffici delle case editrici e i locali delle osterie. Milano è stata anche il paradigma della città, del luogo dove si incrociano i destini degli uomini, dove iniziano e finiscono le dittature, dove la voce, e le voci, posso trasfigurarsi in vûs della poesia.

Molti hanno sentito il bisogno di scrivere di lui dopo il 4 gennaio, come a continuare un dialogo che per forza di cose si è interrotto e perciò scrivere di lui è diventato un modo per scrivere a lui, anche se nell’immediato non sarà semplice attendersi risposte. È comunque una cosa di cui non sono molto sicuro perché ci sono molte più cose tra cielo e terra (con quel che segue); e Franco lo sapeva benissimo.

La sua poesia è pervasa da un inevitabile trasporto metafisico; inevitabile non perché prestabilito a priori, come assunto di una fede o di un fideismo teorico o arbitrario; ma come semplice ed elementare dichiarazione della vita. In questo senso tale valore che chiamiamo a buon diritto spirituale è stato uno dei punti fermi della sua poetica (e si veda proprio in questo blog il ricordo di Umberto Piersanti). Basterà rileggersi quello Strolegh che nel dialetto milanese è “l’indovino”, ma è anche il folle, il personaggio bizzarro che vive fuori dalle righe e al limite fra due mondi, proprio come sarà per l’Angel ma anche per il puèta: che è sì l’“òm inamurâ” ma è anche quello stesso uomo che “la matina s’alsa desperâ”. Basterà rileggersi i moltissimi testi brevi da L’aria a Isman fino a Voci d’un vecchio cantare, dove ad ogni passo il poeta che attraversa il mondo osserva e al contempo si lascia osservare da quanto accade attorno a lui: una finestra che si apre, il colore cangiante di una nuvola, il volo degli uccelli, il canto di una voce, il passare di una figura femminile. E, su tutto, l’esclamazione di sorpresa che trafigge come quell’acerba puntura interiore che proviene dalla bellezza più tesa (“quèl mal che vègn de la belessa”) e che nasce quando si ha davvero esperienza di una compiuta, e inspiegabile, contemplazione:

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Una poesia per Franco Loi

Franco Loi, Milano,  Spazio Oberdan (viale Vittorio Veneto 2 –  in occasione della proiezione del film documentario a lui dedicato: ‘Il viaggo del poeta‘ (durata: 71’).

di Davide Rondoni

 Franco, poeta de l'Angel e dell'aria,
 era acuto di vita il tuo sentire
 veniva da un rimuginare senza
 quiete e senza amarezza
                        era una bellezza
 dei colletti aperti,
 della carezza che va via dove va, degli occhi
 che mai incerti
 cercavano umani gli occhi -
 un diapason preciso che veniva da chissà
 risuonava in te
 mentre compilavamo la nostra
 democratica antologia, poeti
 semisconosciuti, voci di malinconia -
 e di gratitudine,
                       profezia dei semplici.
 Caro Franco,
 di libertà noi complici...

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Gli ultimi giorni di Franco Loi

Franco Loi

di Vivian Lamarque

Qualche parola solo per ricordare alcune cose dei suoi ultimi giorni. E la sua grande moglie Silvana Corti, cui lui chiuse gli occhi tre mesi fa, il 26 settembre. Pur seriamente malata da anni, fu dedita al marito, con grande discrezione, fino all’ultimo.

Gli ultimi giorni di Franco me li ha raccontati la figlia Francesca che era andata a vivere con lui dopo la morte della madre.

Anche i figli Stefano e Maddalena e i nipotini gli sono stati vicino, giocavano con lui a scopa d’assi, con carte per ipovedenti, “qualche volta baravamo al contrario per farlo vincere”. Per una crisi cardiaca, in ottobre era stato ricoverato una decina di giorni all’ospedale San Paolo. Gli avevano raccomandato di camminare molto, seppure in casa, e lui ubbidiva, contava i passi con le dita, “arrivo fino a cento con il pollice, poi ricomincio con l’indice e con il medio…”. Non vi pare di vederlo?

Al mattino riposava fino a tardi, nel pomeriggio si alzava, qualche volta chiedeva che gli si leggesse qualcosa, le telefonate gli facevano piacere, vecchi amici e anche giovani e giovanissimi poeti che prima della pandemia andavano spesso a trovarlo. Anche il Natale era stato sereno.

L’anno scorso avevamo festeggiato i suoi 90 anni alla Braidense, Sala Lalla Romano, con Erminia Dell’Oro e Gabriella D’Ina, dal pubblico tanto affetto, tanti applausi. Ultimissimi giorni di manifestazioni pubbliche, il Covid stava avanzando a grandi passi. Continua a leggere

Franco Loi, un maestro senza volerlo

di Alessandro Moscè

Franco Loi è stato un poeta sacerdotale che nella delicata meraviglia della poesia ha cercato solo lo specchio della verità, propagandone i suoi riflessi. La sua parola è esplorativa nella terrigena virtù, nell’aggettivazione scarna, in un qualcosa che taglia in due la realtà e il carattere umano, profondo. In fondo come la sua Milano dialettale, di strada, illuminata in un taglio descrittivo, che placò in parte, nel molle andamento, la coscienza dell’uomo che guardava spesso gli altri per capire meglio sé stesso.

Loi era nato a Genova nel 1931 e si era trasferito a Milano giovanissimo, dove aveva iniziato a produrre le prime poesie sotto la spinta di un’epica popolare lirico-narrativa (pubblicò, per la prima volta, a 35 anni, dunque tardivamente).

E’ considerato all’unanimità uno dei maggiori poeti della nostra contemporaneità a partire dagli anni Settanta. Attraverso i decenni, dimostrò una propensione all’analisi civile, alle trasformazioni della società, compresa la contradditoria fase della contestazione e del terrorismo (aveva militato nel Pci, nella sinistra extraparlamentare e parlava di Dio come di un mistero vibrante dell’essere al mondo).

Franco Loi sentiva i versi nascere da un impulso che si svegliava improvvisamente. Me lo disse una volta, a Fabriano, quando mi regalò un suo libro appena dato alle stampe e mi abbracciò fraternamente, con la consueta disponibilità e affabilità.
Il poeta sapeva andare oltre. Di quanti dolori e misteri, di quante scoperte e gioie si compone la nostra esistenza? Come si esce da un malessere che lacera la mente e spesso il corpo? Sono queste le domande che ossessionano, in un vortice che sembra, inizialmente, girare solo su noi stessi. Ci vuole del tempo per far sì che l’incubo prenda una direzione, che accolga la speranza di un nuovo corso, quello che Loi trovò perfettamente aderente alla poesia.

Ad un certo punto la svolta apparve tipica di chi assorbe e restituisce l’amore come il viatico per sollecitare lo stupore e l’incanto infantile, pertanto qualcosa di salvifico. Da Isman (Einaudi 2002): “Cume me pias el mund! L’aria, el so fiâ! / j àrbur, l’èrba, el sû, quj câ, i bèj strâd / la lüna che se sfalsa, l’èrga tra i câ, /me pias el sals del mar, i matt cinâd, / i càlis tra i amís, i abièss nel vent, / e tücc i ròbb de Diu, anca i munâd, / i spall che van de / pressia cuj öcc bass, / la dònna che te svisa i sentiment: / l’è lí el mund, e par squasi spettàss / che tí te ‘l vàrdet, te ghe dét atrâ, / che lü ‘l gh’è sempre, ma facil smemuriàss. / tràss föra ind i pernser, vèss durmentâ… (Come mi piace il mondo! / L’aria, il suo fiato! / gli alberi, l’erba, il sole, quelle case, le belle strade, / la luna che muta sempre, l’edera tra le case / mi piacciono il sale del mare, le matte stupidate, / i calici tra gli amici, gli alberi nel vento, / e tutte le cose di Dio, anche le piccolezze, / e i tram che passano, i vetri che risplendono, / le spalle che vanno di fretta a occhi bassi, / la donna che ti turba i sentimenti: / è lì il mondo, che sembra aspettarsi / che tu lo guardi, che gli dai retta, / poiché lui c’è sempre, ma è facile dimenticarlo, / distrarsi nei pensieri, essere addormentati…”). Continua a leggere

Il volto di Franco Loi

Franco Loi

di Monica Acito

 

L’annus horribilis, terminato da pochi giorni, sembra aver alitato un po’ del suo soffio mortifero anche sul 2021.
Franco Loi ci ha lasciati il 4 gennaio: un colpo di coda che non lascia presagire nulla di buono.
Quando un gigante della nostra letteratura va via, anche chi rimane sperimenta un po’ di quella morte.
Ma è una morte diversa, una morte che non va vissuta in solitudine: chi rimane in vita, deve stringersi ancor di più, un po’ come in quella “social catena” decantata da Leopardi.
Stringersi per non sopportare da soli quel retrogusto amaro che hanno le morti dei poeti, che sembrano portare via con sé qualcosa di sacro.
Ci si unisce e ci si immerge nel ricordo per tornare, tutti insieme, a una preistoria che solo la voce del poeta sa e può evocare.
Franco Loi, in questi giorni, è diventato imago traslucida, in cui ognuno ha saputo riflettersi: come un coro di aedi e rapsodi, la comunità dei sopravvissuti si è stretta attorno alle spoglie letterarie del poeta.
E quelle, non muoiono mai, perché l’inchiostro non si corrode, non degrada e non marcisce.
Ho provato a spostare i fili di quell’inchiostro, a sentire l’odore pungente di tante epoche fa, e ho avvertito subito il bisogno di visualizzare il volto di Franco, di guardarlo negli occhi, anche se attraverso un groviglio di pixel, per annullare la distanza temporale e antropologica tra questo strano tempo e quello che è rimasto imbalsamato nei suoi versi.
Un tempo che ci fissa, come uno splendido animale impagliato in un museo: magari, di notte, quel tempo potrebbe rianimarsi a nostra insaputa e rivivere ancora, perché il tempo è un continuum, e nell’istante esatto in cui sembra svanito, è pronto a ritornare.
Ho pensato tanto, in questi giorni, al volto di Franco Loi: ho osservato molte sue foto, e tutte mi hanno trasmesso la stessa sensazione domestica, di familiarità.
Ma del resto, cosa sono i tratti somatici di un poeta? Le sue vene, il suo fiato, il modo in cui inarca le sopracciglia e in cui schiocca la lingua, a un certo punto smettono di avere importanza: i suoi lineamenti smettono di essere fatti di carne e diventano linee scritte, sbuffi sulla carta e ghirigori d’inchiostro.
A chi interessa il modo in cui Virgilio, Orazio o Properzio sfregavano le mani? O il colore degli occhi di Ovidio, quando guardava le rive del Mar Nero?
In ogni caso, ho ceduto alla mia debolezza: ho voluto ripercorrere i lineamenti di Franco, come se la sua pelle potesse trasformarsi in una bussola di legno, pronta a guidarmi nel viaggio della sua vita e del suo ricordo, per disseppellire il giacimento di vita contenuto nei suoi versi.
Un po’ come scriveva Ungaretti.

IL PORTO SEPOLTO
Mariano il 29 giugno 1916.

Vi arriva il poeta
E poi torna alla luce con i suoi canti
E li disperde

Di questa poesia
Mi resta
Quel nulla
Di inesauribile segreto
.

(Giuseppe Ungaretti, in “L’Allegria”; “Vita di un uomo. Tutte le poesie”, Mondadori, I Meridiani Collezione, 2005)

Mi ha colpito tantissimo la foto che ha pubblicato Luigia Sorrentino domenica 10 gennaio, proprio qui sul suo blog “Poesia, di Luigia Sorrentino”, nel pezzo in cui ci offre, come un dono preziosissimo, il suo ricordo di Franco Loi e riporta la sua intervista esclusiva al grande poeta per RaiNews24, realizzata nel 2005.

Mentre leggevo il pezzo di Luigia, mi sono sentita a Milano con lei, ho avvertito la sua emozione e l’importanza di ciò che stava per fare: entrare nelle stanze di Franco Loi, respirare l’odore della sua casa e dialogare con lui.

D’un tratto, ho sentito il freddo sferzante della città sulle guance rosse e poi, dopo tanto gelo poi, ho sperimentato un calore strano e familiare salirmi dalla punta delle dita fino alle labbra: il calore di una casa, pronto a sbriciolare ogni cristallo di brina.
Il sorriso di Franco è sghembo, quasi da fanciullo che ride, spudorato, in faccia ai secoli.
Franco Loi mostra i denti al tempo, perché può permettersi di farlo: il suo volto mi ha ricordato una piccola carta geografica, fatta di rughe, nervi e sorrisi.
Una carta geografica che ha sicuramente ospitato tutti i sentimenti umani, come un piccolo breviario che ripercorre, dalla alla A alla Z, tutti i trasalimenti che un essere umano può provare nel corso della sua vita.

Ho sentito la stoffa della sua giacca da camera, il calore luminoso della sua casa, e mi sono persa nel gioco di domande e risposte che lui e Luigia hanno costruito insieme in modo sapiente, come una partita a scacchi ben orchestrata, o un contrappunto in cui risuonano melodie di vita, insegnamenti e sprazzi di poesia, che pulsano come lampi in un cielo d’estate. Continua a leggere