Agnoloni, “Internet. Cronache della fine”

Giovanni Agnoloni

NOTA DI LETTURA DI GIORGIO GALLI

Rileggere le cronache della fine di internet di Giovanni Agnoloni, oggi che la vita virtuale è diventata tutta la vita, può essere un’esperienza istruttiva e perturbante. Agnoloni si interroga su ciò che accadrebbe se la Rete crollasse, ed esplora tutte le possibilità pratiche, ma anche etiche, politiche e metafisiche, di un simile evento. Quanto potere avrebbe colui che riuscisse a controllare la Rete? E che tipo di potere sarebbe quello di colui che, padrone della Rete, decidesse a un dato momento di spegnerla? Sarebbe l’umanità capace di tornare a vivere come prima? E l’orologio della Storia tornerebbe semplicemente indietro, o scopriremmo che lo spazio virtuale ha modificato in maniera sorda ma irreversibile non solo il nostro modo di percepire la realtà, ma financo la realtà stessa? È da queste domande che prende inizio il percorso di Internet. Cronache dalla fine, composto di tre romanzi – Sentieri di notte, La casa degli anonimi e L’ultimo angolo di mondo finito – e dei due racconti riuniti nel dittico Partita di anime. Un’opera ponderosa, che tocca temi cari anche all’ultimo DeLillo, ma in anticipo su di lui di qualche anno, dato che l’indagine di Agnoloni è cominciata nel 2012.

Tutti i protagonisti di questi romanzi hanno perso qualcosa: chi la memoria, chi la famiglia, chi un amore sparito nel nulla… Ne La Casa degli anonimi sono spariti nel nulla, e il protagonista li cerca inutilmente, perfino i tre personaggi principali di Sentieri di notte, che esistono soltanto come nomi e ossessioni. Non è venuta a mancare solo la comunicazione fra diverse aree del globo. Anche passato e presente non dialogano più. Alcuni personaggi raccontano in prima persona la loro esistenza atemporale in una Casa – o in più Case? – simile a un limbo, a un intermundus fra la vita e la morte, desiderosi di tornare a vivere ma inconsapevoli di ciò che sono stati. La loro presenza si manifesta solo nei sogni di altri personaggi. Tutti, dunque, hanno perso il contatto con se stessi: con una parte, o con la totalità, di sé. Cosa li salva? L’incontrarsi, il ritrovarsi. Ma è difficile ritrovare se stessi in un mondo di identità incerte, ingannevoli, talvolta perfino fungibili – e qui Agnoloni sembra richiamarsi a tutta la letteratura sulla massificazione, sull’individuo come monade mondiale, alienata e scissa.

Anche la razionalità non è più sufficiente. I personaggi si muovono spinti da intuizioni irresistibili, da pure sincronicità junghiane (vale a dire da coincidenze significative solo per chi le esperisce). Il protagonista della Casa, Kasper, compie le sue azioni “ben sapendo, per motivi a me ignoti”, qual è il suo compito in questo gioco dove nulla è ciò che appare ma nulla è per caso. Le coscienze possono essere persino eterodirette, infiltrate da qualcun altro che vi prende stanza. Il socratico Gnothi seautòn, “Conosci te stesso”, diventa allora il comandamento più importante. Perché è solo ritrovando se stessi, ridiventando completi, che si può svolgere la propria funzione nel mondo. Accanto al motto socratico, c’è – con pari forza – l’esempio di Gesù, che, nel tempio, pur inveendo contro i Farisei, non si lascia distrarre da loro e continua a tracciare dei segni per terra. Cosa scrive? I Testi non lo dicono, ma ai nostri personaggi quel passo del Vangelo invia un messaggio: rintracciare i segni, decifrarli, interpretarli è il loro compito più sacro, perché i segni sono tutto, in un mondo che si è ridotto al suo proprio fossile. I segni sono ciò che sopravvive. Accogliere i segni, “abbandonarsi ai significanti” avrebbe detto Carmelo Bene, è l’unica via per ritrovare quell’unità a cui tutti aspirano, e che è sempre più lontana.

Ne L’ultimo angolo di mondo finito il cosiddetto mondo reale ha perso consistenza: vi si aggirano droni che controllano l’umanità dall’alto, ologrammi in forma umana che rimandano a ciascuno i propri pensieri e a cui ciascuno si rapporta come se fossero reali, senza accorgersi di starsi avviluppando in una spaventosa solitudine. Il paesaggio de La casa degli anonimi era popolato di esseri esausti e arrabbiati, che avevano ceduto agli avatar parte della loro umanità e col crollo di Internet erano rimasti privi di se stessi, privi di una ragione di sé. L’ultimo angolo di mondo finito  fa emergere un panorama in cui il reale e l’irreale convivono al punto tale che i vivi hanno l’aspetto di fantasmi e i morti, col loro essere pure anime, hanno su di loro un vantaggio esistenziale e ontologico. Tutto ciò che appare può capovolgersi nel suo rovescio: gli eroi possono essere falsi, i benefici venir percepiti come minacce e gli eroi veri apparire come traditori e venduti. Continua a leggere

Giovanni Agnoloni, “Berretti Erasmus”

Giovanni Agnoloni

NOTA DI LETTURA DI GIORGIO GALLI 

 

Una delle cose più difficili al mondo è arrivare a coincidere con la propria vocazione. Berretti Erasmus. Peregrinazioni di un ex studente nel Nord Europa (Fusta Editore, 2020) è il racconto di come Giovanni Agnoloni ci sia riuscito.

Bisogna per prima cosa chiarire che il titolo è fuorviante: il libro non ha a che fare – se non in parte – con il noto programma di scambio tra le università europee: è piuttosto il racconto di come si forma la mentalità del viaggiatore e di come questa venga a fondersi con la vocazione di scrittore. Un racconto che non esclude – anzi, include a piene mani – momenti di leggerezza in spirito studentesco, ma che guarda a qualcosa di più. Lo percepiamo fin dalle prime pagine, con l’attenzione che lo scrittore rivolge alle periferie delle città che visita. Quest’attenzione però non ha nulla di sociologico: sembra piuttosto un dato esistenziale, e mano a mano che si procede nel libro – che lo scrittore diventa sempre più centrato in sé – la distinzione fra centro e periferia viene a sparire. D’altra parte, il soggiorno in Polonia non ispira ad Agnoloni riflessioni sul sovranismo nascente, né l’Irlanda appare ai suoi occhi quella delle case Magdalene. E non è cecità da parte di Agnoloni, ma il volersi concentrare sulla dimensione esistenziale del viaggio, sull’essere europeo e cittadino del mondo nell’esperienza specifica di un individuo.

È il primo libro in cui Agnoloni si presenta col suo nome. Un memoir, se proprio dobbiamo classificarlo in un genere. Scritto con una prosa da commedia diversissima rispetto alla precedente produzione dell’autore, e che tuttavia incrocia la tragedia: quella di un incidente stradale che si porta via la donna destinata a diventare sua moglie. Un fatto che contribuisce a rafforzare in lui la vocazione solitaria del viaggiatore e dello scrittore. Un fatto raccontato quasi di sfuggita, con discrezione. Sembra che egli abbia voluto usare toni leggeri per girare attorno a questa grande e determinante tragedia, per esorcizzarla aggirandone l’orrore. Il lettore non può che provare gratitudine per tanta discrezione, per la scelta di un simile pudore. Ci si sente grati ad Agnoloni anche per la franchezza con cui si mette in gioco, con le sue debolezze umane, la sua quotidianità eccezionale ma anche molto normale, la sua empatia con lo spirito dei luoghi che visita.

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Giorgio Galli, “Le voci sopravvissute”

Foto. tratta da “Le voci sopravvissute” libro di prose di Giorgio Galli pubblicato nel 2020 con le Edizioni Gatto Merlino e le foto di Chiara Romanini

“Le voci sopravvissute” è una raccolta di racconti e prose poetiche in cui risuonano le voci degli esclusi: voci che il fiume umano stava per travolgere e che hanno preso la parola un’ultima volta in queste pagine. Figure sbozzate, in bilico fra il divenire umano e l’eterno presente di animali rocce e piante. Storie inascoltate di artisti disoccupati e matti, o di coloro che la nostra indifferenza lascia affogare in mare.

Le foto in copertina e all’interno del volume sono di Chiara Romanini.

(ESTRATTO)

I CHIUSI DENTRO

(A chi soffre di non comunicare,
in particolare agli affetti
da Sindrome di Asperger)

Avere una vita grandiosa e non saperla dire. Sentire tutto fino a farsi male e sembrare che non si senta nulla. Vivere nel fuoco e condursi nel gelo. Sentire che il nostro sangue è diverso e doversi nascondere, evitare di ferirsi per non mostrare che il nostro sangue è diverso. Crolla il mondo e non riusciamo che a stare al nostro posto. Una sola domanda ci assilla: “Che cosa ci si aspetta da noi?” Ogni stanza ha dei mobili, quadri lampade e sedie, e noi non li vediamo; osserviamo il muoversi degli altri per capire dove sono i mobili e non inciampare. Anziché vivere ci guardiamo vivere. Siamo un palazzo di cristallo costruito per i vostri occhi. Attenti a non fare una mossa sbagliata, segreti come le perle custodite dalle ostriche dei mari. Le mani che ci stringono non stringono noi; il calore che emanano non riscalda noi. Se ci toccate, toccate il palazzo di cristallo. E dentro quel palazzo noi siamo prigionieri. Noi come i gatti desideriamo essere toccati, ma non lo sopportiamo. Noi come i gatti vogliamo guardare, ma non sopportiamo di essere guardati. I vostri volti per noi sono di pietra: se chiedono di noi, non rispondiamo; se cercano aiuto, noi non ve lo offriamo. I vostri volti sono scritti in alfabeto straniero. Ma domandate di noi a parole, e vi risponderemo; chiedeteci francamente aiuto, e noi ve lo daremo. Non parlate con gli occhi, perché non li vediamo. Non guardateci negli occhi, perché non ve li mostriamo. Noi come i gatti ci feriamo all’incrocio degli occhi come a un incrocio di spade. Noi come i gatti giriamo nascosti dietro ai nostri volti. Muore la nostra migliore amica e voi ci dite: che faccia sorridente che hai! Non cercate di leggerci in volto, perché i nostri volti non si leggono. Parlate! Se ci amate diteci di amare, perché giocare col nostro amore è troppo crudele. Non giocate col nostro amore, perché noi non sappiamo giocare! Parlateci! E una notte, nella stanza delle confidenze, noi vi racconteremo un’altra volta di come Lawrence ha conquistato Aqaba.

 

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Giovanni Agnoloni, “Viale dei silenzi”

Giovanni Agnoloni


Nota di lettura di Giorgio Galli

Recentissima uscita della collana “Senza rotta” di Arkadia, Viale dei silenzi è il primo romanzo non fantastico di Giovanni Agnoloni. Un romanzo breve, di 131 pagine, ma denso. Nella prima parte sembra senza direzione, ancorato al monologo interiore di un protagonista bloccato in se stesso. Il protagonista è uno scrittore, è di Firenze e gira per le residenze letterarie di mezzo mondo proprio come Agnoloni. Ma non è Agnoloni. E’, invece, un personaggio ricorrente della sua narrativa: il giovane segnato dalla scomparsa di una persona importante e che per tutta risposta si è chiuso in se stesso. E’ sprofondato nel proprio mondo interiore come in un luogo sicuro rispetto a un mondo che fa apparire e scomparire suo padre in modo misterioso. Ma, dopo quattro anni da quel trauma, anche il mondo interiore si è fatto scivoloso, infido, per nulla rassicurante. Egli avverte la necessità di indagare in modo attivo quella scomparsa. Non gli basta più parlare col padre nel proprio monologo interiore. E la prima identità altra con cui si incontra è quella di una persona che cerca, proprio come lui. Da quell’incontro prende le mosse un romanzo che da un Io egotistico muove verso il Noi, dalla dimensione individuale verso una desiderata coralità.
Agnoloni si conferma scrittore capace di costruire trame avvincenti con pochi elementi basilari. Elementi che ricorrono in tutta la sua narrativa come vere e proprie ossessioni: il viaggio, l’incontro fra un uomo e una donna che cercano, la casa “alla fine del mondo” in cui i protagonisti si ritrovano. Questi topoi narrativi che avevamo già conosciuto nella tetralogia “della fine di Internet”, tornano qui in un universo apparentemente privo di contatto col precedente. Dico apparentemente perché l’indagine dello scrittore insiste, in entrambi i casi, sullo stesso tema di fondo: le trasformazioni antropologiche che hanno accompagnato il passaggio dal mondo dell’analogico al mondo del digitale, dal Secolo breve a questo torbido Duemila. Le vite dei protagonisti si intrecciano a quest’epoca di passaggio quasi controvoglia. Sembra che a nessuno di loro piaccia il periodo storico in cui sono stati gettati, ma non si decide di venire al mondo in un dato momento: essere contemporanei non è una scelta, è un obbligo che per qualcuno si trasforma addirittura in un dramma. Così, dalla scomparsa di un individuo-padre lo sguardo si allarga alla scomparsa di tutta una serie di mondi, da quello della Firenze bottegaia alle sottoculture dei primi anni ottanta, dalla Polonia comunista all’Inghilterra del periodo pre-Brexit. Sembra che nessuna conciliazione sia possibile con se stessi e con gli altri se non prendendo le distanze da questa modernità e dai suoi simboli. La pacificazione può avvenire solo ricongiungendosi alle origini, a una natura selvaggia e perfino riottosa. Continua a leggere