Giancarlo Pontiggia è il vincitore del Premio Poesia Città di Fiumicino 2018

Giancarlo Pontiggia, vincitore del Premio Poesia Città di Fiumicino – foto della premiazione, Fiumicino 27 ottobre 2018 –

Con “Il moto delle cose”, (Mondadori, 2017)  Giancarlo Pontiggia vince la quarta edizione del Premio Poesia Città di Fiumicino per l’opera di poesia.

Lo ha deciso la Giuria Tecnica composta da Milo De Angelis, Fabrizio Fantoni, Luigia Sorrentino e Emanuele Trevi nel corso della serata di premiazione sabato 27 ottobre all’hotel Best Western di Fiumicino nel  corso della quale sono stati premiati tutti gli altri poeti arrivati in finale. Al secondo posto ex equo per l’opera di poesia, Corrado Benigni con “Tempo riflesso”, (Interlinea, 2018) e Lorenzo Chiuchiù con “Le parti del grido”, (Effigie, 2018).

Continua a leggere

Premio Poesia Città di Fiumicino 2018

A Fiumicino, sabato 27 ottobre, nella sala convegni dell’Hotel Best Western Rome Airport, (via Portuense, 2465) si svolgerà la serata finale del “Premio Poesia Città di Fiumicino” con le letture dei poeti, la proclamazione del vincitore per l’Opera di Poesia e le consegne dei premi. L’appuntamento è alle 18.30. Ingresso libero.

La Giuria Tecnica, composta da Milo De Angelis, Fabrizio Fantoni, Luigia Sorrentino e Emanuele Trevi, nel corso della serata,  designerà il vincitore della quarta edizione del Premio Poesia Città di Fiumicino per l’ “OPERA DI POESIA”.

I finalisti sono:

Corrado Benigni, “Tempo riflesso”, Interlinea 2018;
Lorenzo Chiuchiù “Le parti del grido”, Effigie 2018;
Giancarlo Pontiggia, “Il moto delle cose”, Mondadori 2017.

Per la sezione “PREMIO ALLA CARRIERA”, vincitore Giuseppe Conte.

Per la sezione “PREMIO OPERA PRIMA”, vincitrice Maria Borio con “L’altro limite”, Collana gialla LietoColle, 2017.

Per la sezione “PREMIO POESIE INEDITE”, vincitore Giovanni Ibello.

Per la sezione “PREMIO TRADUZIONE”, vincitore il libro “Poesie” di René Char, tradotto da Giorgio Caproni, a cura di Elisa Donzelli, Einaudi 2018. Continua a leggere

Joyce Mansour, “I nostri passi ci precedono ci seguono”

Joyce Mansour (Collezione privata)

di Giovanni Ibello

La poesia di Joyce Mansour giunge disarmata in tutta la sua irredenta potenza metafisica. Il dettato dell’autrice si articola in un groviglio di visioni surreali. In particolare, parliamo di un itinerario di lacerazioni erotiche, uno spietato luogo del grido (Casa vuota nera spettrale / I nostri passi ci precedono ci seguono). Non esistono messe di quiete. La leggo e mi sussurra qualcosa, come in una vecchia poesia di Charles Simic. Sembra dire: “Parlo d’amore, ma non so cosa amo. So cosa feconda il mio verso: fare del corpo la misura del tremendo“. Una morsa, quella di Eros e Thanatos, destinata a riverberarsi per tutta l’opera dell’autrice. Un trait d’union che non sarà mai abbandonato (il corpo perde le sue forze /desiderando di vedersi morto già muore). Il motivo è presto detto: in questo succedersi di immagini deliranti, si registra un percorso di sperimentazione corporea che non può essere taciuto, ma che anzi viene pericolosamente offerto al lettore. Riporta inevitabilmente alla “Scuola della carne” di Yukio Mishima e più in generale, a quell’idea che per scrivere davvero una poesia è necessario rischiare tutto, anche la vita se necessario. Bisogna dunque mettersi in gioco, ma farlo veramente, fare “all in” col proprio corpo: offrirlo sull’altare della parola (mescolo il fiato al sangue del gufo / il mio cuore corre crescendo / con i folli), non recedere di fronte all’azzardo, a quella sottile demarcazione tra una buona scrittura e un verso “irripetibile”. La poesia appartiene a chi non conosce viltà (Ho aperto la sua bocca senza labbra/ Per muovere una lingua atrofizzata / Ha nascosto il suo sesso profumato / Con una mano blu di morte e vergogna). Continua a leggere

Paul Muldoon, “Dai sogni hanno origine le responsabilità”

Paul Muldoon, ph. by Beowulf  Sheehan

Da “7, Middagh Street

Dai sogni hanno origine le responsabilità;
fu a causa di una simile allegoria
che Lorca
venne crivellato di colpi

fino a giacere faccia a terra
nell’ombra cangiante del suo stesso sangue.
Quando i soldati ubriachi del Romancero
fecero per tornare in città

lo sentirono mormorare nella nebbia,
“Quando muoio lasciate aperte le finestre”
perché la poesia può rendere possibili le cose –
non solo può ma deve –

e questa stessa finzione
è in sé un gesto politico. Continua a leggere

Giovanni Ibello, (senza titolo)

Giovanni Ibello /credits ph. Dino Ignani

Cercava la risacca nelle pinete
fiutava l’ombra di un ago sul fondale:
la terra rovesciata, il sudario fertile.
Conta fino a zero, le dissi
salta nell’arco cinerino.
È tutto calmo
qui è davvero tutto calmo,
il sole è una biglia di benzodiazepina.
C’è ancora un intreccio di gelsomini carbonizzati sulla pietra.
L’estate
una valanga d’aceto sopra i fiori.
Ma in questo valzer di occhi crociati
non dire una parola, non parlare.
Troveremo un altro modo per fare alta la vita.
La mia estasi rimane
lettera morta sul greto.
Brindo al disamore
al cuore profanato nell’acquaio
agli insetti fulminati nell’insegna.
Ci lega la parola feroce,
una giostra di penombre.
L’incanto di una teleferica,
l’esatto perimetro di un grido.
Tu che muori
in quell’assillo di aranceti
che ritorna.
Era l’affanno antico,
l’anemone del giorno
divelto sopra i silos.

 

Giovanni Ibello, (senza titolo)

Continua a leggere