Leopoldo María Panero (1948 – 2014)

Leopoldo María Panero

Oltre quel luogo dove
ancora si nasconde la vita, resta
un regno, resta da coltivare
come un re la sua agonia,
da far fiorire come un regno
il sudicio fiore dell’agonia:
io che tutto ho prostituito, posso ancora
prostituire la mia morte e fare
del mio cadavere l’ultima poesia.

Leopoldo María Panero nella traduzione di Alessandro De Francesco.
Dalla rivista Poesia, Crocetti Editore (anno 2012)

Más allá de donde
aún se esconde la vida, queda
un reino, queda cultivar
como un rey su agonía,
hacer florecer como un reino
la sucia flor de la agonía:
yo que todo lo prostituí, aún puedo
prostituir mi muerte y hacer
de mi cadáver el último poema.

Leopoldo María Panero
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Il poeta cileno Raúl Zurita

Raúl Zurita

Torturati

Niente non si sente niente se urlavano i torturati
dell’Unità 420 sotto il crepuscolo insanguinato nudi
tremando

Davanti ai moli che sembrano fluttuare nella sanguinante
aurora davanti alle stesse smantellate navi della baia
davanti allo stesso ferro di cavallo insanguinato
dell’oceano

Dove esistono solamente alcuni moli diroccati
e in fondo gli stessi detriti le stesse squadre
ammuffite gli stessi torturati nudi è che volevamo
sentirti dirigere le grandi mareggiate del Pacifico
dicevano quelli dell’Unità 420 a Ludwig Van Beethoven
che galleggiava allontanandosi immedesimato
estraneo verso la parte più inconfessabile del tramonto

(Traduzione di Alberto Marsala)

Torturados

Nada no se escucha nada se gritaban los torturados
de la Unidad 420 debajo del ensangrentado crepúsculo
desnudos temblando

Frente a los muelles que parecen flotar en la sangrante
aurora frente a los mismos desmantelados barcos de
la bahía frente a la misma herradura ensangrentada
del océano

Donde lo único que existe son unos derruidos molos y
al fondo los mismos escombros las mismas mohosas
escuadras los mismos torturados desnudos Es que
queríamos oírlo dirigir las grandes marejadas del
Pacífico le decían los de la Unidad 420 a Ludwig Van
Beethoven que flotaba alejándose ensimismado
extraño por la parte más inconfesable del atardecer

 

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Jorge Luis Borges (1889 – 1986)

Jorge Luis Borges

El desierto

Antes de entrar en el desierto
los soldados bebieron largamente el agua de la cisterna.
Hierocles derramó en la tierra
el agua de su cántaro y dijo:
Si hemos de entrar en el desierto,
ya estoy en el desierto.
Si la sed va a abrasarme,
que ya me abrase.
Ésta es una parábola.
Antes de hundirme en el infierno
los lictores del dios me permitieron que mirara una rosa.
Esa rosa es ahora mi tormento
en el oscuro reino.
A un hombre lo dejó una mujer.
Resolvieron mentir un último encuentro.
El hombre dijo:
Si debo entrar en la soledad
ya estoy solo.
Si la sed va a abrasarme,
que ya me abrase.
Ésta es otra parábola.
Nadie en la tierra
tiene el valor de ser aquel hombre. Continua a leggere

Dylan Thomas, “Do not go gentle into that good night”

Dylan Thomas

Non andartene remissivo in quella buona notte,
i vecchi dovrebbero bruciare e impazzire al sipario del giorno;
infuriati, infuriati contro la luce che muore.

Benché i saggi sappiano che alla fine anche la tenebra è giusta
poiché le parole non scatenarono temporali
non se ne vanno remissivi in quella buona notte.

I giusti, dall’ultimo segno, piangendo il miracolo
delle loro fragili membra che danzano in una verde baia
s’infuriano, s’infuriano contro la luce che muore.

I gretti che ghermirono il sole e nel volo cantarono il sole
e troppo tardi s’accorsero d’averlo piegato
non se ne vanno remissivi in quella buona notte.

Gli stremati e ormai prossimi alla morte che con cieca vista
intuirono che occhi spenti potevano splendere
come meteore e sostare nella gioia
s’infuriano, s’infuriano contro la luce che muore.

E tu, padre mio, che sei lì sull’altare triste, ti prego,
maledicimi, benedicimi con le tue lacrime di tempesta.
Non andartene remissivo in quella buona notte
Infuriati, infuriati, contro la luce che muore.

Traduzione di Giovanni Ibello Continua a leggere

“E stare soli è più grande”

di Giovanni Ibello

 

Si è scritto tanto in queste settimane su Mario Benedetti. Devo dire che ho molto apprezzato la eterogeneità degli interventi proposti su questo spazio ed è bello che il blog “Poesia, di Luigia Sorrentino” su Rai News abbia instaurato un dialogo così fecondo sulla parola di questo autore. Mario Benedetti sapeva individuare con esattezza il confine tra biografia e slancio universale della parola poetica. A mio avviso la sofferenza fu per il poeta non tanto una personalissima trincea esistenziale, come invece è stato scritto nei giorni passati, bensì un prezioso cifrario che gli ha consentito di sondare e decodificare l’umano, sia nelle sue espressioni più elevate che in quelle più misere: la commozione (“E piange la parola che riesce a dire”), il disarmo, la solitudine, lo smarrimento, la metastatica condizione dei fragili, il peso delle cose, “il peso degli oggetti… il loro significare peso e perdita” (come peraltro scriveva Amelia Rosselli in Documento, Garzanti, 1976).

Ha perfettamente ragione Antonio Riccardi quando scrive (in introduzione al volume Benedetti, Tutte le poesie, Garzanti, 2017)  di un poeta “fedele alle cose, soprattutto le più comuni e dimesse”. La poesia di Mario Benedetti, certamente umile e antiretorica, si pone dunque come un atto di conoscenza essenziale della vita, dello smarrimento (come archetipo dell’esistenza) e della morte. Non si può giammai parlare di mero diarismo (a tal proposito è magistrale l’emistìchio “Si diventa altri occhi per morire dovunque”, da Tersa Morte, Mondadori, 2013). Il poeta non fa mai esplicito riferimento alle sue vicende private, ma ci mostra un’umanità desolata (“adesso che piangere è pioggia, / e stare soli è più grande”) e lo fa adottando una sintassi franta e faticosa. Va da sé che in Benedetti la forma esprime anche una co-sostanza del pensiero poetico. Con la sua testimonianza in versi, Benedetti ci confessa che “il poeta da semplice creatura che vive nel mondo diventa colui che crea e rinnova perpetuamente il mondo stesso” (questo l’auspicio di Adonis in La musica della balena azzurra. La cultura araba, l’Islam, l’Occidente, Guanda, 2005). Benché si tratti di un modo di “stare nelle cose della vita” pienamente consapevoli della propria caducità, è curioso che la parola di Benedetti sembra quasi celebrare un’assenza, stringere intime alleanze con un vuoto di parole (che “non sono per chi non è più”) e di interlocutori. Continua a leggere