Ferruccio Benzoni (1949 – 1997)

Ferruccio Benzoni

ESTRATTI
da Con la mia sete intatta, Tutte le poesie di Ferruccio Benzoni (Marcos y Marcos, 2020)

La casa rossa

Non c’è più la casa rossa dov’era sfollato
mio padre e mia madre quasi in un presagio
spiava la morte. Pure quanta vita ancora
e voglia di crescere per gioco un bambino!
Dante Arfelli era un giovane e sapeva l’inglese:
vennero gli alleati e sorridendo accendeva le sue luckystrikes…

Quando vidi “Accattone” da una cabina di proiezione
– poca gente in sala e un’idea di benessere ai piedi
nelle scarpe all’inglese coi buchi – ero appena ragazzo,
piangevo. ‘ Gisto l’operatore, ma vieni domani – imprecava –
che danno i cowboys… Fu il mio modo
di sentirmi comunista, sentendomi controluce.

La prima ragazza che ebbi io non l’amavo.
Ma aveva i seni duri sotto il grembiule di scuola.
Fu un pomeriggio ai campi. Arrivammo nel sole
in bicicletta: ricordo un odore di lacca e di sete, d’ascelle.
Il batticuore mi seccava la gola. Sapevo di ridere male.
Lei era svelta e triste se diceva “mi ami?”

Non c’è più la casa rossa e vivere è ormai necessario.
Arfelli scrisse “I Superflui” che io ero dentro mia madre.
Adesso che ci parliamo e so quanto sia chiuso quel libro
e agro, cosa fu la vita – mi dico – quegli anni
di mia madre e di me, dentro di lei, un’estate
del quarantotto. Come un romanziere allora
vorrei fingerla morta…

da Fedi nuziali (1991)

I morti amici

Ben presto verranno a sapere
(tu forse dimenticando…)
la solitudine cos’è se disarma
in un sopore d’animule.
Ma saranno mai soli, sapranno
mai cos’è una passione?
Dondola a un vento il canale,
e tu che ringhi
andrò via, me ne andrò
– lo so: non ci credono.
Qui sepolto ti vedono, solo,
con l’arroganza d’averci creduto.

(1985) Continua a leggere

Vivian Lamarque, “Il signore d’oro”

Vivian Lamarque credits ph Dino Ignani

Torna in libreria dopo 34 anni “Il signore d’oro” di Vivian Lamarque, stampato per la prima volta da Nicola Crocetti nel 1986 e ristampato nell’ottobre del 2020 nelle nuove collezioni di poesia Feltrinelli/Crocetti.

In anteprima vi proponiamo il testo di Vivian Lamarque che apre la ristampa.

QUANTO HA DOVUTO LAVORARE IL MIO DOTTORE

DI VIVIAN LAMARQUE

Il signore di fronte

Era un signore seduto di fronte a una signora seduta di fronte a lui.
Alla loro destra sinistra c’era una finestra
alla loro sinistra destra c’era una porta.
Non c’erano specchi eppure in quella stanza
profondamente ci si specchiava”.

Sono passati quasi quattro decenni. Tutto era iniziato ( finito mai) il 14 febbraio del 1984, avevo 38 anni.
Da anni sentivo forte necessità di un soccorso, alcuni amici poeti mi consigliavano un’analisi lacaniana, altri una junghiana.
Nel dubbio le iniziai tutte due, antico vizio.
Il dottore lacaniano aveva studio nel centro di Milano, sotto prestigiosi portici. Strano, da quella lussuosa portineria usciva quel giorno il plebeo odore buono di certi minestroni che si mangiano da bambini, salii di corsa, emozionata, credo che la mia prima parola al celebre lacaniano sia stata minestrone.

Il dottore junghiano aveva studio quattro gradini sotto il livello stradale, in un bel palazzo vicino alla Rai di Corso Sempione, con tutte quelle antenne, quelle grandi orecchie. Nessuno stava cucinando niente, credo che le prime o seconde parole siano state se Lei muore da chi vado?

La prima seduta lacaniana era durata meno di 30 minuti, non avevo fatto in tempo neppure a nominarli tutti quei miei svariati genitori che lui aveva detto può bastare.
La prima seduta junghiana dal Dott. B.M. ne durò 90. Riuscii a elencargli non solo tutte quante le figure genitoriali comparse sulla scena, ci fu addirittura tempo anche per le loro scomparse (3 su 4 al compimento del mio quarto anno di vita ).
Da lui mi aveva indirizzata la sua collega del Cipa Dott. Faretra (“astuccio per conservare sul dorso le frecce”) e la freccia del transfert scoccò con una velocità inaudita. Non c’era dubbio che mi avrebbe sposata, anche se forse non subito.

Splendidissima era la vita accanto a lui sognata.
Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.
Enellarealtà?
La realtà non c’ era, era abdicata.
Splendidissima regnava la vita immaginata.

Abdicata da decenni: “con una bianca gomma / aveva cancellato l’inutile linea di confine”. A 10 anni giravo per cimiteri ebraici alla ricerca di nomi della mia famiglia d’origine, “ma errore, confondeva persecuzione e paese, i suoi avi giacevano dissanguati e quieti / in terra valdese”. A quindici credevo che una mia prof fosse mia consanguinea e scrivevo nel diario “oggi mi ha dato 4 (per non fare differenza con le altre)…. oggi mi ha dato 7 (la voce del sangue è stata più forte)”..

Quanto ha dovuto lavorare il mio Dottore! Non ve lo potete immaginare.
Anch’io però ce la mettevo tutta. Per meritare di essere sposata.
Manterrò in queste righe un tono lieve (“la mia superficie è felice /
ma venga venga a vedere / sotto la vernice”), ma è stata un’analisi drammatica e potente, ottovolante di sapienti accoglienze e rifiuti.

I mesi passavano, la mia mano non veniva richiesta. Per la mia testa abdicata, che il mio Dottore fosse già felicemente coniugato e con figlia contava zero di zero (io da mio marito Paolo Lamarque – che sempre mi incoraggiò a scrivere – ero separata, benché conservatrice abusiva del bel cognome, ). Infine capii: questione di deontologia, ero sua paziente, bastava non esserlo più, conclusi dall’oggi al domani l’analisi e iniziai un’euforica attesa. Continua a leggere

Jolanda Insana, “Frammenti di un oratorio”

Jolanda Insana, credits ph Dino Ignani

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accurrìti accurrìti gente
me figghia me figghia
portate una scala
me figghia
’na scala ’na scala
pigghiate me figghia
accurrìti accurrìti
u focu u focu
sa mancia
viva
a fini du munnu
a fini da so vita
viniti curriti
’na scala
tièniti tièniti
figlia

***

scanto
scanto grande
e mascelle serrate
narici aperte per assecondare il respiro
strette le chiappe per darsi un contegno
molli le gambe nel sobbollimento
di terra e mare
e gli occhi aggrottati
nel boato
finita
è finita la vita
ma riprende a fiatare
disserra la bocca
si tocca la testa
con due dita si carezza le guance e trema
non sa cosa c’è dietro la porta
di lì è passata la morte

***

impazzirono
e avevano sete
e non avevano acqua
e nudi correvano
alle finestre senza vetri
al balcone franato
con gli occhi insanguinati
in pianto Continua a leggere

Gli scritti militanti di Giovanni Raboni

Meglio star zitti? raccoglie centosettanta stroncature firmate da Giovanni Raboni in quarant’anni di attività critica: interventi talvolta garbati, più spesso sarcastici e addirittura spietati, tesi a mettere in discussione il valore e il significato di prodotti artistici (romanzi, poesie, film, spettacoli teatrali) e di fenomeni di costume. Ne fanno le spese nomi blasonati: Woody Allen, Italo Calvino, Umberto Eco, Federico Fellini, Dario Fo, Giorgio Gaber, Ernest Hemingway, Milan Kundera, Pier Paolo Pasolini e tanti altri.

Inflessibile nella difesa della qualità, Raboni condanna la deriva consumista della produzione culturale italiana del dopoguerra, rivendicando la responsabilità primaria del critico militante: essere per il pubblico una guida attendibile e onesta, chiamata a distinguere il “vero” dal “falso”. Compito che va sempre più assumendo i toni di una solitaria e disperata sfida etica.

UN ESTRATTO DAL LIBRO

Il poeta fa spettacolo ma non si fa leggere

Letture pubbliche di poesia, festival di poesia: e perché no? Anche se appaiono ormai lontanissimi i tempi, fra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, in cui ci siamo entusiasmati per questa nuova forma di comunicazione e, sembrava allora, addirittura di aggregazione, non per questo sembra il caso di metterne in dubbio la legittimità e il senso. Piuttosto, può valere la pena di chiedersi che cosa a suo tempo si prevedesse o sperasse e che cosa, poi, si è davvero verificato, anche per non cadere ulteriormente nelle stesse illusioni. Continua a leggere

Rime senza indugio

 FARSI VERSO

 

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

Dopo Il Libro delle laudi (Einaudi, 2012), Patrizia Valduga ci consegna una nuova opera, un poemetto intitolato Belluno (Einaudi, 2019) che poi è la città dove la poetessa trascorre le vacanze. Sottotitolo, Andantino e grande fuga.
Nel fluire delle quartine, composte in settenari e endecasillabi, si percepisce l’umorismo, il gioco sensuale, ma anche la fuga, lo strazio caleidoscopico, l’assedio di malinconia vissuto dalla coscienza. La lacerazione è consegnata a una  parlata che si fa filastrocca, lamento, litania. Una lingua che incanta il lettore. Una Valduga mai vista prima  rimarca l’assenza dalla scena letteraria di poeti quali Carlo Porta, ma soprattutto, chiamato in causa qui è, ancora una volta, il poeta Giovanni Raboni, l’amore della vita, a sugellare un sodalizio  artistico ancora vivo.

Da Belluno Andantino e grande fuga, (Einaudi, 2019)

 

Via del Mis, Val del Mas,
Val del Mus… Sass Sbregà,
Sass da Mur, Scalabrás…
Basta! Me só stufà.

**

Ci sono stati , sí dei fidanzati…
Con piccolo piacere e grande pena…
Quaranta giorni al più sono durati:
una quaresima, una quarantena:

un critico, un poeta, un giornalista,
un impiegato, un ex commercialista,
un medico, un commerciante fascista,
uno pseudo-architetto ex terrorista.
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