Giancarlo Pontiggia, “Voci, fiamme, salti nel buio”

Giancarlo Pontiggia, credits ph Dino Ignani

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

Dopo “Il moto delle cose” Giancarlo Pontiggia torna a sorprendere il lettore con un’opera di rara intensità emotiva: “ Voci, fiamme, salti nel buio”, (Stampa 2009).

L’opera, divisa in due poemetti, – “Il camion e la notte” ed “Animula”- evoca un viaggio onirico che prende le mosse “in un vecchio cortile lastricato di beole grigie”.

E’ in questo spazio di quotidiana semplicità che ha inizio lo scivolare lieve e dolce tra le cose del mondo, quel “ perdersi in quei meandri favolosi/ sogni slanci chimere / tutto ciò che affonda nella vita”, che ti trasmette la gioia voluttuosa di perdersi in un oceano, la vertigine suprema di non essere più nessuno. Ci si ritrova così a contatto con la dimensione più autentica e vera della vita, che si squaderna davanti al lettore in tutte le sue forme, nel suo continuo farsi e disfarsi, nei suoi cambiamenti e nelle sue persistenze, mostrando “quanta notte è ovunque, quanto nero / tra le cose del mondo”. Questa lenta discesa all’origine del tutto è sottolineata dall’andamento della lingua che, da una pacata narratività dei primi componimenti, diviene – in particolare nel secondo componimento intitolato ”Animula”- sempre più magmatica: una moltitudine di materiale linguistico che prende direzioni inaspettate, raggrumandosi in forme inattese che si sfaldano per assumere nuova consistenza.

Il lettore si sente coinvolto dal martellìo costante della lingua e si trova a vorticare tra le parti che compongono il mondo, partecipando “all’inerzia delle cose”.

Con questi componimenti Giancarlo Pontiggia ci porta nella “notte, improvvisa, / con il suo mantello di nuvole scure…” in cui ha sede la poesia o, meglio, la sua origine.

La notte di cui parla Pontiggia altro non è che una dimensione spirituale in cui si ritrova il poeta nella più completa solitudine, in attesa che la parola si depositi.

Scrive Cristina Campo: “ come la manna di Sant’Andrea nella cavità dell’ampolla, il destino si forma nel vuoto in virtù delle stesse leggi complementari che presiedono al nascere della poesia: l’astensione e l’accumulo. La parola che dovrà prendere corpo in quella cavità non è nostra. A noi non spetta che attendere nel paziente deserto, nutrendoci di miele e locuste, la lentissima e istantanea precipitazione. Che è breve e non ripetibile”.

L’esperienza del sorgere della poesia ha qualcosa di simile ad una tensione mistica. Continua a leggere

Æschylus, AGAMEMNON

A N T E P R I M A    E D I T O R I A L E

di Luigia Sorrentino

Nanni Cagnone, uno dei maggiori poeti contemporanei, propone nel 2020, la revisione della sua traduzione dell’Agamennone di Eschilo.  La raffinata edizione pubblicata nel 2010 da Emilio Mazzoli è infatti andata esaurita. La nuova pubblicazione è, come la prima, arricchita dal “racconto per figure” di Mimmo Paladino. I linguaggi di due grandi artisti si incontrano nella magnificenza espressiva del primo grande tragico greco: Eschilo, lirico altissimo e ardito.

 

Æschylus, AGAMEMNON
Traduzione e cura di Nanni Cagnone
Racconto per figure di Mimmo Paladino
Edizioni Galleria Mazzoli, Modena 2020

“La prima edizione dell’Agamemnon da me curato per le Edizioni Galleria Mazzoli risale al 2010. Il tempo tiene ad essere impietoso, e i dieci anni trascorsi m’hanno indotto a rivedere il saggio introduttivo, la traduzione e alcuni criteri testuali. Ad esempio: ho eliminato il blank che in ogni edizione dei testi greci segue l’apostrofo, il quale è evidentemente una legatura, perciò insensato separarlo dalla parola a cui con fonetico affetto si rivolge. Mi chiedo: possibile che non si dubiti mai d’u­na convenzione, neppure quando è debole o infondata? Perché tutti ossequenti?”

Nanni Cagnone

Mimmo Paladino, Tavola per l’Agamemnon di Eschilo (2010)

 

 

EXORDIUM
di Nanni Cagnone

Savona, terza liceo: Επτ π Θ ας. Fu cosí ch’Eschilo mi tenne suo debitore. E cosa eguale meritai da Gerard Manley Hopkins.Trent’anni dopo – con tardivo riguardo ai debiti – tradussi The Wreck of the Deutschland e presi a pensare distrattamente ad Agamemnon. Ma intravedevo fatiche, mi dicevo: chi vorrebbe biasimarmi per non aver ripagato un greco del v secolo?

Se una delle sue risapute versioni m’avesse contentato, oziosamente
avrei lasciato perdere. Costernazione, invece, di cui può farsi merito non chi tradusse per comprovare un commento (sia pure senz’approfittarne interamente, per inadeguatezza espressiva), ma chi – dando prova d’incuria filologica e candore ermeneutico – mi forzò a sperare almeno in qualche virtù formale.

No, nessuno stile—tutt’al più, buone maniere, senza ritmo, energia, adeguata dispositio. Nessuno che provi mai a sgranchire la lingua.

Di volta in volta: incondizionata obbedienza a un’edizione critica; ossequio per la normalità semantica e i costrutti ordinari; complementare diffidenza per l’hapax e profilattica simpatia per la lectio facilior; espunzione di quel che a noi moderni pare astruso; penosi sforzi per soddisfare con una metrica locale una lingua che aveva quantità sillabiche non paragonabili, e un accento melodico senz’accordo con l’ictus.

E, sopra ogni cosa, un assiduo parafrasare — la peggior ingiuria, secondo me, per un poeta, poiché del testo non si trattiene che il riferimento. Tropi ridotti alla ragione, addomesticati, e testo sottomesso a epesegesi: più che tradotto, divulgato.
Congratulazioni a chi rivestì d’attualità l’autore al fine di renderlo meno impresentabile, e lode al vecchio acume pedagogico che insegnò a volgere in prosa la poesia.

Storia della tradizione e critica testuale: un’assidua officina, un gran lavoro; ma quanti passi indecidibili, loci desperati che invitano a rassegnate congetture. E si dovrà ammettere che le iniziative di taluni traduttori fanno rimpiangere le interpolazioni dei «too thinking copyists».

Ripeto quel che scrissi a proposito di The Wreck of the Deutschland:
«[…] ‘Non t’avvedi di quanto manca alle immagini per essere come le cose di cui sono immagini?’ ( κ α σθ νει σ υ νδ υσιν α ε κνες τ α τ  ειν κε’ν ις (ν ε κνες ε σ’ν;).

La domanda di Socrate nel Cratylus dovrebbe colpire l’attività dispendiosa di chi si disponga a tradurre poesia, apparentemente tentando sinonimi italiani dei lemmi inglesi. Ogni traduzione sarà un corpo per sempre incoativo […] nella persuasione innocente che all’impossibilità – per il traduttore – di scomparire si aggiunga l’utilità di non farlo, esponendo invece la propria estraneità. […] Traduzione non sarà il testo italiano, bensí la riluttante proporzione tra le lingue affrontate. […] È da tale attrito, da tale incertezza bilingue, che si può imparare l’originale— impararlo ricordando la traduzione.
Comprendere è già tradurre, come lo è volgere una musica in danza, ma ci si deve guardare dal comporre, traducendo, un commento interno, a conforto dell’interpretazione.

Dunque, tradurre quel che il testo dice, e non quel che ‘vuol dire’. Quanto a me, ho preferito questi criteri: una ritmica, non una metrica; resistere riguardosamente accanto al testo, accettando d’impoverirlo; non tentare di chiarire in italiano le oscurità dell’inglese; non imitare l’ansia di chi vuol salvare le piccole felicità fonetiche; svalutare parzialmente le parole consigliate dal metro o chiamate dalla corrispondenza del suono; approfittare, ma senza servitù, dell’operosità etimologica».

La catena alimentare che ha principio con Tántalos e Pélops, e raggiungerà l’ultimo degli Atridi, è cosa di cui gli Ateniesi avevano cognizione. Questo è un teatro mnemonico, ove pretende accadere ancora il già accaduto, far ritorno l’incompreso, e una necessità (anche narrativa) fa spreco del possibile.

Perché questa genealogia dei dolori, questi sentimenti inferiori? Sudditi della Storia, siamo preceduti. Ricordiamo. E poiché ricordare invita in alcun modo ad obbedire, la memoria sarà la causa prima, e cosa ereditaria il nostro passato. Affektsprache d’Eschilo, insurrezione d’una lingua che colpevole dice la giustizia, fatue le imprese, patologiche le istituzioni. Innanzi alla σκην , dietro quelle maschere, altri come noi—soggetti senza rimedio, casi individuali che le teorie generali non aiuteranno.

«Timore, fossa e laccio», si legge in Isaia e Geremia; «Iliade dei mali» (Kακ*ν Ιλι ς), in Demostene. Vedere con i propri occhi è fare abbastanza?

Mimmo Paladino, Tavola per l’Agamemnon di Eschilo (2010)

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Fernando Pessoa (1888 – 1935)

Fernando Pessoa

Primiero
ULYSSES

O mito é o nada que é tudo
O mesmo sol que abre os céus
É um mito brilhante e mudo –
O corpo morto de Deus,
Vivo e desnudo

Este que aqui aportou,
Foi por não ser existindo.
Sem existir nos braços.
Por não ter vindo foi vindo
E nos creou

Assim a lenda se escorr
A entrar na realidade,
E a fecundá-la decorre
De nada, morre.

(Fernando Pessoa)

*

Primo
ULISSE

Il mito è il nulla che è tutto.
Lo stesso sole che apre i cieli
è un mito brillante e muto:
il corpo morto di Dio,
vivente e nudo.

Questi, che qui approdò,
non esistendo esistette.
Senza esistere ci bastò.
Non essendo venuto venne
e ci creò.

Così la leggenda scorre
entrando nella realtà,
e a fecondarla decorre.
in basso, la vita, metà
di nulla, muore.

(Trad. Giulia Lanciani) Continua a leggere

Lutto nel mondo della poesia per l’improvvisa scomparsa del giovane Gabriele Galloni

Gabriele Galloni

Di Gabriele Galloni mi parlò per la prima volta una mia amica, Ida Cicoira nell’aprile del 2018. Era un periodo molto difficile per me, mi preparavo a un cambiamento enorme, radicale, ma questa non vuole essere una giustificazione. Oggi so che avrei dovuto occuparmi di Gabriele, prestare attenzione alla sua poesia e per questo tornerò in seguito a parlarvi di questo giovane poeta.

Gabriele, mi scrisse Ida Cicoria, a soli 22 anni aveva già pubblicato nel 2017,  la sua prima raccolta di versi “Slittamenti” con una prefazione di Antonio Veneziani e subito dopo era uscita la seconda “In che luce cadranno”. Per scrivere il suo secondo libro, mi spiegò Ida, Gabriele aveva portato avanti un lavoro di ricerca intervistando dei malati terminali.

Non aggiungo altro. Pubblico una manciata di suoi versi… ripetendo qui quello che qualcuno dei suoi amici mi ha scritto la notte scorsa su messanger: “Gabriele si è addormentato e non si è più svegliato”.

Ciao, caro Gabriele. Perdonami. Non ho saputo difenderti.

LUIGIA SORRENTINO

______

I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile.
Sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci

con una mano – e l’altra all’Invisibile.

*

Ho conosciuto un uomo che leggeva
la mano ai morti. Preferiva quelli
sotto i vent’anni. Tutte le domeniche
nell’obitorio prediceva loro

le coordinate per un’altra vita.

*

Scappi via e ridi; lasci che la schiuma
ti evapori nel tuffo – e piena l’onda
già ti fa ruzzolare sul fondale.

Questi anni nostri non avranno male;
saranno sempre gli anni del Miracolo
per ogni luce che mi indicherai

spegnersi a basso volo sopra i campi
di Torvaianica.

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Cesare Pavese, una poesia

Cesare Pavese

INCONTRO

Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.

L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.

Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, e pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino, Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l’alba su queste colline.

L’ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.

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