Annuario critico sul ferrarese Corrado Govoni

Corrado Govoni

 

È uscito il nuovo Annuario govoniano che raccoglie spunti critici,
analisi e approfondimenti dedicati al poeta del crepuscolo ferrarese.

Dopo anni di silenzio sull’opera in versi di Corrado Govoni, da Ferrara arriva una scintilla, come forse la chiamerebbe lui stesso, una nuova traccia. Matteo Bianchi ha curato un vero e proprio Annuario govoniano di critica e luoghi letterari, edito da La Vita Felice nella collana Otto/Novecento. Il giornalista trentaduenne che si è specializzato a Ca’ Foscari sul lascito lirico del poeta a lui conterraneo e che aveva già dato prova di conoscerlo a fondo commentando il ritrovamento di alcuni suoi inediti sulle pagine di “Poesia” di Crocetti, di recente ha raccolto gli approfondimenti di svariati intellettuali; per farlo si è avvalso della guida di Francesco Targhetta e di Alberto Bertoni, che hanno curato rispettivamente l’introduzione e la postfazione al corposo volume, confermando la loro preparazione in materia.

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Una storia in versi, un storia umana

NOTA DI LETTURA SULL’OPERA DI BARTOLO CATTAFI
DI MATTEO BIANCHI

Con la poesia non avrebbe potuto fare altrimenti Bartolo Cattafi – come ammise a Giacinto Spagnoletti – essendo fatalmente vocato a scrivere in versi con o senza il placet della critica. Sin dagli esordi a motivarlo era stato un “troppo” emotivo o sensoriale che superava la sua stessa finitezza e spaziava al largo, ma non sempre in ascesa. Il suo concetto di ispirazione, spesso ridicolizzato dai suoi colleghi, era ai limiti dell’ingenuità: non si trattava della riuscita egoica di un mestierante né di un vizio perpetrato per sottrarsi al circondario, piuttosto di un demone, di una frenesia che lo conquistava, ebbro, all’improvviso. Emerge questo da Bartolo Cattafi. Tutte le poesie (Le Lettere, Firenze, 2019), a cura di Diego Bertelli, un volume tanto imponente e impegnativo quanto necessario. Il siciliano trapiantato a Milano, accolto e stimato da Raboni e da Sereni, fu tra i poeti più clamorosamente trascurati degli anni Sessanta e Settanta. Fuori dal coro e di indole irregolare, si distinse per la radicale estraneità alle tendenze dei suoi contemporanei. Inoltre non era avvezzo al solito “do ut des” che aveva fatto la fortuna dei più, almeno nel breve periodo; rifuggiva i compromessi, la mera autopromozione e non smaniava per gli agganci editoriali, ha puntualizzato Paolo Maccari in Spalle al muro (2003). E non condivideva le pose intellettualistiche: leggendolo si scoprirebbero le pagine e i lineamenti di un uomo, non di un ‘dottore’ di poesia, ribadirebbe Caproni ancora oggi.
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Paolo Ruffilli, “Le cose del mondo”

Paolo Ruffilli

Dalla quarta di copertina:

Nel suo percorso poetico, Paolo Ruffilli ha praticato strade diverse, sempre confermandosi in una coerente, limpida solidità di pronuncia pur nella varietà di tematiche e argomenti. Questo libro permette di seguirne il cammino per un arco di tempo pressoché quarantennale, trattandosi di un’opera unitaria composta a partire dagli anni Settanta, un ampio work in progress arricchitosi nel tempo. Un’avventura poetica ed esistenziale che prende il via con la metafora del viaggio e degli incontri che il viaggio offre, della quotidianità onirica e a volte sgradevole di chi comunque si trova «straniero tra la gente». Fino al ritorno, dal quale riparte la meditazione turbata sul senso delle cose e della vita, nelle incertezze e negli equivoci degli umani rapporti, tra vuoto, amore e violenza, mentre felicità «sempre si confonde / con la dissolvenza». Nel capitolo che dà titolo al libro, Ruffilli si muove a diretto contatto con gli oggetti di cui si popola la vita, e che si impregnano del nostro passaggio, trovando il senso non banale della loro presenza, si tratti del cappello o del bicchiere, della barca o di un diario. La sua fitta narrazione è affascinante, minuziosa, affabilissima, una sorta di insolito canzoniere dedicato a una realtà tanto essenziale nel vissuto quanto raramente indagata, come in queste pagine, con la concretezza maniacale dell’osservatore sensibile.

POESIE 1978-2019

Le cose

Le persone muoiono e restano le cose
solide e impassibili nelle loro pose
nel loro ingombro stabile che pare
non soffrire affatto contrazione dentro casa
perché nell’occuparlo non cedono lo spazio
vaganti come mine, ma nel lungo andare
il tempo le consuma senza strazio
solo che necessita di molto per disfarle
e farne pezzi e polvere, alla fine.

*

Eccolo, il nome della cosa:
l’oggetto della mente
che è rimasto preso e imprigionato
appeso nei suoi stessi uncini
disteso in sogno, più e più inseguito
perduto dopo averlo conquistato
e giù disceso sciolto e ricomposto
rianimato dalla sua corrosa forma e
riprecipitato nell’imbuto dell’immaginato.


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Roberto Pazzi, da “Un giorno senza sera. Antologia personale di poesia 1966-2019”

Roberto Pazzi

Dalla nota critica di Alberto Bertoni

Roberto Pazzi sceglie in Un giorno senza sera il meglio di cinquantatré anni di poesia. Nato nel 1946, è uno dei pochissimi della sua generazione ad aver praticato con qualità e credibilità equivalenti poesia e narrativa, erede in questo doppio registro di autori come Pasolini, Bevilacqua, Bassani, Delfini, D’Arrigo, Ottieri, Testori, Bufalino, Volponi, Maraini e Morante. La scrittura di Pazzi, fin dall’incontro adolescente con un mentore d’eccezione come Vittorio Sereni, è stata sempre predisposta ad abbattere ogni barriera fra mito e storia, reinvenzione d’autore e autenticità documentaria, una prospettiva che favorisce l’osmosi fra i due domini della poesia e del romanzo. Poche storie poetiche sono votate a un’oralità di specie drammaturgica, fra dialogo e monologo, come quella di Pazzi. Prima di tutto, però, Roberto Pazzi è un poeta originale, che non soggiace ai capricci dell’epoca ma che crede profondamente nel valore della poesia come mezzo primario di dialogo e di comunione.

Da Le rotte della mente. Inediti 2013-2019

Le finestre finte

«Tanto ci vedremo ancora…»
Ti credo, ma quando?
Se non sapessimo invece
che era l’ultima volta
non avremmo la forza di mentire
da una finestra finta senza luce,
come quelle disegnate
sulle case che mi facevano stare
col naso per aria da bambino,
a spiare quando s’aprivano.
Bussano le prime voci
alle cieche finestre,
ci hai dimenticato,
promesse d’amore vantano primati
di giovinezza, letti di fedeltà…
Inutile difendersi,
nell’amnesia non c’è più posto,
l’assenza era sì un vasto albergo
ma le stanze a poco a poco
son state tutte occupate,
sottoscala e abbaini son pieni di nomi,
manca solo il mio,
e al sole le finestre s’apriranno. Continua a leggere

Matteo Bianchi, da “Fortissimo”

MATTEO BIANCHI

NOTA DI LETTURA DI ROBERTO PAZZI

Matteo Bianchi è davvero poeta di stato e di statuto. Nei suoi versi si coglie, fin dai felici esordi dei “Fischi di merlo” (2011), la ricchezza spontanea con cui salva l’esistente nella parola con la medesima naturalezza con cui respira: «Chissà come campa chi è sopravvissuto al patibolo e ha salvato il tutto a scapito di una parte, o cara storpiatura». Non si tratta di un versificare astratto e intellettualistico quello di “Fortissimo” (Minerva, collana Cleide, Bologna, 2019, pp. 93, euro 10), calato com’è in un tessuto linguistico piano, colloquiale, sempre rivolto a un ‘Tu’ che evoca e insegue il dialogo passionale perpetuo; quasi la febbre amorosa fosse la temperatura ideale per scrivere i suoi versi e Bianchi avesse consapevolezza della preziosità di quella condizione, timoroso di perdere con lei la poesia stessa. «Se Orfeo fosse uscito dal buio a mano con lei, non avrebbe avuto più motivo di cantare, ma l’avrebbe salvata dagli Inferi. A me non interessa compensare». Ma è anche poeta di statuto, colto e armato di conoscenze, attento ai modelli di una poesia che prima della sua si era posta sulla via della reinvenzione del mondo grazie alla privilegiata condizione amorosa. E così il titolo che fa i conti con il “Pianissimo” di Camillo Sbarbaro, uno dei grandi del Novecento, rivisitando il passato del poeta ligure con un registro più dichiaratamente effusivo, meno intimistico. Continua a leggere