Charles Simic, poesie

Charles Simic

Gente fuori di testa

Di questi giorni solo gli uccelli e gli animali
sono sani di mente e vale la pena parlarci.
Non mi spiace aspettare che un cavallo
smetta di brucare e mi dia retta.

Perfino un albero è più di compagnia.
Una quercia orgogliosa dei suoi rami
carichi di foglie troppo a modo
per rivolgersi a un estraneo con più di un sussurro.

Un corvo sarebbe un buon amico.
Quello che ho adocchiato
mi conosce bene, ma al momento
è indaffarato con una cosa che ha visto

nel cortile del vicino, che passa
sul terreno bruciato dove
anni fa soleva razzolare una dozzina di galline
con un gallo che strillava tutto il giorno.

Mad People

Only birds and animals these days
Are sane and worth talking to.
I don’t mind waiting for a horse
To stop grazing and hear me out.

Even a tree is better company.
Some oak proud of its branches
Heavy with leaves too polite
To address a stranger above a whisper.

A crow would make a good friend.
The one I have my eye on
Knows me well, but is currently
Busy with something he’s spotted

In my neighbor’s yard, going over
The scorched ground where
Years ago a dozen hens used to roam
And a rooster who crowed all day. Continua a leggere

Charles Simic, “Avvicinati e ascolta”

Charles Simic

Some Birds Chirp

Others have nothing to say.
 You see them pace back and forth,
 Nodding their heads as they do.

It must be something huge
 That’s driving them nuts –
 Life in general, being a bird.

Too much for one little brain
 To figure out on its own.
 Still, no harm trying, I guess,

Even with all the racket
 Made by its neighbors,
 Darting and bickering nonstop.




Alcuni uccelli cinguettano

Altri non hanno niente da dire.
 Li vedi zampettare avanti e indietro,
 ciondolano la testa a ogni passo.

Deve essere qualcosa di enorme
 che li fa uscire di senno –
 la vita in generale, l’essere uccelli.

Troppo perché un cervellino
 ci arrivi da solo. Comunque,
 tanto vale provarci, mi sa,

anche con tutto il can can
 che fanno i vicini,
 che sfrecciano e bisticciano nonstop.




Hide-and-Seek

Haven’t found anyone
 From the old gang.
 They must be still in hiding,
 Holding their breaths
 And trying not to laugh.

Our street is down on its luck,
 Its windows broken here and there
 Where on summer nights
 We heard couples arguing,
 Or saw them dancing to the radio.

The redhead we were
 All madly in love with,
 Who sat on her fire escape
 Smoking late into the night,
 Must be in hiding too.

Nascondino

Non ho trovato nessuno
 della vecchia combriccola.
 Devono essere ancora alla macchia,
 trattenendo il respiro
 e cercando di non ridere.

La nostra strada ha visto tempi migliori,
 le finestre sfondate qui e là
 dove le sere d’estate
 sentivamo litigare le coppie
 o le vedevamo ballare alla musica della radio.

La rossa di cui
 eravamo tutti cotti,
 che sedeva sulla scala d’emergenza
 a fumare fino a notte fonda,
 deve essersi data alla macchia anche lei.

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Una poesia inedita di Charles Simic

Charles Simic

Something Evil Is Out There

That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.

Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe

Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,

With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.

C’è qualcosa di malefico là fuori

Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non sentiamo niente —
ancora più terrificante che sentire qualcosa.

Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere

ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,

con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.

Traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, da  “Avvicinati e ascolta” in uscita questo inverno per le Edizioni Tlon.

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Lawrence Ferlinghetti, “A Coney Island of the mind“ & “Greatest Poems”

Lawrence Ferlinghetti (Foto d’archivio)

di Vernalda Di Tanna

Sconcertante, iconoclasta, dissacrante e melanconico, Lawrence Ferlinghetti delinea i capisaldi della sua poetica in quarantanove poesie raccolte in “A Coney Island of the mind” (1958), acme della sua produzione. Ferlinghetti prende per mano i suoi lettori, come se fossero dei bambini-adulti che hanno smarrito il senso della realtà più autentica: prontamente li accompagna in una sorta di giro turistico per le strade di San Francisco, città che assurge a simbolo di quella che è la capitalista e consumista “società del benessere” statunitense. Spenta e vivace, dalle luci al neon fino ai grattacieli, San Francisco espone cartelloni pubblicitari rivolti ad un pubblico di massa. Persino in un luogo sereno come il Golden Gate Park si annida una “spaventosa depressione”. L’autore fa della città e dei suoi (poco empatici) cittadini un circo, un grottesco cabaret, sineddoche dell’intero Stato nordamericano. Invece, il suo artigianale e spontaneo mestiere di poeta lo identifica con quello di un acrobata che ha il compito di indovinare la verità, prima di poter raggiungere la Bellezza, avanzando in bilico sul tagliente sguardo del suo pubblico. Ferlinghetti afferma di non essersi “mai sdraiato con la bellezza” in vita sua, ma “di esserci andato eccome a letto” generando le sue poesie. Su uno sfondo panico, immerso nella natura che l’autore immagina come un Paradiso, diversamente da Dante, “in cui la gente sarebbe nuda/ […]/ perché vuol essere/ un ritratto delle anime/ ma senza angeli apprensivi a dir loro/ di come il regno dei cieli sia/ il ritratto perfetto di/ una monarchia”. Le poesie dell’Ultimo dei Beat edificano, come afferma l’autore stesso, “un Coney Island della mente”, “un circo dell’anima”.

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In memoria di te, John Ashbery

John Ashbery

E LEI SI CHIAMA “UT PICTURA POESIS”

Non puoi dirlo più così.
Preoccupato della bellezza devi
uscire allo scoperto, in una radura,
e riposare. Certo, qualsiasi cosa strana ti succeda
è OK. Chiedere di più non sarebbe
da te, tu che hai così tanti amanti,
gente che ti ammira ed è pronta
a fare cose per te, ma tu pensi
non sia giusto, che se ti conoscessero davvero…
Basta cosí con l’autoanalisi. E adesso,
su cosa mettere nella tua poesia-quadro:
i fiori sono sempre belli, specie i delphinium.
I nomi di bambini conosciuti un tempo e le loro slitte,
i razzetti vanno bene – esistono ancora?
Ci sono un sacco di altre cose con le stesse proprietà
delle sunnominate. Ora si devono
trovare alcune parole importanti e molte di basso profilo,
dal suono fiacco. Lei mi contattò
perché comprassi la sua scrivania. D’improvviso la strada fu
follia pura e clangore di strumenti giapponesi.
Prosaici testamenti vennero sparpagliati tutt’attorno. La sua testa
s’allacciò alla mia. Eravamo una biciancola. Qualcosa
andrebbe scritto su come ciò ti condizioni
quando scrivi poesia:
l’estrema austerità di una testa pressoché vuota
che si scontra con il rigoglioso fogliame Rousseau-simile del suo desiderio di comunicare
qualcosa nelle intermittenze del respiro, anche se solo nell’interesse
d’altri e per il loro desiderio di capirti e disertarti
per altri centri di comunicazione, così che la comprensione
possa avere inizio, e così facendo essere disfatta.

 

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