Gabriella Musetti, “Un buon uso della vita”

Gabriella Musetti

un buon uso della vita
e la nostra autobiografia / di tutti
– dice Maria Pia –
diventi un viaggio
meno accidentale
non raro non avaro
e strisci dentro
luoghi contenenti sale

***

illocalità della scrittura
(aurorale)
questo fraseggiare dell’origine
tanto divulgato in versi e prose
esibito come abissale
altro – scostante
e quant’altro analizzato
senza venirne a capo poi
in nessun modo

***

le storie sono all’inizio
tutte uguali
nasci da un ventre aperto
dal buio vedi la luce
ma subito la storia cambia
secondo il luogo lo status
il modo e l’accoglienza
non c’è una regola prescritta
uguale a tutti
ognuno trova a caso la sua stanza
chi bene – felice lui o lei – chi
con dolore

***

è morta questa mattina è morta
ma non si è accorta di morire
rideva come una bambina
su un prato in primavera
rideva anche di sera (e pure di mattina)
– s’è messa in salvo – qualcuno dice
volata via sopra una rondine
un po’ di soppiatto un po’ per avveduta
consolazione – la scelta unica rimasta
quasi sicura

***

era morta con la luna storta
era morta sopra un cuscino estraneo
di un vicino fuori della sua casa
come faceva a spiegare
a chi gliel’avesse chiesto
che era uscita in giardino
solo a fumare una sigaretta
scavalcata la finestra s’era trovata
nella casa buia decisa
a seguire il suo destino?


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Claudia Di Palma, da “Atti di nascita”

Claudia Di Palma

Rovisto a mani nude nel vocabolario del cielo.
Porto alla luce i diecimila nomi dell’essere
ma ogni nome ti nomina invano.
E non ho cibo da offrire, solo un abito da sera.
Allora indosso il nome che non ti chiama
e non mi importa di essere alla moda.
Copro la nudità per pudore, mi viene il dubbio
che non ci sia nulla da vestire,
nessun corpo, nessuna rosa.

***

La parola è un chiodo.
Il verbo che tu incarnavi ti tolse
di mezzo scavandoti piano.
Riconobbi il tuo volto dal vuoto
che vi cresceva rigoglioso al centro.
Da lì tu mi guardavi senza mai
sciogliermi, mi lasciavi ai miei giorni
grossolani, io mi dimenavo
con cose di scarso valore, monili
d’argento, e tu, tutto miseria e vento,
non ti offendevi, dissanguavi in croce.

***

Aspiravo alla grazia:
un involucro superfluo,
il trucco sul volto di una donna,
il rossetto sbavato sulle labbra.
Così immaginavo Dio, così lo sognavo.
E la mia preghiera era guardare,
provare a vestirmi sul nulla,
provare a compormi, e poi
raccogliere gli avanzi,
decifrare il mio nome.

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Alessandro Fo, “Filo spinato”

DAL RISVOLTO DI COPERTINA

Il filo spinato del titolo è quello che, trattenendo il nonno di rientro da un assalto durante la Grande Guerra, gli salvò la vita. Senza quel filo non ci sarebbero stati il padre del poeta, né la zia Bianca, né lo zio Dario, né il premio Nobel di quest’ultimo. Incontriamo poi in questo libro un ricco romano del IV secolo, di cui rimane pressoché solo il nome: ma fu grazie a lui se il giovane Agostino poté studiare. Senza di lui, niente Confessioni. E poi, ancora, una borsetta di perline trovata fra le macerie della Seconda guerra mondiale e conservata durante la prigionia per essere regalata a una futura nipote, che ora l’ha riposta cosí gelosamente da non riuscire piú a trovarla. La consolazione di un declivio fiorito lungo la strada che conduce a un lavoro logorante. Una pagella del 1934, nella quale un 6 in matematica fa ancora recriminare dopo piú di ottant’anni l’alunna che lo ricevette. Un garage da sgomberare, in cui giace un tesoro di lettere di Ripellino. L’avvento salvifico di vecchi libri sbrindellati nella cella di una prigione. Le poesie di Alessandro Fo raccontano piccoli episodi come ripresi da vecchie foto, sempre con la speranza che qualcosa resti, dopo la fine di ogni storia. Sempre con la certezza che tra lo scomparire e il riemergere ci sia un filo sottile, spinato o no, a cui tutti siamo appesi.

 

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Alessandro Ceni, tre poesie

Alessandro Ceni

Persona sul crinale recinto

I peli del cardo quando volano
ai termini dei campi
chini sul capo addormentato
sfigurato dai sensi dell’asta abbandonata
alle reti
di prode lacune balatri d’uccelli
di litoranee selve d’arbori e d’agri argini
acuminati di gialle fruste
di fossi sannuti e balze e pruni e gelsi
dove declivano le ultime erte
fino a diroccarsi in abisso
la cancellata chiude l’ingresso della cava
la gente dalla rupe
il profilo steccato dell’orlo lì
il terreno è tutto dilavato
si muove e non puoi dirlo
sopra rare fronde
pigliati nelle frasche
per dune
forre stagni
dove lumina la chiostra degli scomparsi
l’eterna e sconfortata luna
la pianta emersa nel buio d’una notte
in diagonale col muro
i pappi muoiono con immote pupe al fianco
oltre i ferri puntuti della fibbia

***

Autocombustione

Mai in loro presenza.
Bensì dalla distanza, abbracciali,
quando sei invisibile e lontano, tutti,
affetti e amici.
Ma mai in loro presenza.
Lascia che il fiume sciolta in te la zavorra della speranza
si volga a controllare gli scalmi
e discenda le numerose anse del suo andare, che moltiplichi,
sgomiti, macini sassi stesi ed erbe insane: cose, tutte,
facilmente immaginabili: il fiume trasporta
banali cose: lo scomparso dato per scomparso, il
frammento del figlio rotto, la prestanza del drudo
e l’ignominia della sonda, l’incrollabile pornografia
della salvezza inalberata e il registratore
con incorporato il fantasma che assonaglia
catene da neve fuori scena o goccia a goccia
come collirio o flebo si esprime: rumori e insistenza.
Stringili al cappio del tuo infelice pensiero,
alla gomena del capestro della tua mente e,
allentato il solitario argano, impiccali,
sequenza per sequenza, nell’inutile cassero del tuo angusto cuore,
affinché come vibratili fiaccole dentro una caverna
o agitate ricerche sopra le rughe del mare o
grida controvento tra il vento nel frumento
restino avvedutamente inconsapevoli e più saggi
così privati del tuo nascosto amore. Continua a leggere

Patrizia Cavalli, anatomia di una poeta

Patrizia Cavalli / Credits ph. Dino Ignani

NOTA DI MONICA ACITO

Patrizia Cavalli è poeta, non poetessa.
Cavalli ha ancora la pelle perfetta di chi non si è mai resa conto di essere stata bella, nemmeno in gioventù.

Tra le lievi rughe del collo, la nuca e gli zigomi, Cavalli ha sbuffi di fumo e ragnatele, da cui si sprigiona la sua poesia, che fluisce con lo stesso ritmo sincopato del suo respiro.

Se dovessimo fare un nome, tra i tanti, capace di riannodare i fili tra il Novecento e il nostro secolo, sceglieremmo senz’altro la poeta di Todi.

Cavalli scappò dalla città di Jacopone, perché il suo carattere ruvido e orgoglioso mal sopportava le restrizioni di un borgo ancora medievale.

Approdò così a Roma, dove conobbe la Morante, che la laureò poeta, non con l’alloro di Petrarca e nemmeno con le tamerici di Virgilio, bensì con la poesia che non avrebbe cambiato il mondo.

E Cavalli forse scelse di prendersi il titolo di poeta proprio per non deludere Elsa, perché Cavalli, come tutte le donne pigre, aveva bisogno di qualcuno che la costringesse a credere fermamente in se stessa.

Non ho seme da spargere per il mondo
non posso inondare i pisciatoi né
i materassi. Il mio avaro seme di donna
è troppo poco per offendere. Cosa posso
lasciare nelle strade nelle case
nei ventri infecondati? Le parole
quelle moltissime
ma già non mi assomigliano più
hanno dimenticato la furia
e la maledizione, sono diventate signorine
un po’ malfamate forse
ma sempre signorine.

da “Le mie poesie non cambieranno il mondo” (Einaudi, 1974)

La poesia di Cavalli è fatta di nervi, sangue e muscoli: ha salde gambe, sta in piedi da sola e non ha bisogno di arabeschi di spiegazioni, di arringhe e di sillogismi aristotelici.

Le sue parole sono chirurgiche, spaccano il capello: in un’intervista recente al Corriere della Sera, Cavalli ha dichiarato che la poesia ha il compito di narrare il corpo, perché è inutile parlare dell’anima.

Cavalli è poeta e donna che abita la sua fisicità, e i suoi versi sono scienza del corpo e dei sentimenti.

Il suo sguardo tattile riesce, infatti, a dare parole a quei particolari trasalimenti privi di parole del corpo.

Ne “Il Cielo” (1981) vi è il ricamo del silenzio, che Cavalli cuce sul lenzuolo della sua solitudine.

Il rumore la intossica, le impedisce di scrutare la realtà con occhio chiaroveggente e con quell’endecasillabo che fa pensare alla mano del Montale di “Ossi di Seppia”. Continua a leggere