Alda Merini, “La Terra Santa”

Alda Merini

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

Splendide e strazianti le poesia di Alda Merini contenute nella raccolta “La Terra Santa” del 1984.
La terra Santa è il manicomio nel quale è rinchiusa la poetessa, luogo di oscurità e solitudine, di conoscenza e introspezione, luogo in cui la poesia affiora e si rafforza.

Il manicomio, nel quale “l’esistenza è negata”, come in un inferno, è vissuto da Alda Merini come uno stato d’animo, una condizione annientante che trascina giù verso il basso e, prima ancora che ce ne possa accorgere, si diventa reclusi, prigionieri.

Eccola lì, Alda, sola, disorientata. Obbedisce a chi detta le regole di una vita che non riconosce… e allora la poetessa si affida alla “divina follia” che ha depositato in lei i “versi della riscossa” e del riscatto. Una poesia che diviene atto di resistenza, sconfinamento.

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Manicomio è parola assai più grande
delle oscure voragini del sogno,
eppur veniva qualche volta al tempo
filamento di azzurro o una canzone
lontana di usignolo o si schiudeva
la tua bocca mordendo nell’azzurro
la menzogna feroce della vita.
O una mano impietosa di malato
saliva piano sulla tua finestra
sillabando il tuo nome e finalmente
sciolto il numero immondo ritrovavi
tutta la serietà della tua vita.

Il dottore agguerrito nella notte
viene con passi felpati alla tua sorte,
e sogghignando guarda i volti tristi
degli ammalati, quindi ti ammannisce
una pesante dose sedativa
per colmare il tuo sonno e dentro il braccio
attacca una flebo che sommuove
il tuo sangue irruente di poeta.
Poi se ne va sicuro, devastato
dalla sua incredibile follia
il dottore di guardia, e tu le sbarre
guardi nel sonno come allucinato
e ti canti le nenie del martirio. Continua a leggere

Giannino di Lieto, “Il gesto antico e nuovo della lingua”

Giannino di Lieto

LA LINGUA INQUIETA E LA LINGUA DI UN POPOLO

 IDA TRAVI

Nel Breviario inutile, supplemento a “L’Ortica” del marzo 2003, al secondo paragrafo, titolato Della Comunicazione, Giannino di Lieto scrive: “Una Società di parlanti è attraversata da una ragnatela o intersezioni, le Società di Discorso. La configurazione di una Società di Discorso è circolare, quindi fondamentalmente chiusa”.

La lingua del discorso sembra vincente, sembra unificante solo perché è chiusa.

C’è molto di costrittivo nel suo unificare, c’è una perdita di libertà nel Discorso pubblico.
C’è una finzione. Passare attraverso il discorso pubblico, senza il coraggio della
poesia, vuol dire uscirne spellati.

La Società di Discorso chiude, non lascia parlare; la scrittura di questa Società di
Discorso
zittisce l’altro. Ecco allora che la parola poetica si ribella, forza il Discorso
chiuso, e all’improvviso apre un varco, sia nel passato che nel futuro.

Il varco è in realtà uno spiazzo millenario nel quale irrompono le civiltà che forse dormono, ma non sono ancora estinte. Dormono accanto a un futuro prossimo senza tempo.

Nello spiazzo millenario, se pur frantumato e scaduto, si fa vivo un essere antico, che mostrandosi come nuovo, riemerge dalle tempestose acque della storia.

Nessuno può sapere in che rapporto sta con l’ombra. Questa è cosa che non si può dire, ma solo poeticamente indicare, come farebbe un bambino col dito teso, come farebbe un muto indicando qualcosa di “profeticamente” accaduto.

Il tempo della capra
quando si munge piegati sul ginocchio
era uno spiazzo estivo,
ombra in corsa d’acqua
la fatica saltellante negli squadri cavi
graffiare del naufrago le mani
povere piante
come d’antico vivere:
il grido si è spellato sulla bocca.

Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Giochi verticali”, p. 31)

Indicare poeticamente (silenziosamente) è un gesto antico e nuovo insieme. È gesto antico e nuovo in ogni lingua, in ogni civiltà. Questo gesto poetico racchiude un silenzio che si salva anche nella parola pronunciata. E un silenzio sonoro unisce contemporaneamente ciò che sta fuori – all’aperto – e ciò che batte – dentro – con il pendolo, al muro della nostra casa.

Vivere in punta:
se l’alba brucia i boccoli dell’aria
come bolle scoppiano i tempi iridescenti
oscilla fra muri
un pendolo d’incenso
nella moltiplicazione
l’anima è riflessa in fuga d’oro.

Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Un pendolo”, p. 41)

Questo interno, in cui l’anima si mette in fuga d’oro, è simile allo spiazzo estivo in cui campeggia “l’ombra in corsa d’acqua, quando si munge piegati sul ginocchio”: siamo in quell’interno-esterno in cui il mondo non può coincidere coi suoi nomi e con la voce di chi quei nomi chiama. Eppure coincide con il gesto silenzioso di chi le cose addita, il sempre vivo, il minacciato che non muore mai, venuto allo spiazzo a scompaginare la quiete.

Siamo in quell’interno esterno-esterno dove si parla la lingua dei vecchi e dei bambini. La lingua d’un popolo. Quella non scritta. La lingua prima. La lingua del corpo-voce che nomina il mondo come se fosse la prima volta che appare. La lingua materna. Giannino di Lieto riparte da questa prima lingua, e la scavalca. Continua a leggere

Piero Bigongiari, “L’enigma innamorato”

Piero Bigongisri

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

La poesia di Piero Bigongiari, crescendo dai concimi di una dizione che può essere definita biblica – a patto che l’aggettivo sia letto non soltanto stricto sensu ma anche nella sua accezione più larga, nell’occorrenza di un’arcana solennità –, non poteva fiorire per acclamazione di pubblico. È infatti una lirica insidiosa, elusiva, a tratti severa, che rilascia un nettare melodico (a differenza del primivitismo betocchiano).

Eppure dietro alle sinuosità formali si incrociano significati sfingici, legati da un rapporto non esattamente (non del tutto) “ermetico”, come ci si aspetterebbe, bensì allegorico-metafisico, insomma lungo quella linea discontinua che scorre da Browning e Baudelaire.

I versi di Bigongiari non appartengono di rigore né alla poésie pure di marca simbolista né al «classicismo paradossale», al ragionamento modernista. Sono un ibrido, un ircocervo.

Certo è che Carlo Bo lo considerava «il più concettualistico rappresentante del movimento [ermetico] nella sua fenomenologia fiorentina». Nondimeno l’obscurisme della penna, al pari del Barocco pittorico che egli predilesse assieme alla moglie Elena, sin dall’inizio si muove sull’asse di una saturazione di motivi, spesso confinante in quell’«oltranza manieristica» (Pavarini) che ricompone un mondo nella sua impermeabile perfettività: e di lì, stabilita l’insufficienza del reale, oltre l’orizzonte di un’algida lontananza.
La tentazione che Bigongiari sia dunque un poeta per poeti è scottante e deriva dai presupposti filosofici con cui sorge la sua ispirazione. Continua a leggere

A Milo De Angelis, nel giorno del suo settantesimo compleanno

Oggi 6 giugno 2021, è un giorno importante. Ricorre il settantesimo compleanno di uno dei maggiori poeti europei del nostro tempo: Milo De Angelis.

Auguri Milo, Buon Compleanno!

Lo rivedo così, ritratto in una foto a me particolarmente cara scattata da Giampaolo Lai che suggella il nostro primo incontro a Ortona, nel 1986.

Milo era di fronte a me. Era estate, l’estate di una  notte infinita. L’estate in cui restammo svegli e parlammo di poesia per tutta la notte.

Lo ricordo seduto, nello spazio immenso della poesia, nello spazio infinito di ciò che è eterno e che non avrà mai fine. 

Il libro che mi regalò era “Somiglianze” (Guanda, 1976). La dedica per me in calce al libro: “A Rò, per più di una vita”.

Rò, (Rhò, Rho), è il nome di un comune in provincia di Milano. Rò, un nome notevole per me, perché Rò non è solo uno dei comuni più antichi della Lombardia,  è anche un nome affettivo, che stabilisce un legame profondo e identifica l’unicità del “luogo” in sé, della persona, di ogni persona. E, per Milo De Angelis, – come leggerete nella poesia che segue – l’unicità fondatrice del “luogo” configura l’atto poetico,  il gesto atletico, il rito arcaico, antichissimo, che si ripete come un dovere esistenziale e originario: “per più di una vita”.

(Luigia Sorrentino)

 

La somiglianza

Era
nelle borgate, camminando in fretta
quell’assolutamente
oltre
che dai libri usciva nella storia
radendo le bancarelle, d’estate.
Domanderemo perdono
per avere tentato, nello stadio,
chiedendogli di lanciare un giavellotto
perché ritornasse l’infanzia.
Non si poteva
ma la somiglianza era noi
nell’immagine di un altro, ravvicinato, nel sole
volevamo trattenere il nostro senso
verso lui
in un gesto da rivivere: chi poteva sancire
che tutto fosse al di qua?

Prese la rincorsa, tese il braccio…

Da: Somiglianze, Milo De Angelis, (Guanda, 1976)

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L’imparzialità della poesia

“Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020” a cura di Mario Fresa (Società Editrice Fiorentina, 2021). Il curatore l’ha definito in una recente intervista “uno stimolo alla conoscenza”.

NOTA CRITICA DI GIUSEPPE MARTELLA

Qualche tempo fa mi è capitato di pubblicare su Facebook in tono semiserio un post provocatorio dove affermavo di voler acquistare questo libro per vedere chi manca.

Mario Fresa non è intervenuto nel breve dibattito che ne è seguito, ma mi ha subito scritto, rimproverandomi la poca serietà dell’intento e invitandomi a leggere e studiare attentamente il volume piuttosto che semplicemente consultarlo, poiché dietro c’era un immenso lavoro di coordinamento e di riflessione da parte di una equipe di critici molto agguerrita. Io gli risposi che certo lo avrei fatto, facendogli notare però che dizionari, enciclopedie, atlanti ragionati e quant’altro, sono fatti proprio per essere consultati all’occorrenza piuttosto che studiati.

Quando ho iniziato a leggerlo, un paio di giorni fa, la dichiarazione di intenti che trovo fin dalle prime parole della Premessa, recita infatti: “questo dizionario intende essere uno strumento di consultazione, di memoria e di informazione.”

Poi cerco invano un indice dei poeti censiti per farmi una prima idea dell’impianto complessivo dell’opera, dal momento che nella stringatissima premessa (poco più una pagina) i criteri della scelta e l’intento dell’opera non vengono affatto esplicitati al di là delle generiche parole suddette, del criterio temporale di includere poeti che hanno esordito dopo il 1945, e delle affinità elettive fra questi ultimi e i critici cui sono stati affidati.

Si tratta dunque di una mappa ecumenica della poesia italiana dal dopoguerra ai nostri giorni, che annovera poco più di 250 poeti in ordine alfabetico, senza un indice di consultazione, e 53 redattori che invece l’indice ce l’hanno ma nell’ordine inconsueto dei nomi piuttosto che dei cognomi, di cui non comprendo lo scopo se non insinuando il sospetto maligno di confondere le acque, poiché poi buona parte di questi redattori appaiono anche nel novero dei poeti.

Questo è il quadro che il lettore medio può ricavare in partenza, in un’opera che manca del tutto di una cornice critica e di una spiegazione della ratio che la regge.

Non gli resta pertanto che mettersi pazientemente in cammino seguendo l’alfabeto degli eletti. E così faccio, ovviamente sorvolando sulla lettura di molte schede, per il semplice motivo che diversi autori già li conosco bene, altri abbastanza da non volerli approfondire oltre. Mi appunto solo alcuni nomi che mi riservo di esaminare a tempo e luogo e annoto alcune cose che mi colpiscono per lo più sfavorevolmente.

Anzitutto, l’eccessiva ampiezza del periodo scelto ha costretto i redattori a fare delle schede stringatissime, da cui spesso non risulta il tenore e il valore dell’opera prescelta. Sicché al lettore non specialista (tranne forse solo nel caso dei mostri sacri che magari conosceva già) non rimane che annoverare una serie di presenze fantasmatiche piuttosto che di profili nitidi.

In secondo luogo, nello spazio asfittico complessivo, alcune schede risultano a mio parere troppo estese ed altre troppo compresse rispetto al valore dell’autore in questione. Un esempio per tutti: Bartolo Cattafi ha una scheda di mezza paginetta mentre Biagio Cepollaro ne ha una di lunghezza doppia, quando fra i due sussiste un abisso di valore, dal momento che il primo è uno dei maggiori poeti del secondo Novecento.

Ad Alfredo De Palchi poi, encomiabile traduttore e divulgatore della poesia italiana in Nord America ma poeta assai mediocre, viene riservato uno spazio quattro volte maggiore. Continua a leggere