Alessandro Ceni, tre poesie

Alessandro Ceni

Persona sul crinale recinto

I peli del cardo quando volano
ai termini dei campi
chini sul capo addormentato
sfigurato dai sensi dell’asta abbandonata
alle reti
di prode lacune balatri d’uccelli
di litoranee selve d’arbori e d’agri argini
acuminati di gialle fruste
di fossi sannuti e balze e pruni e gelsi
dove declivano le ultime erte
fino a diroccarsi in abisso
la cancellata chiude l’ingresso della cava
la gente dalla rupe
il profilo steccato dell’orlo lì
il terreno è tutto dilavato
si muove e non puoi dirlo
sopra rare fronde
pigliati nelle frasche
per dune
forre stagni
dove lumina la chiostra degli scomparsi
l’eterna e sconfortata luna
la pianta emersa nel buio d’una notte
in diagonale col muro
i pappi muoiono con immote pupe al fianco
oltre i ferri puntuti della fibbia

***

Autocombustione

Mai in loro presenza.
Bensì dalla distanza, abbracciali,
quando sei invisibile e lontano, tutti,
affetti e amici.
Ma mai in loro presenza.
Lascia che il fiume sciolta in te la zavorra della speranza
si volga a controllare gli scalmi
e discenda le numerose anse del suo andare, che moltiplichi,
sgomiti, macini sassi stesi ed erbe insane: cose, tutte,
facilmente immaginabili: il fiume trasporta
banali cose: lo scomparso dato per scomparso, il
frammento del figlio rotto, la prestanza del drudo
e l’ignominia della sonda, l’incrollabile pornografia
della salvezza inalberata e il registratore
con incorporato il fantasma che assonaglia
catene da neve fuori scena o goccia a goccia
come collirio o flebo si esprime: rumori e insistenza.
Stringili al cappio del tuo infelice pensiero,
alla gomena del capestro della tua mente e,
allentato il solitario argano, impiccali,
sequenza per sequenza, nell’inutile cassero del tuo angusto cuore,
affinché come vibratili fiaccole dentro una caverna
o agitate ricerche sopra le rughe del mare o
grida controvento tra il vento nel frumento
restino avvedutamente inconsapevoli e più saggi
così privati del tuo nascosto amore. Continua a leggere

Addio a Philippe Jaccottet

E’ morto Philippe Jaccottet, poeta, traduttore e critico letterario, vincitore del Premio Goncourt per la Poesia nel 2003. Jaccottet, svizzero, aveva 95 anni.

Lo ha annunciato il figlio all’agenzia di stampa France Press. La casa editrice italiana, Marcos Y Marcos che ha molti suoi titoli in catalogo ha fatto sapere che il 17 marzo 2021 pubblicherà Passeggiata sotto gli alberi, opera inedita in Italia inclusa nella Pleiade di Gallimard.

 

Parler est facile, et tracer des mots sur la page,
en règle générale, est risquer peu de choses:
un ouvrage de dentellière, calfeutré,
paisible (on pourrait même demander
à la bougie une clarté plus douce, plus trompeuse),
tous les mots sont écrits de la même encre,
«fleur» et «peur» par exemple sont presque pareils,
et j’aurais beau répéter « sang » du haut en bas
de la age, elle n’en sera pas tachée,
ni moi blessé.
Aussi arrive-t-il qu’on prenne ce jeu en horreur,
qu’on ne comprenne plus ce qu’on a voulu faire
en y jouant, au lieu de se risquer dehors
et de faire meilleur usage de ses mains.
Cela,
c’est quand on ne peut plus se dérober à la douleur,
qu’elle ressemble à quelqu’un qui approche
en déchirant les brumes dont on s’enveloppe,
abattant un à un les obstacles, traversant
la distance de plus en plus faible – si près soudain
qu’on ne voit plus que son mufle plus largeque le ciel.
Parler alors semble mensonge, ou pire: lâche
insulte à la douleur, et gaspillage
du peu de temps et de forces qui nous reste.
Parler alors semble mensonge, ou pire: lâche
insulte à la douleur, et gaspillage
du peu de temps et de forces qui nous reste.

Parlare è facile, e tracciare parole sulla pagina
vuol dire, per lo più, rischiare poca cosa:
lavoro da merlettaia, ovattato,
tranquillo (perfino alla candela si potrebbe
domandare una luce più dolce, più ingannevole),
le parole sono tutte scritte con lo stesso inchiostro,
«fetore» e «fiore» per esempio sono quasi uguali,
e quando avrò ricoperto di «sangue» l’intera pagina,
lei non ne sarà macchiata,
o io ferito.

Capita dunque di provare orrore per questo gioco,
di non capire più cosa si voleva fare
giocandoci, invece di arrischiarsi fuori,
e di fare un uso migliore delle proprie mani.

Questo
è quando non ci si può più sottrarre al dolore,
quando il dolore somiglia a qualcuno che viene,
strappando il velo di fumo in cui ci si avvolge,
abbattendo uno per uno gli ostacoli, colmando
la distanza sempre più lieve – d’improvviso così vicino
che non si vede più che il suo muso più largo
del cielo.

Parlare allora sembra menzogna, o peggio: vigliacco
insulto al dolore, e inutile spreco
del poco di tempo e forze che ci resta.

La mer est de nouveau obscure. Tu comprends,
c’est la dernière nuit.Mais qui vais-je appelant?
Hors l’écho, je ne parle à personne, à personne.
Où s’écroulent les rocs, la mer est noire, et tonne
dans sa cloche de pluie. Une chauve-souris
cogne aux barreaux de l’air d’un vol comme surpris,
tous ces jours sont perdus, déchirés par ses ailes
noires, la majesté de ces eaux trop fidèles
me laisse froid, puisque je ne parle toujours
ni à toi, ni à rien. Qu’ils sombrent, ces «beaux jours»!
Je pars, je continue à vieillir, peu m’importe,
sur qui s’en va la mer saura claquer la porte.

Philippe Jaccottet (Moudon, 1925), dall’Effraie(Gallimard, 1953) – Traduzione italiana: P. Jaccottet, Il Barbagianni. L’Ignorant (con un saggio di Jean Starobinski, a c. di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992)

Portovenere

Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.

 

Plus je vieillis et plus je croîs en ignorance,
plus j’ai vécu, moins je possède et moins je règne.
Tout ce que j’ai, c’est un espace tour à tour
Enneigé ou brillant, mais jamais habité.
Où est le donateur, le guide, le gardien?
Je me tiens dans ma chambre et d’abord je me tais
(le silence entre en serviteur mettre un peu d’ordre),
et j’attends qu’un à un les mensonges s’écartent:
que reste-t-il? que reste-t-il à ce mourant
qui l’empêche si bien de mourir ? Quelle force
le fait encore parler entre ses quatre murs?
Pourrais-je le savoir, moi l’ignare et l’inquiet?
Mais j’entends vraiment qui parle, et sa parole
pénètre avec le jour, encore que bien vague :
«Comme le feu, l’amour n’établit sa clarté
que sur la faute et la beauté des bois en cendres… »

Philippe Jacccottet (Moudon, 1925), L’Ignorant (Gallimard, 1958; traduzione italiana: Philippe P. Jaccottet, Il Barbagianni. L’Ignorante, con un saggio di Jean Starobinski, a c. di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992)


L’ignorante

Più invecchio e più io cresco in ignoranza,
meno possiedo e regno più ho vissuto.
Quello che ho è uno spazio volta a volta
innevato o lucente, mai abitato. E il donatore
dov’è, la guida od il guardiano? Io rimango
nella mia stanza, e taccio (entra il silenzio
come un servo che venga a riordinare),
e attendo che a una a una le menzogne
scompaiano : cosa resta? Cosa rimane a questo moribondo
che gli impedisce ancora di morire? Quale forza
lo fa ancora parlare tra i suoi muri?
Potrei saperlo, io, l’ignaro e l’inquieto? Ma la sento
parlare veramente, e ciò che dice
penetra con il giorno, anche se è vago:
«Come il fuoco, l’amore splende solo
sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere…»

NOTA CRITICA DI ALBERTO FRACCACRETA

Ricordo di Philippe Jaccottet

Quando si legge un libro di Philippe Jaccottet, poeta svizzero di lingua francese scomparso qualche giorno fa a Grignan all’età di novantacinque anni, si prova un’esperienza che forse non è del tutto improprio definire mistica. Come accade nella silloge E, tuttavia (traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 2006), un martin pescatore, un pettirosso, «insulse» e «infime» viole, la carota selvatica e i convolvoli sono capaci di «sgombrare la vista», cioè rendere evidente la cognizione di qualcosa d’altro («una via», «una traccia») sì da conoscere il mondo per come esso è veramente. I medesimi tentativi di purificazione del vedere — con uno stile personalissimo a metà tra il poème en prose, il carnet de voyage e l’ekphrasis — sono espressi con limpidezza pari a verginità espressiva negli scritti dedicati a Giorgio Morandi, nei diari della Semaison o nel cahier bleu del viaggio in Terrasanta.

Non è un caso allora che la critica (con Starobinski in cima) abbia univocamente appioppato a Jaccottet il titolo di «poeta dell’umiltà», sempre pronto a ritrarre l’io dalla materia d’ispirazione per accogliere la fiamma dell’alterità nel cuore dell’ordinario. Cantore delle ultime cose e delle cose ultime, egli ha seguito un percorso coerente e credibile che gli è valso il Prix Goncourt de la poésie nel 2003 e il prestigioso Prix mondial Cino del Duca nel 2018, nonché la perenne candidatura al Nobel. Continua a leggere

Gli occhi di Valerio Magrelli

Valerio Magrelli

 Ho spesso immaginato che gli sguardi
 sopravvivano all’atto del vedere
 come fossero aste,
 tragitti misurati, lance
 in una battaglia.
 Allora penso che dentro una stanza
 appena abbandonata
 simili tratti debbano restare
 qualche tempo sospesi ed incrociati
 nell’equilibrio del loro disegno
 intatti e sovrapposti come i legni
 dello shangai.

 

 

E la crepa nella tazza apre
 un sentiero alla terra dei morti”
 (W.H.Auden)

...come quando una crepa
  attraversa una tazza
 (R.M.Rilke)

 

 Ricevo da te una tazza
 rossa per bere ai miei giorni
 uno ad uno
 nelle mattine pallide, le perle
 della lunga collana della sete.
 E se cadrà rompendosi, distrutto,
 io, dalla compasione,
 penserò a ripararla,
 per proseguire i baci ininterrotti.
 E ogni volta che il manico
 o l’orlo s’incrineranno
 tornerò a incollarli
 finché il mio amore
 non avrà compiuto
 l’oper dura e lenta del mosaico.

 ***

 Scende lungo il declivio
 candido della tazza
 lungo l’interno concavo
 e luccicante, simile alla folgore,
 la crepa,
 nera, fissa,
 segno di un temporale
 che continua a tuonare
 sopra il passaggio sonoro,
 di smalto.

 Da: Valerio Magrelli, Nature e venature, Mondadori, 1987

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Milo De Angelis, “Questo mio sempre”

Milo De Angelis, Credits ph. Viviana Nicodemo

Avevamo pubblicato in Anteprima Editoriale, il 10 giugno 2020 all’interno del progetto Catena Umana/ Human Chain la poesia inedita di Milo De Angelis, Nemini, che apre la sua nuova raccolta di versi, Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021) uscita oggi, 26 gennaio in tutte le librerie italiane.

Ci sembra giusto proporre adesso la poesia che chiude il libro, Il penultimo discorso di Daniele Zanin, un canto a una sola voce, una monodia, sul senso della vita e sulla decisione di abbandonarla.
(Luigia Sorrentino)

 

IL PENULTIMO DISCORSO DI DANIELE ZANIN







Le antenne si muovono nel vento
 il corpo ondeggia ma è deciso a pronunciare
 ad alta voce le sue accuse. E tutto il quartiere,
 con il fiato sospeso, scruta quel ragazzo alto e magro
 in piedi sul tetto, con il golf bianco e le dita
 coperte di farina. Ognuno attende la sentenza.
 Ognuno affonda nel mistero
 di se stesso e guarda in alto, non sa
 dove si trova esattamente
 ma sa che quelle parole sono per lui
 e lui, mentre ascolta, le sta pronunciando.

“Mi chiamo Daniele e ho pensato seriamente alla vita.
 La vita ed io siamo state due creature
 che si accusavano a vicenda, finché un’energia furiosa
 ci ha spinti l’una contro l’altro e ho cominciato
 a vedere l’altra faccia di ogni foglio, ho cominciato
 a nuotare nei laghi del tramonto e ora sono qui
 con gli occhi forati e le lacrime di piombo
 e vi ho chiamati ogni mattina, vi ho chiamati
 uno per uno per nome e per cognome
 finché non vi ho più visti e cominciò
 questo mio sempre
 di ore deserte e istanti morti.”

“State attenti, tutti voi, perché non parlerò due volte.
 Sono nato alla fine di una festa, al Gallaratese,
 quando la bocciofila restò senza luce e tutti
 se ne andarono.
 Gridai che era tardi, ed era tardi.
 La musica delle sfere precipitò in una zattera,
 il mio pianto ammutolì e allagò tutta la vita,
 mi divisi per sempre da me stesso, persi la mano
 della fata e a tutti voi scagliai in faccia
 il mio sacchetto di canditi.”

“Nella vasca dove entrai un pomeriggio
 vidi la fine separata dal suo inizio, vidi
 le prime crepe del sorriso e divenni un istante ossidato,
 una mezza notizia che nessuno raccoglie, vidi
 la follia disegnata sulle mie unghie, vidi
 per la prima volta i miei amati cavalli
 fermi in una giostra di pietra,

mi aggiravo tra spigoli di buio, avevo un piede
 immerso nella calce, studiavo i libri
 degli antichi e dei moderni, riempivo la cucina
 di appunti e foglietti. Poi l’artiglio di un gattino grigio
 lacerò tutto il pensiero di Hegel.”

“Cominciai a vedere nelle lampadine spente
 il viso di mio padre, cominciai con la mia cannuccia
 a succhiare veleno, mi immersi
 nell’acqua passata
 e apparve l’ombra dei lupi, entrò come un arpione
 nella bocca, mi tolse la parola: sentivo le urla
 dei pazzi in una culla di catrame
 finché di colpo appassì l’ibisco e mi accorsi
 che ormai da sette giorni sotto il mio cuscino
 dormiva la morte.”


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Franco Loi, poeta della memoria

Nota di Corrado Benigni 

Franco Loi, grande vecchio della poesia italiana contemporanea, «rabdomatico mediatore tra il visibile e l’invisibile», come lo ha definito il critico Giovanni Tesio, è morto il 4 gennaio 2021 nella sua casa milanese. E con lui una generazione di maestri sta finendo di finire.

Nato a Genova, da padre sardo e madre emiliana, ma cresciuto fin dall’infanzia nel capoluogo lombardo, è stato l’ultimo testimone della “vecchia Milano”, raccontata da Testori e Raboni, messa in musica da Jannacci e Gaber: una metropoli di case popolari, punto di aggregazione di gente differente, tuttavia così lontana dal multiculturalismo sfrenato di oggi.

Poeta della vita e della memoria, poeta della realtà e del visivo, Loi è sempre sfuggito alle etichette e dunque al prevedibile. In rapporto quasi antagonistico con l’estinguersi dell’uso dei dialetti, è sempre stato fedele alla sua lingua: il milanese. Con questo idioma ha scritto quasi tutti i suoi libri in versi, da “Stròlegh” del 1975, a “Voci di Osteria” del 2010. L’uso del dialetto per Loi è stato un atto di necessità; il suo milanese è lontano da ogni purismo meneghino della tradizione, è piuttosto una lingua composita, magmatica, capace di fondere passione politica e tensione evangelica. «Il mio atteggiamento verso i dialetti – diceva – è di semplice rispetto di quel che accade quando vengo travolto dalle immagini. La mia attenzione consiste nell’appropriatezza della forma alla materia incandescente e incantatrice dell’inconscio».

L’ho incontrarlo spesso nella sua casa milanese di viale Misurata, sempre generoso con gli autori delle ultime generazioni, che sapeva ascoltare e consigliare, e ai quali chiedeva subito di dargli del tu.

In una di queste occasioni, qualche anno fa, in un gelido sabato di dicembre, poco prima di Natale, è nata l’intervista.

5 gennaio, 2021

INTERVISTA A FRANCO LOI
di Corrado Benigni

Milano, 5 dicembre 2016

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Sei stato definito un “poeta della memoria”. Che rapporto hai con questa dimensione?

«La poesia non è solo nella mente, non è la razionalità, ma nasce dall’inconscio, che sa molto di più della nostra coscienza. La poesia è una delle strade che abbiamo per conoscere noi stessi. È una voce della memoria, che rimanda a un tempo realmente vissuto, ma che ci spinge ancora più indietro, a un tempo dell’inizio, appunto, a un tempo “mitico” da cui tutto nasce».

Iosif Brodskij ha detto che alla storia, anche personale, è necessario aggiungere un “assaggio di vastità, altrimenti le nostre vite sono grette, chiuse, piccine”…

«Sono d’accordo. Questo lo ha insegnato prima di tutto Gesù Cristo anche attraverso i suoi apostoli. Abbiamo bisogno di trascendente perché il trascendente esiste, perché non bastiamo a noi stessi, perché la vita umana è un mistero e il mistero non si spiega solo con la scienza e la ragione. Dante, nel “Paradiso”, riprendendo le lettere di San Paolo, dice: “Fede è sustanza di cose sperate et argomento de le non parventi”. Da questa frase io ne ho tratto un pensiero: “fede è certezza di esperienze vissute nella loro essenza, che però la mente non riesce a comprendere”. Einstein ha detto che non si perviene alle leggi universali per via di logica, ma per intuizione, attraverso il rapporto simpatetico, amoroso, con l’esperienza. La stessa cosa avviene in poesia». Continua a leggere