Vittorio Sereni (1913 – 1983)

Vittorio Sereni

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

A sette anni di distanza dalla pubblicazione sulla carta arancione degli «Oscar», le poesie e alcune prose scelte di Vittorio Sereni — con l’identica e puntuale curatela di Giulia Raboni — si ripresentano oggi nell’assetto raffinato degli «Oscar moderni Baobab», a sottolineare l’eccezionalità dell’aderenza lirica dell’autore luinese al panorama letterario italiano. Non soltanto un classico dunque, ma qualcosa di più: un poeta insradicabile dal paesaggio caducifoglie nella valle della letteratura contemporanea tra frutti ovoidali e semi reniformi. Poeta percorso da brucianti attese e da una reale quanto distillata urgenza comunicativa — sono quattro le sillogi edite, Frontiera (1941-1942), Diario d’Algeria (1947; 1965), Gli strumenti umani (1965; 1975) e Stella variabile (1981) —, Sereni è esattamente quello che ha dipinto Pier Vincenzo Mengaldo: personalità silenziosa ed estremamente consapevole in cui «l’uomo e il poeta facevano tutt’uno».

Noto per la sua «avara vena» («o quand’era in pantofole la sua stitichezza»), il luinese — almeno nella prima parte della sua carriera potentemente influenzato da Montale e dalle Occasioni — ha acquisito sempre di più un timbro riconoscibile di necessarietà compositiva da un lato (la cui «finitezza formale» è pari solo a Leopardi e Mallarmé) e di preponderante esercizio dell’incertezza dall’altro. Poeta del crogiuolo del dubbio non soltanto metafisico ma anche semplicemente pratico (nei riguardi del futuro, nelle incombenze della guerra o nell’umiltà della non partecipazione a troppo rigide posizioni), amante indiscusso del participio presente — e quindi legato all’asciuttezza dello stile nominale —, Sereni dà forse la prova più audace e tenace nell’intero Novecento di un io lirico definito proprio dai confini della sua indefinitezza: io quasi mai cangiante, per nulla istrionico e nemmeno iconoclasta (come il terzo Montale); altresì un io fedele alla propria povertà epistemologica, intriso d’improvvisi e transeunti lampi nella rivelazione del mondo esteriore, sempre elegante e generoso, eppure eroso dal senso di colpa della «vergogna della poesia». Peculiarità invero amabile di un «carattere evidentemente predisposto alla discussione di sé», come sottolinea Giulia Raboni, ci insegna il riserbo, il continuo ripensamento interiore dei propri fantasmi e la sublime arte (ascetica) di un perfezionamento soggettuale, sempre condotto in forme negative e antifrastiche («Ma ero/ io il trapassante, ero io,/ perplesso non propriamente amaro», In salita), e attraversato da lunghe discese infere (Un posto di vacanza). Scorrendo i titoli delle quattro sillogi sereniane si comprende questo progressivo indice di autoanalisi che va dalla frontiera dell’io alle puntute memorie diaristiche, dalla personalizzazione vivificante degli strumenti (oggetti di un’umanità desunta dal proprio imprevedibile passaggio epifanico) al barbugliare della stella variabile, emblema di un lucore apparente e mutabile nel tempo. Il cuore della poetica di Sereni — non esente da walseriane sirene uditive (Vaucluse, Luino-Luvinum) e martellanti iterazioni — risiede davvero in tale dislivello di conoscenza della caducità («non dire che la vita è carbonizzazione o divorzio», Lavori in corso) e flebile speranza d’altrove. Continua a leggere

La poeta gallese Gwyneth Lewis

Gwyneth Lewis

da Impronte, poesia gallese contemporanea, cura e traduzione di Giorgia Sensi, prefazione di Patrick McGuinness, Mobydick, 2007

A Poet’s Confession

“I did it. I killed my mother tongue.
I shouldn’t have left her
there on her own.
All I wanted was a bit of fun
with another body
but now that she’s gone –
it’s a terrible silence.

She was highly strung,
quite possibly jealous.
After all, I’m young
and she, the beauty,
had become a crone
despite all the surgery.

Could I have saved her?
made her feel at home?
Without her reproaches,
I feel so numb,
not free, as I’d thought…

Tell my lawyer to come.
Until he’s with me,
I’m keeping mum.”

Confessione di poeta

“L’ho fatto. Ho ucciso la mia lingua materna.
Non avrei dovuto lasciarla
là da sola.
Volevo solo divertirmi
con qualcun altro
ma ora che non c’è più –
è orribile il silenzio.

Era molto nervosa,
probabilmente gelosa.
Dopo tutto, io sono giovane
e lei, la bella,
era diventata una vecchia befana,
in barba ai ritocchi.

Avrei potuto salvarla?
metterla a suo agio?
Senza i suoi rimbrotti,
mi sento paralizzata,
non libera, come credevo…

Dite al mio avvocato di venire.
Finché non sarà qui, terrò
acqua in bocca.” Continua a leggere

Il poeta cileno Raúl Zurita

Raúl Zurita

Torturati

Niente non si sente niente se urlavano i torturati
dell’Unità 420 sotto il crepuscolo insanguinato nudi
tremando

Davanti ai moli che sembrano fluttuare nella sanguinante
aurora davanti alle stesse smantellate navi della baia
davanti allo stesso ferro di cavallo insanguinato
dell’oceano

Dove esistono solamente alcuni moli diroccati
e in fondo gli stessi detriti le stesse squadre
ammuffite gli stessi torturati nudi è che volevamo
sentirti dirigere le grandi mareggiate del Pacifico
dicevano quelli dell’Unità 420 a Ludwig Van Beethoven
che galleggiava allontanandosi immedesimato
estraneo verso la parte più inconfessabile del tramonto

(Traduzione di Alberto Marsala)

Torturados

Nada no se escucha nada se gritaban los torturados
de la Unidad 420 debajo del ensangrentado crepúsculo
desnudos temblando

Frente a los muelles que parecen flotar en la sangrante
aurora frente a los mismos desmantelados barcos de
la bahía frente a la misma herradura ensangrentada
del océano

Donde lo único que existe son unos derruidos molos y
al fondo los mismos escombros las mismas mohosas
escuadras los mismos torturados desnudos Es que
queríamos oírlo dirigir las grandes marejadas del
Pacífico le decían los de la Unidad 420 a Ludwig Van
Beethoven que flotaba alejándose ensimismado
extraño por la parte más inconfesable del atardecer

 

Continua a leggere

Jackie Kay, “L’adozione”

Jackie Kay

A cura di Giorgia Sensi

Il tema del poemetto di Jackie Kay è autobiografico. Qui l’autrice rivive la sua esperienza attraverso una sequenza di monologhi intrecciati le cui voci principali sono quelle della madre naturale, della madre adottiva e della figlia di entrambe.

Ne L’adozione le tre voci sono distinte tipograficamente:
Figlia: corsivo
Madre adottiva: tondo
Madre naturale: grassetto

_______

I always wanted to give birth
do that incredible natural thing
that women do – I nearly broke down
when I heard I couldn’t,
and then my man said
well there’s always adoption
(we didn’t have test tubes and the rest then)
even in the earlysixties thre was
something scandalous about adopting,
telling the world your secret failure
bringing up an alien child,
who knew what it would turn out to be

I was pulled out with forceps
left a gash down my left cheek
four months inside a glass cot
but she came faithful
from Glasgow to Edinburgh
and peered through the glass
I must have felt somebody willing me to survive;
she would not pick another baby

I still have the baby photograph
I keep it in my bottom drawer

She is twenty-six today
my hair is grey

The skin around my neck is wrinkling
does she imagine me this way

Ho sempre voluto mettere al mondo un figlio
fare quella cosa naturale incredibile
che fanno le donne – ebbi quasi una crisi di nervi
quando seppi che non potevamo,
e allora il mio compagno disse
beh, c’è sempre l’adozione
(allora non c’erano bambini in provetta e tutto il resto)
persino nei primi anni Sessanta c’era
qualcosa di scandaloso nell’adozione,
dichiarare al mondo la tua segreta inadeguatezza
crescere il figlio di un altro,
chissà cosa sarebbe diventato

Fui estratta col forcipe
mi lasciò uno squarcio alla guancia sinistra
quatto mesi in un’incubatrice
ma lei venne regolarmente
da Glasgow a Edimburgo
e mi scrutava attraverso il verso
devo aver sentito una volontà che mi diceva di vivere;
non voleva saperne di un altro neonato

Ho ancora la fotografia della bambina
la tengo nell’ultimo cassetto

Oggi lei ha ventisei anni
io i capelli grigi

Il collo comincia as avvizzire
chissà se mi immagina così Continua a leggere

Jorge Luis Borges (1889 – 1986)

Jorge Luis Borges

El desierto

Antes de entrar en el desierto
los soldados bebieron largamente el agua de la cisterna.
Hierocles derramó en la tierra
el agua de su cántaro y dijo:
Si hemos de entrar en el desierto,
ya estoy en el desierto.
Si la sed va a abrasarme,
que ya me abrase.
Ésta es una parábola.
Antes de hundirme en el infierno
los lictores del dios me permitieron que mirara una rosa.
Esa rosa es ahora mi tormento
en el oscuro reino.
A un hombre lo dejó una mujer.
Resolvieron mentir un último encuentro.
El hombre dijo:
Si debo entrar en la soledad
ya estoy solo.
Si la sed va a abrasarme,
que ya me abrase.
Ésta es otra parábola.
Nadie en la tierra
tiene el valor de ser aquel hombre. Continua a leggere