Vincenzo Fano, “Dobbiamo ripensare il posto dell’uomo nell’albero della vita”

Vincenzo Fano

MODELLI MATEMATICI E COMPORTAMENTI UMANI

L’epidemia che stiamo vivendo ha portato alla ribalta i numeri, come ha notato Michela Murgia, scrittrice e dottore di ricerca in matematica. Ci sono in effetti modelli matematici abbastanza semplici che spiegano l’andamento del contagio. Tuttavia essi non sono in grado di predire quello che accadrà, se non nel breve periodo. Questo perché l’andamento dell’infezione dipende in modo sostanziale dai comportamenti umani. Dobbiamo quindi integrare i modelli matematici con fattori che tengano conto di ciò che fanno le persone. E questo è molto difficile, ma non del tutto impossibile. L’epidemiologia comportamentale, se così possiamo chiamarla, ha già ottenuto interessanti risultati nel caso dell’esitazione vaccinale. Oggi per la prima volta dobbiamo mettere a punto qualcosa di simile riguardo alla diffusione del virus e al rispetto da parte dei cittadini del distanziamento fisico.

SCIENZA E AUTORITA’ AI TEMPI DELL’EPIDEMIA

Per un attimo, lasciamo perdere le fake news, che circolano a tonnellate in questi drammatici mesi. Consideriamo, invece, opinionisti di grido o compagni dei social che, riguardo a una delicata questione di policy sanitaria, che dipende dal possesso di informazioni abbastanza certe sul comportamento del virus, per difendere la loro opinione, affermano: “Ma lo ha detto Pinco Pallino, noto virologo!” Continua a leggere

Stefano Raimondi, “Tremare”

Stefano Raimondi

di

Stefano Raimondi 

 

Eppure mi ero svegliato presto. Il sole aveva ancora il sapore dello zucchero filato appena fatto. Niente si muoveva smodatamente. Tutto aveva ancora un contorno pulito.  Lavandomi il viso sapevo che tutto era nel sogno: quello che avevo vissuto, quello che avevo visto. Un paese di invisibili viveva invisibilmente quello che dall’invisibile era stato colpito. Uno strano corpuscolo puntiforme stava attaccato ai respiri degli umani e quando colpiva qualcuno, faceva sparire la visibilità al malcapitato oltre che il fiato. Tutto diventava affannatamente pesante e tutto era come dentro una faticosa corsa. Nessuno più né si vedeva, né si riconosceva. Si camminava invisibili come si poteva nel tentativo disperato di farsi vedere. Ma più nessuno sapeva come ritrovarsi! Restavano le case a proteggere l’Invisibilità di ognuno. Lì ci si proteggeva dal fuori, dagli sguardi vogliosi di vedersi e repressi nel non riuscirci più. Le strade si sbendavano veloci tra le luci e per qualche ora sembravano aprirsi a qualcosa che sarebbe comparso. Ma poi ritornavano a raggomitolarsi nei cassetti e le città sbattevano ripetutamente le ante delle credenze, le assi delle loro bare di luce. Ogni mattina era un tentativo per ognuno: ognuno cercava disperatamente di farsi vedere. Ogni ricominciare nei giorni era una manovra per rendersi visibili e avvicinabili. Ma le distanze erano peggio delle menzogne. Tutti sospettavano, tutti presumevano, tutti iniziavano a non credere più a nessuno. Ma quello strano corpuscolo puntiforme teneva tutti ben nascosti nelle loro invisibilità ed oltre tutto, si era subito e arditamente dimostrato molto contagioso. Chi riusciva a farsi vedere forse diventava immune, ma anche questa era forse una bugia. Ma la questione era proprio quella: riuscire a farsi vedere senza fare paura. Continua a leggere

Tommaso Di Dio, “Il silenzio, l’assedio”

Tommaso Di Dio

DI TOMMASO DI DIO

Una qualità di silenzio unica, inaudita. Milano, come tante altre città d’Italia e del mondo, è stata fagocitata per alcuni mesi da uno stato di sospensione e apnea. È come se tutta la città e i suoi cittadini avessero smesso di respirare. La città è stata sommersa da un liquido invisibile: aveva il peso del piombo ma era come trasparente, un etere oscuro che, anche di notte, si adagiava come una pellicola sulle facciate delle case, dalle cui finestre rilucevano a centinaia le stanze dove erano intrappolate in una luce d’acquario cose affetti persone.

Mi è davvero difficile spiegare a parole quanto quel silenzio sia stato profondo, sconvolto. Confido che chi qui mi sta leggendo ne abbia una qualche esperienza. In queste settimane ho provato più volte ad ascoltarlo, a dirlo a me stesso, a pensarlo; ma niente, qualcosa sfuggiva, restava inerme al di là dello sguardo. Nella città dove vivo, anche a tarda notte, d’estate, se si tace e si ascolta a finestra aperta, di solito è possibile sentire il grande ronzio delle circonvallazioni, dove operai, automezzi, centraline, termovalorizzatori e ventole, continuano il proprio moto senza mai fermarsi. È il grande boato della città, il rumore bianco del suo sangue in circolo per le strade e le arterie nel suo corpo gigante, che si allarga fino ai confini della Lombardia, con i suoi 10 milioni di abitanti, immerso e connesso dalle sue macchine e strumentazioni, da cui la vita umana occidentale non può più prescindere. Nei mesi feroci della pandemia, gran parte del movimento di questi corpi pesanti è stato abolito; è rimasto invece lo spettrale movimento della luce e delle radiotrasmissioni: la luce che scorreva inesausta per le fibra sotterranea, entrava in ogni palazzo, risaliva i muri, pulsava, mentre il campo del 4G avvolgeva ogni nodo, ogni singolo device alla rete internet mondiale. Il silenzio di questi mesi, infatti, la sua particolare densità, non è stato causato dalla semplice assenza dei motori; è stato tutt’altro dal silenzio che si avverte quando si è dentro un bosco, in mezzo al mare, sulla cima di una montagna. Quello che abbiamo provato è stata invece l’ostinata presenza, finalmente resa palpabile dal diradarsi dei corpi visibili, del moto infinito dei dati che illuminano i nostri schermi. Quel silenzio erano onde, vaste, continue, pulsanti, di informazioni, paranoie, dolori, terrori, paure, speranze, cazzeggio, notizie, faccine. Tutto ciò che agitava il pensiero degli umani, ogni loro spostamento emotivo, era impercettibilmente tradotto in questo scroscio ondulare, frenetico, isterico che finalmente occupava, da solo, lo spazio della terra. Umano e macchinico insieme, ho sentito per la prima volta con la più grande forza questo respiro che è letteralmente l’indescrivibile contemporaneo, il suo sostrato materiale, il fondo brulicante di ogni nostro discorso. A volte, mi affacciavo dalla finestra, guardavo la strada, guardavo le altre finestre; cercavo di cogliere i minimi movimenti della gente, cercavo di sentire cosa si dicevano, cosa provavano dietro le tende, dietro i portoni, cosa si agitava all’interno di quegli spazi chiusi e sigillati e potevo vedere, con una chiarezza mai prima avuta, il fascio di dati che trasudavano e, rivolta contro quegli stessi corpi, a distruggerli, a farli scomparire in un fuoco interno, l’assedio di una forza centripeta, che poteva essere ovunque, che dilagava, che si espandeva. Continua a leggere