Commentando Franco Loi

 

Franco Loi

di Valerio Magrelli

 

In queste giornate orrende, infestate di morte e di malattia, di problemi economici, anzi, per meglio dire (per peggio dire), minacciate di morte, di malattia, di problemi economici, voglio alzare la testa per un istante, per un istante almeno, e ricordare un uomo, un amico, un poeta: Franco Loi.

Per farlo, disgustato come sono, sebbene privilegiato (non voglio nemmeno immaginare come stiano gli altri), mi appoggerò a un suo testo, come a un bastone (perché in effetti zoppico da anni), per lasciarmi sorreggere dai suoi versi, così. La poesia è questa, in dialetto, ovviamente:

 

Me piasaríss de mí desmentegâss,
e camenà, e respirà per tí,
vèss cume i fjö che quand je branca el sû
se làssen sumenà due el vör lü,
e mai truâss, e pü capí de mí,
ma vèss giuius de l’aria che me tira
due che la vita la se pensa vîv.

 

Ecco la sua versione in italiano:

 

Mi piacerebbe di me dimenticarmi,
e camminare, e respirare per te,
essere come i ragazzi che quando li prende il sole
si lasciano seminare dove lui vuole,
e mai ritrovarsi, e non più capire di me stesso,
ma essere gioioso dell’aria che mi attira
là dove la vita si pensa vivere.

 

Digiuno come sono di milanese, proverò a commentarla in traduzione:

 

“Mi piacerebbe di me dimenticarmi”. Che meraviglia, e che invidia! Che sollievo e che sospiro di sollievo potersi dimenticare di se stessi, di questa pietra al collo che l’io è per l’io stesso (mi viene da pensare a Ripellino, “Volare via da me stesso / come un uccello migratore”… Ma voglio adesso concentrarmi su Loi);
“e camminare, e respirare per te,”. Liberarsi da se stessi per incontrare l’altro, per guardarlo in faccia, come insegna a fare Emmanuel Levinas con il concetto di essere-per-l’altro, essere ostaggio dell’altro;
“essere come i ragazzi che quando li prende il sole / si lasciano seminare dove lui vuole,”. Ragazzi seminati dal sole, anzi: “sumenà due el vör lü”. Basterebbe un verbo del genere a salvare questa poesia, un verbo che cresce e spiga come uno stelo.
“e mai ritrovarsi, e non più capire di me stesso,”. Staccarsi dall’atroce pronome “io” di cui parlava anche Gadda. Staccarsi dal “promontorio dell’io” (e qui mi viene in mente di Victor Hugo). Smettere di capirsi, staccare la spina di quella meta-coscienza che ci condanna a un perpetua auto-visione (Ancora: Pirandello: Fortuna d’esser cavallo). Continua a leggere

Per Franco Loi

Franco Loi

 

Franco Loi, che d’amis l’has fosonà
përché l’has mai stantà a slarghé ij brass
spantjand ën poisìa l’àut e ‘l bass
che sempe stàit a son drinta toa ca.

Col’Angel che dandrin a l’ha detate
l’has ëscotalo sempe come ‘n frel
e con le toe paròle fòrte e mate
ën mond a tuj l’has dane largh e bel.

E or che la toa anima l’é là
a-i resta la soa stampa sì con noi
e a l’é parej che noi soma nen soj.

Toa euvra a l’é për noi toa ardità
ma chila pì che ti as consigna al temp
se con tò nòm a resistrà për semp.

Traduzione

Franco Loi, che di amici ne hai avuti tanti/ perché non hai mai stentato ad allargare le braccia/ spargendo in poesia l’alto e il basso/ che sempre sono stati dentro la tua casa.// Quell’Angelo che dentro ti ha dettato/ lo hai sempre ascoltato come un fratello/ e con le tue parole forti e matte/ un mondo a tutti ci hai dato largo e bello.// E ora che la tua anima è là/ resta la sua orma qui con noi/ ed è così che noi non siamo soli.// La tua opera è per noi la tua eredità/ ma lei più di te si consegna al tempo/ se con il tuo nome resisterà per sempre.

Giovanni Tesio Continua a leggere

Addio al grande poeta Franco Loi

Franco Loi, American Academy in Roma, 3 maggio 2012/ Credits ph. Luigia Sorrentino

NOTA DI FABRIZIO FANTONI

Si è spento il 4 gennaio 2021, all’età di novant’anni, Franco Loi, uno dei più grandi poeti del novecento.
Solo pochi mesi fa, se n’era andata la moglie, Silvana Loi, appassionata studiosa di arte e letteratura e vera compagna del poeta.
Franco Loi era nato a Genova nel 1930, da padre cagliaritano e madre emiliana, ma vissuto fin da piccolo a Milano – dove si trasferisce all’età di sette anni- approda alla poesia a quarantatré anni, nel 1973 con la raccolta I Cart alla quale seguono Poesie d’amore (1974), Stròlegh (1975) e Teater (1978), L’angel (1981), L’Aria (1981), Lunn (1982), Bach (1986) e molte altre.

Sin dalle prime prove la poesia di Loi è segnalata dall’uso di un inventivo dialetto milanese di periferia, che trova la sua origine in una commistione tra la parlata proletaria e quella degli immigrati dalla campagna, spesso mescolata con elementi tratti da altri dialetti e lingue straniere.

Il dialetto di Loi non è il frutto di una semplice regressione “materna “ alle origini, ma qualcosa di molto più profondo e densamente emotivo: è – come scrive lo stesso Loi “la lingua di ciò che tace dentro di noi e che si rispecchia nell’infinito, la lingua delle nostre divine incoscienze”.

Lingua, dunque, di elezione e di storia che si fa espressione di una scelta di classe socialmente impegnata.
Scrive giustamente Mengaldo “. Rifiutando, con voluto e minaccioso anacronismo, ogni mediazione e orizzonte borghese, Loi si concentra tutto nella rappresentazione di un mondo popolare che, giusta l’inevitabile tristezza storica che intride gli ideali del poeta, ha i toni stridenti e sinistri della disperazione senza via d’uscita, sulla linea della più nera letteratura popolare dell’Ottocento e del primo Novecento…”.

Da Stròlegh

II

E dansi, furli,
e ’n’ambra glissetera m’involg,
la sbiava, la m’unda tra i cȃ sbiess,
che ‘l cör ciuscatt par brascia ’n’üseléra
d’aria bibiana e de smiròld beless…
Bel zéfir,brisa,
galȗpp d’un Casurett!
Tra mí e i mund franguell gh’era ’n strighèss
ch’i bej revèrber e i tumbin secrett
me curr incuntra, e fan festa, e i stell
legriusen ’n’alamanda ai grund che scend,
e mí, l’è ’nfiur, un ciall, un va de firisèll
al durbià del timid che nel venter
se tegn scundü ’me se tegn l’üsèll…
Grí San Maternu,
Bianca Maria de semper,
mia edicula, scirossa di cantun,
pulver di òmm che passa e par che stemper
s’inultra al dí luntan che vegn lirun,
sfrûs sass di strȃd, umbrius tumbin che ria,
aria de Casurett, scür trani siún,
uh sí, ve tucchi, sí, ve parlaría,
ma quanti vus, quanti respir al vent!
e ’sta manfrina de la fantasia
che per la piassa dansa sciabelent…
E al spiöv di lüs lampiun
saltrella e slisa el furbol di record,
traversa el vent.

E danzo, furlo,
e un’ambra profumata e fuggitiva
mi avvolge, fa impallidire e sbiadisce gli oggetti,
mi trascina come un’onda tra le case sbilenche,
che il cuore che vuole ubriacarsi sembra abbracciare un’uccelliera
di un’aria interminabile e fresca e pregna di balenanti bellezze…
Bel vento di ponente, brezza, ragazzo vagabondo di un Casoretto!
Tra me e i mondi fringuellanti c’era un intrico di sortilegi
che i bei riverberi e le fogne segrete
mi corrono incontro, e fanno festa, e le stelle
improvvisano l’allegria di un ballo allemando alle grondaie che scendono,
e io mi sento un fiore in un giardino di fiori, un chiaccherare,
un andare come sorsate di vino chiarello frizzo
allo svolgersi dubitoso della più intima timidezza che nel ventre
si tiene nel buio nascosta come si tiene l’uccello…
Capriccioso-fantastico San Materno,
chiesa di Santa Maria Bianca di sempre,
mia edicola della giornata, turbine di polvere agli angoli delle strade,
polvere degli uomini che passano e sembra che stemperata in aria
s’inoltri verso il giorno lontano che viene pigramente,
furtivi sassi delle strade, ombrose condutture che scorrono,
aria di Casoretto, buie osterie da succhiavinacci,
oh sí, vi tocco, sí, parlerei con voi,
ma quante voci diverse, quanti respiri porta il vento!
e questa danza monferrina della fantasia
che per la piazza balla a gambe sciabolanti…
E, allo spiovere delle luci dai lucenti lampioni
schizza e saltella e rade la strada il gioco del pallone dei ricordi,
l’attraversa il vento.
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Vittorio Sereni, poesie

Vittorio Sereni

In me il tuo ricordo
da Frontiera

In me il tuo ricordo è un fruscìo
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l’altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull’estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d’anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera.

Dimitrios
da Diario d’Algeria

Alla tenda s’accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi sorprende,
d’uccello tenue strido
sul vetro del meriggio.
Non torce la bocca pura
la grazia che chiede pane,
non si vela di pianto
lo sguardo che fame e paura
stempera nel cielo d’infanzia.

È già lontano,
arguto mulinello
che s’annulla nell’afa,
Dimitrios, su lande avare
appena credibile, appena
vivo sussulto
di me, della mia vita
esitante sul mare.

Intervista a un suicida
da Gli strumenti umani

Intervista a un suicida
da Gli strumenti umani

L’anima, quello che diciamo l’anima e non è
che una fitta di rimorso,
lenta deplorazione sull’ombra dell’addio
mi rimbrottò dall’argine.

Ero, come sempre, in ritardo
e il funerale a mezza strada, la sua furia
nera ben dentro il cuore del paese.
Il posto: quello, non cambiato – con memoria
di grilli e rane, di acquitrino e selva
di campane sfatte -­
ora in polvere, in secco fango, ricettacolo
di spettri di treni in manovra
il pubblico macello discosto dal paese
di quel tanto…

In che rapporto con l’eterno?
Mi volsi per chiederlo alla detta anima, cosiddetta.
Immobile, uniforme
rispose per lei (per me) una siepe di fuoco
crepitante lieve, come di vetro liquido

indolore con dolore.
Gettai nel riverbero il mio perché l’hai fatto?
Ma non svettarono voci lingueggianti in fiamma,
non la storia d’un uomo:
simulacri,
e nemmeno, figure della vita.

La porta
carraia, e là di colpo nasce la cosa atroce,
la carretta degli arsi da lanciafiamme…
rinvenni, pare, anni dopo nel grigiore di qui
tra cassette di gerani, polvere o fango
dove tutto sbiadiva, anche
– potrei giurarlo, sorrideva nel fuoco –
anche… e parlando ornato:
«mia donna venne a me di Val di Pado»
sicché (non quaglia con me – ripetendomi –
non quagliano acque lacustri e commoventi pioppi

non papaveri e fiori di brughiera)
ebbi un cane, anche troppo mi ci ero affezionato,
tanto da distinguere tra i colpi del qui vicino mattatoio
il colpo che me lo aveva finito.
In quanto all’ammanco di cui facevano discorsi
sul sasso o altrove puoi scriverlo, come vuoi:

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Charlotte Mew (1869 – 1928)

Charlotte Mew

Thomas Hardy l’ha chiamata “the best living woman poet”; Ezra Pound ha apprezzato la sua poesia, eppure dopo la morte, avvenuta nel 1928, Charlotte Mew scomparve quasi del tutto dalla scena letteraria. Fu solo negli anni sessanta che si ricominciò a parlare di lei come poeta originale e di indubbio valore. Nonostante quei primi tentativi di renderle giustizia; nonostante i suoi Collected Poems and Selected Prose siano stati ripubblicati nel 1981 da Carcanet e nel 1982 da Virago; nonostante una nuova edizione di Collected Poems curata da John Newton sia stata pubblicata da Penguin nel 2001, e la scrittrice Penelope Fitzgerald ne abbia scritto un’avvincente biografia in Charlotte Mew and Her Friends (Harvill, 1984), la sua fama è ancora legata a un filo.
Una perfetta candidata all’oblio, come la chiama Ian Hamilton nella bella antologia Against Oblivion pubblicata da Viking nel 2002, dedicata a quei poeti che, a suo giudizio, rischiano ingiustamente di essere dimenticati.

Giorgia Sensi

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da The Farmer’s Bride, 1916

The Farmer’s Bride

Three Summers since I chose a maid,
Too young maybe – but more’s to do
At harvest-time than bide and woo.
When us was wed she turned afraid
Of love and me and all things human;
Like the shut of a winter’s day
Her smile went out, and ’twasn’t a woman –
More like a little frightened fay.
One night, in the Fall, she runned away.

“Out ’mong the sheep, her be,” they said,
“Should properly have been abed.”
But sure enough she wasn’t there
Lying awake with her wide brown stare.
So over seven-acre field and up-along across the down
We chased her, flying like a hare
Before our lanterns. To Church-Town
All in a shiver and a scare
We caught her, fetched her home at last
And turned the key upon her, fast.

She does the work about the house
As well as most, but like a mouse:
Happy enough to chat and play
With birds and rabbits and such as they,
So long as men-folk keep away.
“Not near, not near!” her eyes beseech
When one of us comes within reach.
The women say that beasts in stall
Look round like children at her call.
I’ve hardly heard her speak at all.

Shy as a leveret, swift as he,
Straight and slight as a young larch tree,
Sweet as the first wild violets, she,
To her wild self. But what to me?

The short days shorten and the oaks are brown,
The blue smoke rises to the low grey sky,
One leaf in the still air falls slowly down,
A magpie spotted feathers lie
On the black earth spread white with rime,
The berries redden up to Christmas-time.
What’s Christmas-time without there be
Some other in the house than we!

She sleeps up in the attic there
Alone, poor maid. ’Tis but a stair
Betwixt us. Oh! my God! the down
The soft young down of her, the brown,
The brown of her – her eyes, her hair, her hair!

La sposa del contadino

Tre estati da che scelsi una fanciulla,
Troppo giovane forse – ma c’è ben altro da fare
Al tempo del raccolto che attendere e corteggiare.
Dopo le nozze lei ebbe paura
Dell’amore e di me e di tutte le cose umane;
Come il rinchiudersi di un giorno d’inverno
Il suo sorriso svanì, e più che una donna
Parea uno spiritello spaurito.
Una sera d’autunno fuggì.

“Sarà laggiù tra le pecore,” dissero,
“Sarebbe giusto fosse nel suo letto.”
Ma per certo là lei non c’era
Sveglia, i grandi occhi castani spalancati.
Così per una distanza di sette acri e su e giù per la collina
La inseguimmo, svelta come una lepre
Davanti alle nostre lanterne. A Churchtown
Scossa da tremiti e spavento
La prendemmo, a casa infine la portammo
E a doppia mandata fu rinchiusa.

Alla casa sa ben badare
Come quasi tutte, ma lei pare un topolino:
Felice di chiacchierare e giocare
Con uccellini e conigli e altre creature,
Purché gli uomini stiano alla larga.
“Non vicino, non vicino!” implorano i suoi occhi
Quando uno di noi le si avvicina.
Le donne dicono che le bestie nella stalla
Si voltano come bambini al suo richiamo.
Io a malapena ne ho sentito la voce.

Timida come un leprotto, altrettanto veloce,
Dritta e sottile come un giovane larice,
Dolce come le prime violette selvatiche è lei,
Creatura selvatica. Ma cos’è per me?

Le corte giornate si accorciano e le querce si fanno scure,
Un fumo azzurrognolo sale verso il cielo basso, grigio,
Una foglia cade lenta nell’aria ferma,
Le piume maculate di una gazza si posano
Sulla terra nera imbiancata di brina,
Le bacche verso Natale si fanno rosse.
Che cos’è il Natale senza qualcun altro
In casa oltre a noi?

Lei dorme lassù nell’attico
Sola, povera fanciulla. C’è solo una scala
Tra noi. Oh, mio Dio! la peluria
La sua tenera giovane peluria, il castano
Il suo colore castano – gli occhi, i capelli, i capelli! Continua a leggere