Alessandra Paradisi, “Pardes”

Alessandra Paradisi

Yin e Yang

Ho cercato il verso
e il riverso del cuore
la nota dominante
e la terza minore.
L’accordo della vita
su tasti bianchi e neri
perdendo con gli opposti
le certezze di ieri.

***

Alice delle Meraviglie
(Attraverso lo specchio)

Va tutto alla rovescia
è facile scambiare
l’archetipo del testo
la vita da giocare.
Il gesto di riflesso
ad opposto andare
d’azzardo nello specchio
per le perdute scale.

***

Il principio di indeterminazione

Nessuno può
toccare il mio dolore:
se gli stai dietro
non lo puoi guardare
e se lo guardi
non sai dove cercare.
Nessuno può
toccare il mio dolore:
sprofonda negli abissi
e sale fra le stelle
viaggia per galassie
e ritorna nelle particelle.
Nessuno può
toccare il mio dolore:
deride il tempo
per enne dimensioni
e alla materia
toglie la ragione.

***

Resta tersa tra sera e seta

Vorrei scriverti ora
di ogni minuto
che ho tenuto stretto
di ogni sorriso
smarrito nel da farsi
di ogni parola
rimasta nel pensiero
di ogni timore
e tutte le speranze.
Ma sciupare il silenzio
non sarebbe garbato
e il tuo vestito
è così elegante. Continua a leggere

Quasimodo, l’essenzialità della poesia

Salvatore Quasimodo

VENTO A TINDARI

Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima.

A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

Vento a Tindari compare nella prima raccolta poetica di Salvatore Quasimodo, Acque e terre (1920-1929).

***

ED E’ SUBITO SERA

Ognuno è solo sul cuore della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Da : Ed è subito sera (1942)

***

LETTERA ALLA MADRE

«Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» – Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. –
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater.»

Da: La vita non è sogno (1949) Continua a leggere

Addio a Francesco Scarabicchi

Francesco Scarabicchi, ph Ansa

Non somigliarmi,
non avere, con me, niente in comune,
lascia che sia, ogni volta,
l’imprecisa dolcezza di un saluto
a condurre i tuoi passi
e quel tremore trepido che guarda
il niente per cui è dato consegnarsi.

*

Porto in salvo dal freddo le parole,
curo l’ombra dell’erba, la coltivo
alla luce notturna delle aiuole,
custodisco la casa dove vivo,
dico piano il tuo nome, lo conservo
per l’inverno che viene, come un lume.

*

«Così dunque si muore
tra bisbigli
che non sai afferrare».

*

«E dopo?
Dopo semplicemente,
la vana solitudine del sogno».

*

«Viene
l’aria dell’anno
dal giardino:

cosa avrà in serbo
il giovane gennaio
col suo gelo?»

da “Il prato bianco”, Einaudi, 2017

Continua a leggere

La poesia di Arsenij Tarkovskij

Arsenij Tarkovskij

Altre ombre che m’appaiono,
altra la miseria che canta per me:
il legatore ha dimenticato lo zigrino
e il tintore non tinge le tele;

la musica del fabbro, contata
in tre quarti, a tre martelletti,
non si svelerà oltre la svolta
prima d’uscire dalla città;

ai suoi crochet la merlettaia
non si siede alla finestra dal mattino,
e lo stagnino, uccello zingaresco,
non fa fumo con l’acido al fuoco;

l’orafo ha gettato il suo martelletto,
è finito il filo d’oro.
Osservare il morire dei mestieri
è come sotterrare se stessi.

E di già la lira elettronica,
di nascosto dai suoi programmisti,
compone versi di Kantemir
per finire con un proprio verso.

*

Studio su un libro di pietra il linguaggio dell’eterno,
scivolo tra due macine come un chicco di grano nel rotare delle pietre,
sono per intero già immerso nello spazio a due dimensioni,
il mulino della vita e della morte m’ha spezzato la spina dorsale.

Cosa fare, o pastorale d’Isaia, della tua rettitudine?
La pellicola senza tempo, né alto, né basso, è più fine d’un capello.
Nel deserto il popolo si radunava sui massi, e nell’arsura
la pianeta di stuoia da re mi recava sollievo alla pelle.

Arsenij Tarkovskij, due testi tratti da “Stelle tardive”, Giometti&Antonello, 2020, trad. di Giario Zappi Continua a leggere

Una poesia di Juan Vicente Piqueras

Juan Vicente Piqueras

Palme

Nasciamo dalla sete. Siamo palme
che crescono a forza di perdere
i propri rami. I tronchi sono ferite,
cicatrici rimarginate dal vento e dalla luce,
quando il tempo, quello che fa e quello che trascorre,
occupa il cuore e lo trasforma in nido
di perdite, ne erige la sua aspra colonna.

E per questo le palme sono allegre
come coloro che hanno saputo soffrire in solitudine
e ora si cullano nell’aria, spazzano nubi
e dalle loro chiome consegnano
inni alla luce, fonti di fuoco,
ventagli a dio, addio a tutto.
Tremano, testimoni di un miracolo
che conoscono soltanto loro.

Siamo come la sete delle palme
e ogni ferita aperta verso la luce
ci fa sempre più alti, più felici.
Perdite sono i nostri tronchi. È trono
il nostro dolore. Non è bello
soffrire ma bisogna aver sofferto
per sentire, come un intimo nido,
la meraviglia dei sopravissuti
che ringraziano l’aria, e poi scoppiano
per l’alta gioia in mezzo al deserto.

Juan Vicente Piqueras, una peosia da Palme, Empirìa, 2005

Palmeras

Nacemos de la sed. Somos palmeras
que van creciendo a fuerza de perder
sus ramas. Y sus troncos son heridas,
cicatrices que el viento y la luz cierran,
cuando el tiempo, el que hace y el que pasa,
ocupa el corazón y lo hace nido
de pérdidas, erige
en él su templo, su áspera columna.

Por eso las palmeras son alegres
como los que han sabido sufrir en soledad
y se mecen al aire, barren nubes
y entregan en sus copas
salomas a la luz, fuentes de fuego,
abanicos a dios, adiós a todo.
Tiemblan como testigos de un milagro
que sólo ellas conocen.

Somos como la sed de las palmeras,
y cada herida abierta hacia la luz
nos va haciendo más altos, más alegres.
Nuestros troncos son pérdidas. Es trono
nuestro dolor. Es malo
sufrir pero es preciso haber sufrido
para sentir, como un nido en la sangre,
el asombro de los supervivientes
al aire agradecidos y estallar
de alta alegría en medio del desierto.

Juan Vicente Piqueras, una poesia da “Palmeras”, 2007 Continua a leggere