I graffiti su tela di Cy Twombly

Cy Tombly

La seducente “spontaneità pensata” di Cy Twombly

di Marco Amore

Cy Twombly non ha bisogno di presentazioni. L’astrattismo delle sue opere dal sapore apparentemente infantile ha affascinato intere schiere di appassionati di arte contemporanea, rendendolo un artista dallo stile immediatamente riconoscibile tanto dagli operatori di settore che dal grande pubblico del circuito mainstream. Graffiti su tela grezza e lino, vivide sfumature e screziature, fioriture estatiche che si alternano e si amalgamano a grafemi illeggibili e grondanti macchie di colore, dando origine a stratificazioni di senso che coniugano il piacere estetico all’intellettualità del classicismo, senza tuttavia scadere in inutili complessità concettuali. L’opera di Twombly ricorda la produzione di un bambino alle prime armi con il disegno: campionature della prima infanzia che urlano un forte cromatismo, tocchi di colore che sporcano la superficie, colano dove parole asemiche, segni graffiati, tornano alla genesi dell’elemento grafico anche quando pretendono di svelare l’indicibile impulso primordiale attraverso l’impiego di scarabocchi espressionisti.

Un lavoro di una complessità inaudita, perché costringe a spogliarsi degli schemi mentali acquisiti, a disimparare le regole del figurativo apprese in anni di istruzione obbligatoria, per tacere della preparazione accademica, avvenuta in lunghi e prolifici anni in cui Twombly viene in contatto, tra gli altri, con un maestro dell’informale come Franz Kline (1910-1962), per abbandonarsi a una spontaneità pensata, profondamente meditata, eppure non per questo meno spontanea, quella che a suo tempo il critico d’arte Gillo Dorfles definì «precisione dell’impreciso». Ammirando le opere di Twombly, come la tela esposta alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, Roma (Il muro) [1962, olio, smalti, graffiti e carboncino su tela], non a caso posizionata di fronte a una seduta atta alla contemplazione per i visitatori, non può sfuggire il parallelo con il testo del fanciullino pascoliano: quella natura irrazionale e intuitiva che si nasconde dentro di noi per condurci alle verità basilari del vivere, che è impossibile imbrigliare in schemi mentali rigidi, assetti di pensiero acquisiti che condizionano i nostri processi cognitivi, impedendo una vera libertà di espressione che né Twombly né il poeta decadente avevano tentato di spezzare attraverso modalità di pensiero divergenti, quanto piuttosto nell’unico modo funzionale e possibile, ovvero ricorrendo a una sorta di kènosis laica, una totale spoliazione dell’Io dall’esperienza esistenziale.

Cy Tombly

«Ogni linea», dice Twombly, «è la sensazione della sua stessa realizzazione», e seguendo le variopinte tracce indelebili che si rincorrono sul bianco/nero di una mente libera tanto da convinzioni che da convenzioni, appare chiaro che non sbocciano da un profondo ripensamento del vissuto, né da una sua interpretazione; che l’interiorità di chi le ha abbozzate ha un’importanza solo marginale, tanto quanto la sua personalità: sono l’espressione del loro stesso apparire, senza orpelli né virtuosismi egotistici, con tutta l’energia che riescono involontariamente a trasmettere indefessamente a chi le guarda. Eppure con l’informalità processuale di questo modus operandi, figlio di una tradizione tipicamente americana, intravista nell’iterazione simbolica di elementi propri dell’espressionismo astratto, convive il desiderio di ispirarsi all’area mediterranea e alla sua storia, all’origine del mito greco e latino, oltre a un incessante bisogno di liricità. Stupendi i richiami al simbolico di Mallarmé su sfondi chiari o in alcuni titoli scultorei, il bisogno di solitudine ricercata per abbandonarsi alla creazione, che necessita di uno stato di flusso e di estasi creativa. Continua a leggere

Naufragio con spettatore

Luigia Sorrentino /credits ph. Fabrizio Fantoni

Naufragio con spettatore: Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021.

di Giuseppe Martella

 

Piazzale senza nome segna una svolta nella poesia di Luigia Sorrentino, offrendoci al contempo una spassionata testimonianza della condizione umana e una riflessione in sottotraccia sulla parola poetica, nella sua duplice funzione, inaugurale e testimoniale, nell’attuale tempo del disamore e del disincanto del mondo, del narcisismo e della solitudine di massa ormai giunti a un punto di non ritorno. Il dettato secco, febbrile, verticale procede per affondi e frammenti, scoprendo i vari livelli di lettura possibili e mimando l’esplosione della forma (d’arte e di vita) nell’attuale spazio dei flussi di informazioni, capitali e merci, in questa nostra tarda modernità liquida. Il testo possiede dunque una implicita valenza politica ed ecologica, mettendo in scena in modo solidale il declino dell’autorità e della fiducia, insieme alla sofferenza della madre terra sulla soglia del disastro ambientale.

Questo tema della sofferenza tellurica, è stato peraltro una costante della poesia di Sorrentino da La Nascita, solo la nascita (2009) a Olimpia (2013), richiamandosi al mito cosmogonico di Rea cui lo sposo, Crono, ingoiava i figli lasciandola in uno stato di lutto permanente. Tale mito ci riporta dunque anche alla situazione di tempo fermo, passato che non passa, chiusura d’orizzonte che caratterizza il presente allargato dell’attuale globalizzazione e il “tempo reale” degli scambi su internet, che appare così come la odierna incarnazione della rete di Ananke. Perché la poesia di Sorrentino si è da sempre mossa in uno spazio intermedio fra la cronaca e il mito, solo che ora qui avviene una sorta di ribaltamento gestaltico, sicché il mito recede sullo sfondo mentre la cronaca balza in primo piano. Si tratta di una cronaca scheletrica, a forti tinte e contrasti, in bianco e nero, come fosse una radiografia impietosa delle malattie del nostro tempo.

La dedica al padre e l’epigrafe da Plutarco (“La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio.”) ci offrono dall’inizio le coordinate di lettura del testo, introducendo il suo topos fondante: quello del “naufragio con spettatore”, tratto dalla ben nota immagine lucreziana dell’uomo che da sopra una roccia guarda con distacco e quasi con compiacimento una nave che sta per affondare al largo nei flutti, fungendo da metafora dell’atarassia del saggio epicureo a fronte delle tempeste della vita. La storia di questa metafora ha segnato le varie epoche della letteratura occidentale, assumendo sempre nuove connotazioni, fino al ribaltamento secco che subisce ad opera di Pascal, il quale afferma che ci troviamo tutti sulla stessa nave e che perciò nessuno può chiamarsi fuori dal suo possibile naufragio, sicché occorre accettare l’infinita scommessa della fede e della compassione. Questa storia è stata esplorata egregiamente nel secondo Novecento da Hans Blumenberg, dove però a quanto mi consta non figura la tappa precoce ivi segnata da Plutarco, che assegna, tra i morenti, ai vecchi il ruolo di spettatori e ai giovani quello di naufraghi. Non più dunque il saggio epicureo ma il vecchio navigato riassume la prospettiva teoretica, il ruolo di spettatore (theoros) a fronte dei giovani naufraghi, attori della tragedia dell’esistenza. Si tratta perciò di una declinazione importante di questa figura epocale, che nel nostro testo viene evocata e messa a frutto come seme generativo, a fondamento dell’intera fenomenologia della violenza che ne innerva forme e contenuti.

Un altro topos letterario avito qui richiamato con profitto è quello del “giardino”, hortus conclusus, spazio chiuso e ordinato, contrapposto ai luoghi aperti e anonimi che verranno visitati in seguito. E il padre, in punto di essere seppellito, apparirà infatti alla fine del poema in guisa di Giardiniere, custode dello spazio familiare (Oikos), dell’ordine e della bellezza che fanno scudo all’anomia generale. Il padre morente, figura dell’autorità in dissolvenza, viene però già dall’inizio connotato come “capra sgozzata” (13), evocando così la terza grande figura che presiede all’ordinamento poetico del testo, quella del capro espiatorio su cui si scaricano la violenza e il conflitto delle comunità umane. Questo ruolo di capro espiatorio tocca indifferentemente a vecchi e giovani, così come appare subito nella prima parte in prosa del nostro testo, nell’alternanza di campo e controcampo che caratterizza le loro morti parallele.

Questo testo è infatti un prosimetro dove le sezioni in prosa fungono da vere e proprie sceneggiature preparatorie della drammaturgia in versi che seguirà, ossia da scenari per gli atti di questa tragedia degli anonimi e dei perdenti. Come ci avverte il titolo infatti, quello dell’anonimato è il tema centrale della silloge ed è connesso alla remota possibilità della donazione dei nomi. Funzione squisitamente poetica che si profila man mano nel corso del testo, specialmente a partire dalla lirica intitolata “Nunzia”, “la ragazza dal volto antico” (52) vittima di uno stupro, che reca nel nome la speranza di un annuncio salvifico che andrà di qui in avanti concretizzandosi in figure successive come quella dell’Eroina (martire della droga) dai capelli biondi che ha “ceduto la vita alla gioia”. (61) Sono figure che si possono tutte ricondurre a quella mitica della fanciulla divina (Kore), la cui prima incarnazione è quella di Persefone rapita da Ade e fatta regina degli inferi, mentre la seconda è quella di Euridice che ivi sprofonda nel ben noto mito di Orfeo. Entrambe sono state figure centrali di Olimpia, a conferma della continuità dell’opera di Sorrentino, pure nella svolta netta che assume in Piazzale senza nome. Continua a leggere

Antonio Nazzaro e Eleonora Buselli

“Diario amoroso senza date” è il Fotoromanzo poetico di Antonio Nazzaro e Eleonora Buselli. Il libro entra nel diario intimo di una storia d’amore vera, “esposta”, consegnata alla fotografia professionale di Elisa Vettori, e a quella tipica dei selfie. Due diversi linguaggi si incontrano nella poesia di Antonio Nazzaro, scrittore  nato in Italia ma emigrato in America Latina.  La grafica e l’impaginazione è di Erica Demattè.

 

nell’amore il tempo è altro

***

che labbra avere
per i tuoi  baci d’infinito

***

ho un cuore
buttato al vento dell’amore
lanciato a volo nel precipizio
esploso al fragore di una carezza
spogliato al tuoanre di uno sguardo

ho un cuore
se lo vuoi

***

toglierti il vestito della notte
coprirti lentamente di radici
piegarsi gioioso di danza
rampicante
color cede al piacere

scalzo sale lento
le labbra ansanti parlano mille
lingue
appena inventate

radico in te
un cuore Continua a leggere

Il pensiero occidentale nella poesia di Kikuo Takano

Kikuo Takano, per gentile concessione

“Il senso del cielo” nella poesia di Kikuo Takano

di Mario Famularo

 

 

“Il mio scopo non è di pensare in linea con qualcosa che si fonda sull’intuizione di un’unità tra soggetto e oggetto, ma di considerare l’agire di tutte le cose esistenti come fossero ombre che riflettono il sé in un sé che ha annullato se stesso, una specie di vedere senza un vedente al fondo di tutte le cose.”

(Nishida Kitarō)

 

Sono molti i punti di contatto tra Kikuo Takano (1927-2006) e la scuola di Kyoto, movimento di pensiero sviluppatosi in Giappone lo scorso secolo: in primo luogo, l’aver vissuto le grandi trasformazioni del paese a cavallo del secondo conflitto mondiale; l’essersi confrontati con la cultura e il pensiero occidentale, e in particolar modo con quello di Heidegger; infine, il tentativo di integrare, superandoli, diversi principi della tradizione spirituale, intellettuale ed estetica nipponica attraverso il filtro di un sapere altro, con una particolare attenzione ai tratti distintivi dei due mondi.

Anche i risultati, pur in ambiti differenti come possono essere quelli della filosofia e della poesia, condividono più di un aspetto, che si originano da una riflessione di matrice “religiosa” (zen, in particolar modo) per diventare esistenziale e sociologica.

Nei testi qui proposti di Kikuo Takano, estratti da “Il senso del cielo (Poesie 1955-2006)”, a cura di Renato Minore, Passigli, 2017, la riflessione sulla relazione tra io e altro, sulla sua crisi, si intreccia a quella sull’impermanenza e sulla necessità di dimenticare il sé per accedere alla comprensione dell’altro-da-sé; il desiderio si mostra nella sua natura di origine del dolore, secondo la disciplina delle quattro nobili verità; l’ineluttabilità prende il peso di un predestino, quasi a riecheggiare il proverbio「人事を尽くして天命を待つ」 “jinji wo tsukushite tenmei wo matsu” (“gli uomini fanno ciò che possono e attendono la decisione del cielo”), cielo che è presente anche nel titolo del libro; infine, l’ultimo breve testo sembra concordare con l’idea del conoscere-diventando di Kitarō, che pure deve molto alla spiritualità buddhista e zen in particolar modo.

Già il titolo del primo testo, Sonetto d’autunno, sembra voler accedere a una cultura altra anche solo per la scelta formale: sono versi intrisi di un’afflizione pungente per lo svanire di ciò che è stato e la nostalgia delle cose perdute (“tutti vorrebbero giungere all’autunno … con maggiori profumi di quelli passati … ma non sempre, ahimè, ogni fiore / fa nascere il frutto con lo stesso profumo”), che si estende poi alla “smisurata lontananza” della persona amata. Eppure l’incontrarsi nuovamente “sotto un altro cielo”, all’apice della maturità, non fa che evidenziare il limite dell’essere concentrati sul sé, incapaci di dimenticarsene davvero, “ognuno chiuso / dentro di sé, e con lacerante ferita”.

Il tema continua ad essere approfondito in Baratro: “quando ti ho abbracciato / una seconda volta / era come stringere un baratro … perché … ogni cosa che abbraccio … si trasforma nel mio baratro?”: la sofferenza per non riuscire ad accogliere davvero ciò che è altro dal sé, vivendolo solo come qualcosa in relazione ad esso, fino a paragonarlo all’abisso dove l’io, inevitabilmente, finisce per precipitare dolorosamente e in solitudine, è qualcosa di estremamente vicino alla sensibilità moderna, e non solo giapponese – anzi.

È nello sviluppare questo tema che si avverte la distanza e l’incredibile prossimità del sentire di Takano: all’amica “minacciosa” che chiede “cosa mi daresti?” l’io del testo risponde “ormai da tempo non possiedo / neppure le parole che dico, / l’azione che scelgo. / Cosa potrò darti / di un ‘me’ / così trasformato?”. Qui il  tema dell’anātman, l’illusorietà del sé che non fa che impedire l’accesso alla comprensione del mondo e dei fenomeni, inizia ad insidiarsi con naturalezza, e la conclusione del testo sembra quasi richiamare un mondō zen, un dialogo tra maestro ed allievo, quando l’azione si fa più significativa di qualsiasi risposta verbale, in quel “gesto / con cui indico la falena / che sbatte contro il vetro”. Anche l’immagine della falena, attratta da una luce fatale e costretta ad affannarsi faticosamente e senza alcuna utilità, sembra alludere alle dinamiche relazionali fallimentari dei primi testi, a quella molteplicità di “sé” che, spinti dal desiderio e da una visione accentrata ed egoriferita dell’esistere, si trovano intrappolati in un’afflizione logorante. Continua a leggere

Franco Buffoni, “Betelgeuse e altre poesie scientifiche”

Franco Buffoni

IL NOSTRO ANTENATO PIU’ ANTICO

Sì è la presenza della bocca
E dell’intestino
Ad essenzialmente definirci
Come organismi bilaterali,
E’ l’Ikaria wariootia il nosto
Antenato più antico.
Ritrovato tra i fossili australiani
cinquecento milioni d’anni fa già presentava
Due aperture connesse da un tratto digerente
Il fronte e un retro.
Sono venuti pesci anfibi
Rettili e mammiferi.
Dunque anche noi.
L’Ikaria è un verme.
Noi, forse, un glitch.

ANTIMATERIA IN EXCELSIS

Uno dei misteri della fisica
È capire perché dopo il Big Bang
Sia caduta l’originale simmetria
Tra materia e antimateria,
Perché abbia prevalso la materia
E dove l’antimateria sia finita,
Perché non vediamo le anti-stelle
E le anti-galassie.
Un’esigenza manifesta
Già nel Dante delle simmetrie
E della regolarità,
Neutrini e antineutrini
Come i beati del cielo della Luna
Rispetto a quelli del cielo di Saturno.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE

AI si sa è una sigla
E quando lessi che prossimamente
Si procederà al primo esperimento
D’inserimento nel cervello umano
Di un dispositivo atto a consentire
Una forma di simbiosi,
Restai perplesso.
L’obiettivo, lessi ancora,
È di creare un’interfaccia cerebrale
Facendo in modo che i nostri neuroni
Siano collegati a un’estensione.
Questa volta condanno e con forza,
Pensai, finché non lessi che potrebbe
Compensare lesioni cerebrali
Consentendo ai paraplegici
Di tornare a camminare. Continua a leggere