L’opera poetica del cubano Nicolás Guillén

Nicolás Guillén

NOTA DI GORDIANO LUPI

Nicolás Guillén dopo il trionfo della Rivoluzione è sempre stato chiamato il poeta nazionale e non c’è denominazione più giusta e meritata. Infatti, la poesia di Guillén interpreta la realtà in maniera critica e da un punto di vista collettivo, senza mai farsi tentare da individualismi o da fughe astratte. Quando Cuba era ancora alla ricerca della sua identità, Guillén denunciava l’ingiustizia sociale, la discriminazione dei neri, la fame, il furto sistematico da parte degli Stati Uniti delle ricchezze nazionali. Possiamo dire che Guillén sia sempre stato il cantore delle necessità degli oppressi e dei poveri. A maggior ragione, dopo il trionfo della Rivoluzione, ha messo al servizio della costruzione di un nuovo stato la sua poesia.

Nicolás Guillén (1902-1989) nacque a Camagüey. Suo padre lottò per l’indipendenza cubana, ma subito si rese conto che la Repubblica sarebbe stata tradita dal nuovo governo e si schierò con i liberali. Fu assassinato durante una rivolta e Nicolás dovette lasciare l’Università (frequentava Giurisprudenza) per impiegarsi come tipografo e dare una mano in casa.

Pubblicò le prime poesie sulla rivista Camagüey Grafico, quindi in Castalia dell’Avana e in Orto di Manzanillo.

Il suo primo libro è del 1922 (non lo pubblicò) e si intitola Cerebro y corazón, mentre l’anno seguente fondò Lis, una rivista letteraria che ebbe breve vita.

Nel 1926 si trova all’Avana, si iscrive al Partito Comunista Cubano ed è proprio nella capitale che si avvicina alla poesia d’avanguardia.

Scrive per El Diario de la Marina (un foglio reazionario) una serie di articoli contro la discriminazione razziale.

Nel 1930 pubblica Motivos de son e Ideales de una raza.

Soprattutto il primo è un libro importante, perché adotta il son come base musicale e sceglie un linguaggio di facile comprensione, capace di parlare alle persone e di raccontare la vita quotidiana. Si tratta di poesia che molti hanno giustamente definito mulatta, perché si appoggia ai due elementi predominanti della cultura nera: il ritmo e il colore.

Le liriche di Guillén nascono dalla guaracha cubana e sono soprattutto parole scritte per canzoni popolari. Si pensi a un componimento come: Sóngoro cosongo/ Songo be/ Sóngoro cosongo/ de mamey;/ sóngoro, la negra/ baila bien… Si tratta di una vera rivoluzione poetica che vede protagonisti soprattutto i neri avaneri, con il loro linguaggio caratteristico e i loro modi di dire.

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Vivian Lamarque, “Il signore d’oro”

Vivian Lamarque credits ph Dino Ignani

Torna in libreria dopo 34 anni “Il signore d’oro” di Vivian Lamarque, stampato per la prima volta da Nicola Crocetti nel 1986 e ristampato nell’ottobre del 2020 nelle nuove collezioni di poesia Feltrinelli/Crocetti.

In anteprima vi proponiamo il testo di Vivian Lamarque che apre la ristampa.

QUANTO HA DOVUTO LAVORARE IL MIO DOTTORE

DI VIVIAN LAMARQUE

Il signore di fronte

Era un signore seduto di fronte a una signora seduta di fronte a lui.
Alla loro destra sinistra c’era una finestra
alla loro sinistra destra c’era una porta.
Non c’erano specchi eppure in quella stanza
profondamente ci si specchiava”.

Sono passati quasi quattro decenni. Tutto era iniziato ( finito mai) il 14 febbraio del 1984, avevo 38 anni.
Da anni sentivo forte necessità di un soccorso, alcuni amici poeti mi consigliavano un’analisi lacaniana, altri una junghiana.
Nel dubbio le iniziai tutte due, antico vizio.
Il dottore lacaniano aveva studio nel centro di Milano, sotto prestigiosi portici. Strano, da quella lussuosa portineria usciva quel giorno il plebeo odore buono di certi minestroni che si mangiano da bambini, salii di corsa, emozionata, credo che la mia prima parola al celebre lacaniano sia stata minestrone.

Il dottore junghiano aveva studio quattro gradini sotto il livello stradale, in un bel palazzo vicino alla Rai di Corso Sempione, con tutte quelle antenne, quelle grandi orecchie. Nessuno stava cucinando niente, credo che le prime o seconde parole siano state se Lei muore da chi vado?

La prima seduta lacaniana era durata meno di 30 minuti, non avevo fatto in tempo neppure a nominarli tutti quei miei svariati genitori che lui aveva detto può bastare.
La prima seduta junghiana dal Dott. B.M. ne durò 90. Riuscii a elencargli non solo tutte quante le figure genitoriali comparse sulla scena, ci fu addirittura tempo anche per le loro scomparse (3 su 4 al compimento del mio quarto anno di vita ).
Da lui mi aveva indirizzata la sua collega del Cipa Dott. Faretra (“astuccio per conservare sul dorso le frecce”) e la freccia del transfert scoccò con una velocità inaudita. Non c’era dubbio che mi avrebbe sposata, anche se forse non subito.

Splendidissima era la vita accanto a lui sognata.
Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.
Enellarealtà?
La realtà non c’ era, era abdicata.
Splendidissima regnava la vita immaginata.

Abdicata da decenni: “con una bianca gomma / aveva cancellato l’inutile linea di confine”. A 10 anni giravo per cimiteri ebraici alla ricerca di nomi della mia famiglia d’origine, “ma errore, confondeva persecuzione e paese, i suoi avi giacevano dissanguati e quieti / in terra valdese”. A quindici credevo che una mia prof fosse mia consanguinea e scrivevo nel diario “oggi mi ha dato 4 (per non fare differenza con le altre)…. oggi mi ha dato 7 (la voce del sangue è stata più forte)”..

Quanto ha dovuto lavorare il mio Dottore! Non ve lo potete immaginare.
Anch’io però ce la mettevo tutta. Per meritare di essere sposata.
Manterrò in queste righe un tono lieve (“la mia superficie è felice /
ma venga venga a vedere / sotto la vernice”), ma è stata un’analisi drammatica e potente, ottovolante di sapienti accoglienze e rifiuti.

I mesi passavano, la mia mano non veniva richiesta. Per la mia testa abdicata, che il mio Dottore fosse già felicemente coniugato e con figlia contava zero di zero (io da mio marito Paolo Lamarque – che sempre mi incoraggiò a scrivere – ero separata, benché conservatrice abusiva del bel cognome, ). Infine capii: questione di deontologia, ero sua paziente, bastava non esserlo più, conclusi dall’oggi al domani l’analisi e iniziai un’euforica attesa. Continua a leggere

Lorenzo Carnevali, due poesie

Lorenzo Carnevali


Vergine delle rocce

Già tutto sapevamo, tutto
credevamo di sapere,
ma non c’è posto stanotte non c’è verso:

specchio segreto fedele
madre di braccia morbide
madre di rocce roride
rifugio di anfratti furtivi

Beata cosa tu, alla fine
arresa alla Torre di Babele

La casa del buon pastore

Non questa volta non adesso

Non tempo greve accumulo di delirio e divieto
non pioggia acida che affina lama e omicidio

La deliziosa fattura del nido
dove le Muse a convegno allevano
crisalidi e pargoli
distillare aure di mansuetudine
e care armonie date per perse

Dietro le spalle minacce di sagome e ombre
pur sempre memore la furia del Caos

Da: O. Nesci, L. Valentini, TerreRare Le Marche. Poesie di Lorenzo Carnevali, Argalia Editore, 2020 Continua a leggere

William Carlos Williams, “La primavera e tutto il resto”

William Carlos Williams

La primavera e tutto il resto (1923) è la precoce testimonianza di una fra le più inesauste e febbrili esperienze di poesia del Novecento.

Scritto dal grande poeta modernista americano William Carlos Williams come risposta alla pubblicazione di The Waste Land di T.S. Eliot del 1922, La primavera e tutto il resto è un prosimetro che raccoglie i versi giovanili che egli riteneva migliori e mostra quanto l’esperienza dell’arte cubista e la violenza della grande guerra appena conclusa avessero destrutturato ogni scrittura e reso necessaria una radicale apertura verso un’incognita vita nova.

Ne risulta un’opera fremente, mossa, spezzata, liberata da ogni piaggeria formale, in cui il poeta pone al centro il tentativo di una rinascita dell’intera cultura Occidentale grazie all’immaginazione, intesa però come l’unica forza capace di far sostare il lettore su ciò che da sempre gli è stato tolto, ovvero il momento attuale, l’adesso, dove ognuno di noi possa infine ritrovare se stesso.

ESTRATTI

Se qualcosa del momento verrà fuori – tanto meglio. E più probabilmente ciò accadrà, tanto più non ci sarà nessuno che vorrà vederlo.

C’è una costante barriera tra il lettore e la sua consapevolezza dell’immediato contatto con il mondo. Se c’è un oceano, è qui. O piuttosto, l’intero mondo è nel mezzo: Ieri, domani, Europa, Asia, Africa, – tutte le cose remote e impossibili, la torre della chiesa di Siviglia, il Partenone. Continua a leggere

L’amicizia fra Castor Seibel e Giacinto Scelsi

Domenico Brancale cura per PROVA D’ARTISTA Un’amicizia – Castor Seibel e Giacinto Scelsi. La nota di questa amicizia artistica e profonda è per Domenico Brancale, il Mi, la terza nota della scala musicale, l’unica priva di diesis e di bemolle come se Brancale volesse affermare la verità umana nell’assolutezza del suono della parola: l’amicizia fra due persone emette un suono netto, definito, privo di  “alterazioni”, perché  per Brancale, è un dialogo infinito, perenne, che non può esistere senza l’essere umano, così come la musica non può esistere senza il suono.

(Luigia Sorrentino)

 

ESTRATTO

Antifona

per Sharon Kanach

M’illumino / d’immenso – la poesia di Giacinto Scelsi, se solo fosse capace di definirsi, potrebbe certo fare suo questo grido di Giuseppe Ungaretti.

Sant’Agostino confessa: “A chi mi rivolgo quando mi rivolgo a Dio? Alla luce che è in me.” Come parlare dunque, in altri termini, della poesia? Lei che, con ogni poeta genuino*, estende i suoi confini? Sant’Agostino, per continuare: “Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so bene, ma se mi chiedono di spiegarlo, non lo so più.”

La poesia – quando c’è poesia – rifiuta e distrugge ogni tentativo di spiegazione. La poesia è, punto e basta.

È lei che porta l’uomo verso il suo interno che è spazio illimitato. Come, come voler spiegare la poesia quando è lei stessa che spiega il mondo!

Per Giacinto Scelsi, poesia e suono costituiscono questo spazio illimitato, questa luce che ci unisce all’universo.
L’uomo e l’universo, così pensati, fanno un tutt’uno: ma solo così. Lui, Scelsi, si vuole messaggero!
Imbevuto, compenetrato, impregnato di ciò che ascolta in se stesso e che trasforma in poesia verbale o musicale, ce lo comunica al più alto grado d’incandescenza, laddove l’incanto – incantesimo**, dice lui – comincia ad agire.
Scelsi si immagina come semplice veicolo attraverso cui passa ciò che, continuamente, è in divenire.
Attenzione però a non sbagliarsi: il chiaro non deriva dal chiaro ma dall’oscuro, dalla notte più profonda, come dice Henri Michaux, amico di Scelsi, “oscurità antro da cui tutto può scaturire, in cui tutto bisogna cercare, dal lato più oscuro della notte”.

Ecco! La noche oscura e la nada di San Juan de la Cruz.

Notte che genera luce, come il diamante, che viene dall’antracite informe del carbone e che, sotto l’immensa energia di una pressione millenaria, si cristallizza.

Colui che vuole rendere la luce sul foglio bianco, cominci con il tratto nero della grafite.

Giacinto Scelsi: la sua ossessione per le forme geometriche, luogo elevato in cui musica e poesia si congiungono. La sua geometria è ascensionale, poiché va verso la trasfigurazione di se stessa.
Poetica di forme che suscitano l’emozione estetica: visione poetica della nostra esistenza terrena. Forme che si esaltano, parossismo dei loro stessi contorni nella metamorfosi che solo può l’amore di un cuore ardente, quello di Giacinto Scelsi, che immaginava lo spirito come una luce viva sull’anima.

Castor Seibel
Parigi, gennaio 2006

* In italiano nel testo
** Testo apparso nel volume Giacinto Scelsi, L’homme du son, Acte Sud, Arles 2006 Continua a leggere