L’essenzialità luminosa della poesia

COMMENTO DI NADIA AGUSTONI

La nuova raccolta di poesie di Francesco Balsamo è di un’essenzialità luminosa anche nel non concedere alcunché al sentimentale. Versi scavati di grande misura stilistica, in sintonia col lavoro precedente di un autore che è artista a tutto tondo ed è uno dei pochi capace di usare, oltre alla parola, la matita.

Il connubio poesie e disegni non potrebbe essere più felice. Si ha l’impressione di attraversare un paesaggio onirico, con richiami a tratti cinematografici (l’ultima Agnès Varda), ma sicuramente vicino alle immagini del miglior fumetto (penso sopratutto a un’autrice come Carol Swain con la sua vicinanza agli esseri più feriti, siano umani o animali, fino a trascriverli l’uno nell’altro); è infatti su questo confine umano/animale luce/ferite/ferirsi, che i testi si raccolgono e si fanno traccia di un percorso di una sensibilità lucidissima. Continua a leggere

Luigia Sorrentino, “Lo slancio della rosa”

Luigia Sorrentino

Lo slancio della rosa

il silenzio della rosa, della pace ferma
nel gomito sulla fronte di aprile
nascesti imperlato nella casa doveva essere
l’ultima in una primavera in cui fummo
davvero soli
portavamo lo stesso sangue
la stessa cellula che fu accanimento
accadimento anche precoce
la meraviglia era voce che spariva nella stanza
voce lenta
dove rimbombava la rosa
stesa nella domenica

non ricordo l’esattezza del timbro
né il carnevale che provavo in quella stessa ora Continua a leggere

Pier Paolo Pasolini, “Il pianto della scavatrice”

I

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche
le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d’esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri – in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori

chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.

Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognun, era il mondo.

Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra

muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette

lassù, un po’ di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell’estate.
Trastevere, in un odore di paglia

di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide

risuonano d’incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
– sotto festoni di luci ormai sole –

verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l’anima era invasa

quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando. Continua a leggere

Assunta Finiguerra (1946 – 2009)

Assunta Finiguerra

L’uómmene pe mmé so state chiuóve
cadàvere de sole sope ô fiume
circhie de fuóche p’allazzà ’a lune
e àrdele cume appene ’a guardaie

Si tene nu mualepunde criste mie
falle murì mò ca è peccenénne
accussì pregaie notte e juorne mamme
penzanne de fermà ’a malasorte

Oie mammarella mie, destine e cazze
ósce so na farfalla mbusumuate
na fémmene ca nun pote cambià ’a mute
pecché ru ssuale de préte nge à ffatte

qual’amore, quala morte, nesciune
me pote ajutuà, so acqua passate
rame de presche da u viénde snervate
e fenute pe ccunduanne a restà nvite Continua a leggere

Una poesia di Alessandro Ceni

Alessandro Ceni

Io sto qui e da qui
vedo collassare le stelle, implodere i volatili,
cabrare verso il loro dio le nubi
per poi precipitare in lacrime e piogge;
vedo cadere tutto e tutto
ininterrottamente
la foglia, l’ala, il vento
che incitano il bambino giù dal tetto
e la polvere dalla tasca buona del cadavere,
persino volare in aria per un momento
l’erba tosata, la cenere dal vertice del falò
ma senza che mai nulla
giunga mai veramente al suolo,
così che la lacrima resta nel suo occhio, la pioggia nella
sua nube.

Io, dalle volute di fumo umide e
dalle pire collinari e dai roghi contadini, credo
siano venuti degli uomini, credo,
ad ardere i campi e con essi la mia vita;
sia lode a loro perché da qui l’illusione è perfetta:
i figli cessano di crescere i genitori non muoiono
in ogni frutto traspare la sua gemma:
rivedo mio padre quando aprì la botola
e discese nel buio e nulla seppe mai più di me,
riodo i fischioni di richiamo lanciati verso qualcuno che
                                                                                 non torna,
ed ecco spiegata la ragione del pesce elettrico
negli abissi del mare o perché gli uccelli credono
col loro canto di far sorgere il sole.
Quindi sia lode agli uomini che non dichiarano il
                                                                        proprio amore
e non perdonano e sono spietati
e strappano gli occhi dei fanciulli; sia lode
a quelli che come l’agrostide combustano l’intera loro
                                                                                      esistenza
e lo stecco d’erba duro e secco della propria intelligenza
fino alla follia, covone dopo covone, con metodo,
contraendosi ed espandendosi nel fiato di fiamme della
                                                                                                vita
per abituarti a guardare ogni cosa

come da dietro una vampa.

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