Dylan Thomas, due poesie

Dylan Thomas nella traduzione di Maria Borio

La collina delle felci (apparsa su «Testo a fronte», 58, I, 2018)

Quando ero giovane e puro sotto i rami di mele
Vicino alla casa sonora e felice perché l’erba era verde,
La notte immensa sopra la valle stellata,
Il tempo mi faceva esultare e risalire
Dorato l’apice dei suoi occhi,
E fra i carri adorato ero il principe delle città di mele
E una volta oltre il tempo, divino, alberi e foglie
Con orzo e margherite trascinai
Lungo i fiumi di luce dei frutti caduti nel vento.

E verde e spensierato, celebre fra i granai
Vicino all’aia felice, e cantavo perché la fattoria era casa,
Nel sole che solo una volta è giovane,
Il tempo mi faceva giocare
Dorato nella grazia dei suoi mezzi,
E verde e dorato ero il cacciatore e il mandriano, i vitelli
Cantavano al mio corno, le volpi sulle colline latravano limpide e fredde,
E il giorno del Signore risuonava lento
Fra i ciottoli dei ruscelli sacri.

Per tutto il sole era correre, era bello, i campi
Di fieno alti come la casa, le melodie dai camini, era aria
E gioco, bello e d’acqua
E il fuoco verde come l’erba.
E la notte sotto le pure stelle
Mentre cavalcavo il sonno i gufi portavano la fattoria lontano,
Per tutta la luna, fra le stalle beato, sentivo i caprimulgi
Volare con il fieno dei covoni e i cavalli
Illuminarsi nel buio.

E poi sveglio, e la fattoria, come un nomade bianco
Nella rugiada, tornava indietro, il gallo sulla spalla: era tutto
Splendore, era Adamo e la vergine,
Il cielo nuovamente si addensava
E il sole si faceva rotondo proprio in quel giorno.
Così doveva essere la creazione della luce
Pura nel posto rotante del principio, i cavalli incantati
Caldi andavano fuori dalla stalla che nitriva verde
Verso distese di lode.

E celebrato tra le volpi e i fagiani vicino alla casa gioiosa
Sotto le nuvole appena create e felice quanto il cuore durava,
Nel sole più volte nato,
Percorrevo le mie strade svagate,
I desideri facevano correre la casa nel fieno alto
E non mi curavo, nei miei scambi celesti, che il tempo accogliesse
In ogni suo giro melodioso solo poche canzoni d’alba
Prima che i bambini verdi e dorati
Lo seguissero fuori dalla grazia,

Non mi curavo, nei giorni bianchi agnello, che il tempo mi portasse
Alto nel solaio affollato di rondini con l’ombra della mia mano,
Nella luna che sempre sta sorgendo,
Nemmeno che cavalcando il sonno l’avrei sentito
Volare con i campi alti e al risveglio nella fattoria
Dileguato per sempre da una terra senza bambini.
Oh, quando ero giovane e puro nella grazia dei suoi mezzi
Verde e morente mi teneva il tempo
Benché cantassi nelle mie catene come il mare.

Traduzione di Maria Borio Continua a leggere

Sylvia Plath, “Olmo”

Sylvia Plath

L’OMBRA DELLA PAROLA FATALE

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Non ha paura del fondo perché lo ha abitato, Sylvia Plath. La sua poesia, confessionale eppure incapace di insterilirsi sul puro piano dell’autobiografia, adombra una ricerca finissima in ambito lessicale e fonico e, dalla voce di dentro, proietta sulla pagina letteraria un dialogo viscerale e sanguigno con la natura e i suoi elementi. Non c’è spazio per la neutralità: l’urlo deve essere ribadito, perché ai tormenti è necessario dare del ‘tu’. Tuttavia, sebbene la consapevolezza delle proprie ombre sia portatrice di una qualche lucidità, il dolore non porta qui a un livello superiore di conoscenza. L’autrice è ancora inchiodata al ruolo di Elettra che da sola ha voluto assegnarsi, non ha ancora imparato – né mai ne avrà occasione – la legge di Zeus per cui la sofferenza fa scaturire scintille di luce e di sapere. Orfana, culla la propria afflizione e come in un rito pronuncia per tre volte la parola fatale cui andare incontro. Continua a leggere

Grande corale di ringraziamento

Bertolt Brecht

Bertolt Brecht
da: “Libro di devozioni domestiche”

1
Lobet die Nacht und die Finsternis, die euch umfangen!
Kommet zuhauf
Schaut in den Himmel hinauf.
Schon ist der Tag euch vergangen.

Lodate la notte e l’oscurità che vi abbracciano!
Venite in tanti,
guardate in alto nel cielo:
il giorno per voi è già passato.

2
Lobet das Gras und die Tiere, die neben euch leben und sterben!
Sehet, wir ihr
Lebet das Gras und das Tier
Und es muss auch mit euch sterben.

Lodate l’erba e le creature animali che vivono e muoiono accanto a voi!
Vedete, come voi vivono l’erba e la bestia
E insieme con voi moriranno. Continua a leggere

Cesare Pavese & Yiannis Pappas

Cesare Pavese

I mari del Sud Cesare Pavese

                         (per A. Monti)

Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
– un grand’uomo tra idioti o un povero folle –
per insegnare ai suoi tanto silenzio.

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino… ”
mi ha detto “…ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.

Vent’anni è stato in giro per ii mondo.
Se n’ andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
uomini, più gravi, lo scordarono.

Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.

Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
a un rivale e son stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali
più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.

Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono cosi “.
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte hen grossa alla curva una targa-rèclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.
Ma usci ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
contrattava i cavalli. Spieghò poi a me,
quando fallì il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
“Ma la bestia” diceva “più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza”.

Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d’intomno il frusciare e ii fischiare del vento.
Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: “Quest’anno
scrivo sul manifesto: – Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste
della valle del Belbo – e che la dicano
quei di Canelli “. Poi riprende l’erta.
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,
qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena; e io penso alla forza
che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti .
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro
e pensa ai suoi motori.

Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.

Ma quando gli dico
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.

[7-19 settembre – novembre 1930]

Yiannis Pappas

 

Οι θάλασσες του Νότου – Cesare Pavese       

( στον Α. Μόντι )

Περπατάμε ένα βράδυ στην πλαγιά ενός λόφου,
σιωπηλά. Στην σκιά του σούρουπου που προχωρούσε
ο ξάδερφός μου φαντάζει σαν γίγαντας ντυμένος στα λευκά,
που προχωράει ήρεμος, ηλιοκαμένος στο πρόσωπο,
σιωπηλός. Η σιωπή είναι η αρετή μας.
Κάποιος πρόγονός μας ήταν σίγουρα λιγομίλητος
– ένας άνδρας ανάμεσα σε ηλίθιους ή ένας θλιμμένος ανόητος –
για να διδάξει σε μας τέτοια σιωπή. Continua a leggere

Sylvie Fabre G., da “L’infinito approssimarsi”

Sylvie Fabre G.

 

ESTRATTI 

Nous ne sommes personne, un nom
pourtant nous est donné.

Contre lui, ange profond, inavoué
nous nous serrons.
Il y a une origine, infime
nom et corps se rejoignent
déroulent leurs arcanes
extase, plainte ardente
que révèle le poème.

Ton nom touche ta blessure.

 

Non siamo nessuno, eppure
un nome ci è dato.

Contro di lui, angelo profondo,
inconfessato, ci stringiamo.
C’è un’origine, infima
dove nome e corpo si riuniscono
spiegano i loro arcani
estasi, lamento ardente
che rivela la poesia.

Il tuo nome tocca la tua ferita.   Continua a leggere