Charles Simic, “Avvicinati e ascolta”

Charles Simic

Some Birds Chirp

Others have nothing to say.
 You see them pace back and forth,
 Nodding their heads as they do.

It must be something huge
 That’s driving them nuts –
 Life in general, being a bird.

Too much for one little brain
 To figure out on its own.
 Still, no harm trying, I guess,

Even with all the racket
 Made by its neighbors,
 Darting and bickering nonstop.




Alcuni uccelli cinguettano

Altri non hanno niente da dire.
 Li vedi zampettare avanti e indietro,
 ciondolano la testa a ogni passo.

Deve essere qualcosa di enorme
 che li fa uscire di senno –
 la vita in generale, l’essere uccelli.

Troppo perché un cervellino
 ci arrivi da solo. Comunque,
 tanto vale provarci, mi sa,

anche con tutto il can can
 che fanno i vicini,
 che sfrecciano e bisticciano nonstop.




Hide-and-Seek

Haven’t found anyone
 From the old gang.
 They must be still in hiding,
 Holding their breaths
 And trying not to laugh.

Our street is down on its luck,
 Its windows broken here and there
 Where on summer nights
 We heard couples arguing,
 Or saw them dancing to the radio.

The redhead we were
 All madly in love with,
 Who sat on her fire escape
 Smoking late into the night,
 Must be in hiding too.

Nascondino

Non ho trovato nessuno
 della vecchia combriccola.
 Devono essere ancora alla macchia,
 trattenendo il respiro
 e cercando di non ridere.

La nostra strada ha visto tempi migliori,
 le finestre sfondate qui e là
 dove le sere d’estate
 sentivamo litigare le coppie
 o le vedevamo ballare alla musica della radio.

La rossa di cui
 eravamo tutti cotti,
 che sedeva sulla scala d’emergenza
 a fumare fino a notte fonda,
 deve essersi data alla macchia anche lei.

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Cristina Campo (1923 – 1977)

Cristina Campo




E’ rimasta laggiù, calda, la vita,
 l’aria colore dei miei occhi, il tempo
 che bruciavano in fondo ad ogni vento
 mani vive, cercandomi…

Rimasta è la carezza che non trovo
 più se non tra due sonni, l’infinita
 mia sapienza in frantumi. E tu parola
 che tramutavi il sangue in lacrime.

Nemmeno porto un viso
 con me, già trapassato in altro viso
 come spera nel vino e consumato
 negli accesi silenzi…

Torno sola…
 tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
 roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
 del lungo inverno. Torno a te che geli

nella mia lieve tunica di fuoco.

*

La neve era sospesa tra la notte e le strade
 come il destino tra la mano e il fiore.

In un suono soave
 di campane diletto sei venuto…
 Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.
 O tenera tempesta
 notturna, volto umano!

(Ora tutta la vita è nel mio sguardo,
 stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude).

*

Devota come ramo
 curvato da molte nevi
 allegra come falò
 per colline d’oblio,

su acutissime làmine
 in bianca maglia d’ortiche,
 ti insegnerò, mia anima,
 questo passo d’addio…

da Quadernetto Continua a leggere
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Parole che (s)occorrono

ll desiderio e il dovere di un confronto con noi stessi, con gli altri, col mondo circostante e col tempo in cui viviamo: la poesia è oggi più che mai un linguaggio capace di affrontare la complessità del reale senza lasciarsi abbagliare e fagocitare dai facili miti del momento. Parole e non fatti, si dice correntemente, con un certo disprezzo. «Ma – come sottolinea Riccardo Donati – i fatti sono cose concluse, statiche, sono participi passati, mentre le parole, invece, sono faccende, sono le cose che avvengono, che circolano tra noi. Sono, insomma, il mezzo gerundio della realtà in divenire. E questa realtà, interiore o esteriore che sia, è complessa. Ciò che la poesia fa, quando è frutto di studio e rigore, passione e sincero coinvolgimento, è esattamente questo: dire in forma sintetica la complessità.»

Questo volume nasce da un confronto tra due poetesse e un critico che dialogano tra loro sul senso di scrivere e leggere versi oggi.

Raccoglie inoltre un’antologia commentata di alcune delle più significative voci poetiche di ogni tempo e latitudine: Saffo, Lucrezio, Ovidio, Osip Mandel’stam, Emily Brontë, Emily Dickinson, Anne Sexton, Zbigniew Herbert, Bartolo Cattafi, Andrea Zanzotto, Eugenio Montale, Paul Celan e altre e altri ancora. Il libro si chiude con una riflessione delle due autrici sulla natura e la pratica della loro scrittura.

Un libro rivolto a chi già legge poesia e ancor più a chi non la legge ma intende fermarsi a riflettere sulle cose che succedono per raccogliere le idee e rifondare la propria capacità di dirsi, di dire. Un libro per lavorare sul vissuto e costruire una comunità pensante, incoraggiare la lettura e la riflessione, favorire la pratica della scrittura intesa come gesto individuale e azione collettiva, intervento sul mondo.

Poesia come ossigeno. Per un’ecologia della parola” di Antonella Anedda e Elisa Biagini, a cura di Riccardo Donati (Chiare Lettere Editore, 2021).

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La materia organica di Durs Grünbein

Durs Grünbein





Die Ausgeschlossenen


Ich habe Gespenster gesehen im Park –
 Afrikaner. Sie lagen verstreut auf dem Rasen
 Unter unnahbaren Pinien, wie Breughels Bauern
 Im Schlaraffenland. Sie schliefen dort draußen
 Bei Wind und Wetter, hangten die nassen
 Kutten und Hosen aus den Caritas-Containern
 Zum Trocknen an Bauzäune, Busche.
 Sie machten früh Katzenwäsche, putzten
 Die weißen Zähne in den dunklen Gesichtern
 Am Brunnen mit dem eiskalten Wasser
 Der Aquädukte, von römischen Sklaven erbaut.

Unsichtbar waren sie, für die meisten kaum mehr
 Als Randfiguren. Schatten aus einer Unterwelt,
 Nur von den Schnüfflern beachtet – Männern
 Mit Schäferhunden –, schlichen sie
 Den ganzen Tag wie im Morgengrauen umher.
 Stolze Menschen im Grunde, doch nutzlos
 In ihrer Verborgenheit, von zwei Augen punktiert,
 Die glühten noch lange nach, wenn man sie traf,
 Wie im Traum das Meer, das sie hertrug,
 Das Meer zwischen ihnen und uns.

 

Gli esclusi

Nel parco ho visto spettri –
 africani. Sparsi, sdraiati sull’erba
 sotto inaccessibili pini, come contadini di Breughel
 nel paese di cuccagna. Dormivano fuori
 con qualsiasi tempo; appesi a cespugli, a steccati
 ad asciugare c’erano calzoni e giubbe bagnate
 che vengono dai container della Caritas.
 Come i gatti si lavano, la mattina presto,
 e quei denti bianchi su volti neri
 se li puliscono con l’acqua gelida della fontana:
 gli acquedotti costruiti dagli schiavi romani.

Invisibili erano, figure marginali per i più
 o meno ancora. Ombre dagli inferi,
 li notano solo i ficcanaso – uomini
 con cani lupo – tutto il giorno a zonzo
 come sul far dell’alba.
 Persone orgogliose, in fondo, ma inutili
 nella loro clausura bucata da due occhi
 che rimanevano un pezzo accesi quando li incontravi,
 come in sogno il mare che qui li portò,
 il mare fra loro e noi.

(Traduzione Anna Maria Carpi)

Da: Schiuma di quanti, Durs Grünbein, Einaudi, 2021

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Marina Cvetaeva (1892 -1941)

Marina Ivanova Cvetaeva

Marina Cvetaeva, La principessa guerriera

Dall’Introduzione
Fiabe, filigrane e un finale tragico

 di Marilena Rea

 

Nell’universo Cvetaeva il poema Zar-fanciulla (Car’-devica), una fiaba in versi (poema-skazka, recita il sottotitolo), occupa un posto cardinale. Perché venne composto nel 1920, anno di enormi privazioni, di miseria, freddo e lutto: tra memorie tracciate febbrilmente nei diari e nelle lettere, guerra civile, mercato nero, un marito al fronte e la morte della piccola figlia Irina. Perché è l’espressione più complessa di quello che Cvetaeva chiama la sua «linea russa», cioè l’immaginario folclorico, epico e fiabesco – «Voi sapete quanto io ami l’arte popolare (NB! Io stessa sono il popolo!)». E soprattutto perché è sempre stato considerato da Cvetaeva la sua «cosa migliore».

In un tempo astorico e ciclico, tipico della tradizione folclorica, ripartito in tre Notti e tre Incontri fondamentali (più una breve Notte ultima e una Fine), si consumano le vicende di quattro personaggi: lo Zar ubriacone, la Zarina di seconde nozze, lo Zarevič, e lei – la protagonista assoluta: Zar-fanciulla, la principessa guerriera, la gigantessa dal nome androgino, l’amazzone russa, insieme donna e re. Suo è il regno al di là dei mari, sua è la forza ignea, suo è il dominio sugli elementi del creato; di altezza smisurata e potenza da bogatyr’ (l’eroe epico delle byliny), principio universale maschile, simboleggia la forza attiva del Sole: ha il volto tondo e radioso che ustiona chiunque si accosti, ha una folta chioma riccioluta di un rosso infuocato, vive in un rosso palazzo, guida un Vascello di Fuoco, siede in un rosso padiglione; e, infine, agisce sempre di giorno, durante gli Incontri.

Cvetaeva iperbolizza la principessa guerriera della tradizione, protagonista delle due fiabe russe (la n. 232 e la n. 233) raccolte in Narodnye russkie skazki dell’illustre etnologo Aleksandr Afanas’ev, un libro di fiabe ricevuto in dono nel 1915 dagli amici pietroburghesi Jakov Saker e Sofija Cackina, un libro amato, probabilmente uno di quelli con cui «mi bruceranno», scrive Cvetaeva nel 1926. Guerriera, eretica, santa, pellegrina, strega – sono tante le maschere in cui Cvetaeva racconta il suo rifiuto nei confronti del ruolo convenzionale della donna, a partire dalla lirica Se ti chiamo caro – non ti annoiare (1916), fino ai poemi coevi di Zar-fanciulla (Il Prode, Sul cavallo rosso, Vicoletti); un popolo di donne leggendarie – Pentesilea, Brunilde, Giovanna d’Arco – marcia in filigrana con lo stesso passo militare di Zar-fanciulla, finendo per sovrapporsi alla stessa Cvetaeva. Di questo mondo guerriero femminile – intriso di epos ma anche di leggende popolari e superstizioni, narrato con un inconfondibile linguaggio che si muove, nota Karlynsky, tra registri incolti e colloquiali, registri della Bibbia, dello slavo ecclesiastico e del russo antico – Zar-fanciulla porta il vessillo, con un’ostinata volontà di salvare dall’oblio quell’autentica cultura moscovita, la «Mosca dell’ultima ora e dell’ultima volta» che, con tanto orgoglio, Cvetaeva aveva regalato a Osip Mandel’štam durante il soggiorno a Mosca nel 1916. […] Continua a leggere

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