Giorgio Galli, “Le voci sopravvissute”

Foto. tratta da “Le voci sopravvissute” libro di prose di Giorgio Galli pubblicato nel 2020 con le Edizioni Gatto Merlino e le foto di Chiara Romanini

“Le voci sopravvissute” è una raccolta di racconti e prose poetiche in cui risuonano le voci degli esclusi: voci che il fiume umano stava per travolgere e che hanno preso la parola un’ultima volta in queste pagine. Figure sbozzate, in bilico fra il divenire umano e l’eterno presente di animali rocce e piante. Storie inascoltate di artisti disoccupati e matti, o di coloro che la nostra indifferenza lascia affogare in mare.

Le foto in copertina e all’interno del volume sono di Chiara Romanini.

(ESTRATTO)

I CHIUSI DENTRO

(A chi soffre di non comunicare,
in particolare agli affetti
da Sindrome di Asperger)

Avere una vita grandiosa e non saperla dire. Sentire tutto fino a farsi male e sembrare che non si senta nulla. Vivere nel fuoco e condursi nel gelo. Sentire che il nostro sangue è diverso e doversi nascondere, evitare di ferirsi per non mostrare che il nostro sangue è diverso. Crolla il mondo e non riusciamo che a stare al nostro posto. Una sola domanda ci assilla: “Che cosa ci si aspetta da noi?” Ogni stanza ha dei mobili, quadri lampade e sedie, e noi non li vediamo; osserviamo il muoversi degli altri per capire dove sono i mobili e non inciampare. Anziché vivere ci guardiamo vivere. Siamo un palazzo di cristallo costruito per i vostri occhi. Attenti a non fare una mossa sbagliata, segreti come le perle custodite dalle ostriche dei mari. Le mani che ci stringono non stringono noi; il calore che emanano non riscalda noi. Se ci toccate, toccate il palazzo di cristallo. E dentro quel palazzo noi siamo prigionieri. Noi come i gatti desideriamo essere toccati, ma non lo sopportiamo. Noi come i gatti vogliamo guardare, ma non sopportiamo di essere guardati. I vostri volti per noi sono di pietra: se chiedono di noi, non rispondiamo; se cercano aiuto, noi non ve lo offriamo. I vostri volti sono scritti in alfabeto straniero. Ma domandate di noi a parole, e vi risponderemo; chiedeteci francamente aiuto, e noi ve lo daremo. Non parlate con gli occhi, perché non li vediamo. Non guardateci negli occhi, perché non ve li mostriamo. Noi come i gatti ci feriamo all’incrocio degli occhi come a un incrocio di spade. Noi come i gatti giriamo nascosti dietro ai nostri volti. Muore la nostra migliore amica e voi ci dite: che faccia sorridente che hai! Non cercate di leggerci in volto, perché i nostri volti non si leggono. Parlate! Se ci amate diteci di amare, perché giocare col nostro amore è troppo crudele. Non giocate col nostro amore, perché noi non sappiamo giocare! Parlateci! E una notte, nella stanza delle confidenze, noi vi racconteremo un’altra volta di come Lawrence ha conquistato Aqaba.

 

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Gabriele Galloni (1995-2020)

Gabriele Galloni

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Questa foto di Gabriele Galloni mi è particolarmente cara. Me la inviò Gabriele per email il 5 novembre 2017 con alcune sue poesie inedite dal titolo Orazioni di giugno, poi confluite con un altro titolo a gennaio 2018 nella raccolta In che luce cadranno.

Gabriele aveva solo 22 anni quando mi contattò la prima volta.

Era nato a Roma nel 1995, studiava Lettere Moderne all’Università La Sapienza e aveva da poco pubblicato con Alter Ego – Augh! Edizioni la sua prima silloge, Slittamenti.

Lessi la prima poesia fra gli inediti che mi aveva inviato nella email. Era questa:

I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci

con una mano – e l’altra all’Invisibile.

Gli risposi sempre per email che mi piacevano le sue poesie, e che ne avrei volentieri pubblicato qualcuna sul mio blog. Purtroppo la morte di mio padre, il 4 dicembre 2017, mi tenne lontana da Gabriele e dalla sua poesia.

Fu Ida Cicoira, una mia amica, a riparlarmi di lui. Ma io non ero in grado di recepire nulla in quel momento, totalmente assorbita dal grande cambiamento che aveva occupato la mia vita.

Il giovane poeta Gabriele Galloni si è addormentato senza più svegliarsi il 6 settembre 2020, a soli 25 anni.

A tre mesi dalla scomparsa lo ricordiamo con questi versi tratti dalla sua ultima raccolta: L’estate del mondo, Marco Saya Editore, 2019.

In questi versi si percepisce molto chiaramente la voglia di vivere che aveva Gabriele, un ragazzo dalla personalità dichiaratamente votata alla poesia. Sono versi luminosi, sembrano scritti pensando a un cortometraggio girato con la cura e i dettagli del poeta che vede l’invisibile.  Le poesie sono il ritratto di una giornata serena, trascorsa vicino al mare, contrassegnata da apparizioni e da sparizioni.

Si legga il finale di uno dei testi qui sotto riportati: [… “è bello correre, andarsene via/ da ogni luce che sia/ troppo grande per queste nostre mani.

Sono le parole  di chi vuole possedere il mondo, l’eternità felice di una giovinezza che però sa bene di non poter trattenere quella luce, troppo grande anche per le mani del poeta.  

Gabriele sapeva che la vita e la gioia, sono momenti fugaci, scorrevoli.

I suoi testi sono quelli di chi desidera rimanere negli occhi chiari dell’estate conservando in una tasca molto profonda una conchiglia, raccolta nell’età dei ragazzi, un’età di gioia e di disperazione, l’età della ferita e della bella giornata di sole tanto profonda e lontana da noi da dimenticarsene.

Questa raccolta conserva una luce che partecipa a un sogno:  camminare sul mondo che perde le nostre tracce.

Si legga infine la  poesia Campo/Controcampo: il campo ripreso dal regista-poeta riprende davanti a sé una stagione intera, quella della vita; nel controcampo, in ciò che l’altro vede, il poeta fa riferimento a un tempo trascorso con le tante conchiglie raccolte. Ma  la bella giornata irripetibile , è finita.

Gabriele conosce bene il sentimento della  nostalgia, della perdita, che qui  si intravede, nella consapevolezza che tutto ciò che si vive è destinato ad allontanarsi da noi. E’ qualcosa che avviene davvero in questi versi, e avviene proprio mentre lo si vive, e niente, se non la memoria, potrà riportare in ognuno di noi, l’estate del mondo.

 

I

Nel parcheggio del centro commerciale
mi parlasti di certi
giorni d’isole; giorni dall’uguale
passo del mare misurati interi.
Mi raccontasti poi di come aperti
all’onda i cieli aprissero sentieri
mai apparsi prima, neanche agli occhi esperti
dei residenti che alla roccia e al sale
erano familiari.

II

Io non ti domandavo; solamente
ascoltavo in silenzio, interrompendoti
per mostrarti le foto che prudente
ti coglievo di spalle. E riprendendo
perdevi sempre il filo; ti arrabbiavi
ma un attimo, per finta: ché ignorandomi
presto ricominciavi.
Le corse a perdifiato tra i canneti;
l’eco pomeridiana e l’eco a notte.
L’animale brusio e le sue interrotte
chiamate; e certi libri di poeti
scovati in biblioteche sotto il mare.

 

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Tomaso Kemeny, da “Per il lobo d’oro”

Tomaso Kemeny

Il racconto autobiografico di Tomaso Kemeny,Per il lobo d’oro“, (Effigie 2020) copre quaranta anni del Novecento, dal 1938, anno di nascita dell’autore a Budapest, fino al 1978 a Milano. L’azione include la caduta di suo padre sul fronte russo e la successiva “invasione-liberazione” dell’Ungheria da parte dell’Armata rossa.

Nel 1947 Kemeny viene adottato dal patrigno e nel 1948 la famiglia fugge dall’Ungheria per non venire deportata.

L’avventura esistenziale vede l’autore, peso medio negli Stati Uniti, sul ring di Chicago. Segue l’incontro con André Breton e le esperienze d’avanguardia nella Milano degli anni Settanta. Il libro evoca i labirinti di libertà percorsi e costruiti da un poeta nostro contemporaneo.

ESTRATTI

Il libraio Michele Morale, fu il mitico libraio di Piazza Piola A Milano. Più che vendere libri e CD si sforzava di fornire nutrimento culturale agli avventori. Era dotato di due lobi piuttosto pronunciati, e io ,scherazando, cercavo di tirarglieli, ma lui opponeva resistenza. “Professore, se lei fose una bella ragazza o Napoleone, le lascerei tirare i miei lobi, ma così…” Bisogna sapere che io gli avevo raccontato che mio nonno, Gyula, un cultore di Napoleone, da bambino raccontò come l’Impereur, in segno di benevolenza, soleva tirare i labi dei suoi guerrieri. Un giorno il Sig. Morale mi disse:” Le sue poesie, per quanto interessanti, vendono pochino. Perchè non scrive un romanzo, forse riuscirebbe a raccogliere un po’ di soldi…”.

Quando il caro Morale, con cui mi piaceva anche prendere il caffè, la mia abitazione essendo vicina al suo negozio, ci lasciò, decisi che avrei dedicato un mio lavoro in prosa, appunto, questo “Lobo d’Oro”. Decisi di fare l’autobiografia dei miei primi quarant’anni(1938 -1978) trascivendo di getto ciò che la mia memoria riusciva a custodire.

Era Natale a Budapest, l’albero era illuminato da candeline, non c’erano ancora quelle lampadine elettriche di oggi. L’albero, a un certo punto, oscillò per poi rovescirsi, incendiando il nostro salotto.

Fu mi Padre a spegnere il fuoco che stava divorando tappeti e tendaggi. Papà poi partì volontario in guerra per liberare la Transilvania, antica Patria magiara, ora rumena. Purtroppo la guerra si spostò sulla pianura russa, dove Papà cadde combattendo. Quando,nni dopo, l’Armata Rossa stava travolgendo gli eserciti germanici e maguari, mia Madre, la donna più bella di Budapest, chiese alla mia bambinaia, Miaria, di portarmi al sicuro a Gonyu. Maria si era appena sposata con Otto, capitano della flotta ungherese che presidiava il sacro Danubio, che ci portò a destinazione con la sua nave. Mentre i sovietici bombadavano a tappeto Budapest, io in campagna fui felice che mai, totando fiondate con i contadinelli, correndo per i campi, e per quanto le bambine mi paresser insignificanti, una bambina bionda, Rozsika, si immaginava di essere la mia fidanzata.

Purtroppo la mamma ebbe torto, l’Armata Rossa puntò sulla città di Gyor, a pochi chilometri da Gonyu. Il drappello di soldati tedeschi, comandati a non ritirarsi, e un giovane ragazzo di 16, anni, il fratello di Rozsika, morirono mentre avanzava l’Armata di migliaia di elementi. Non sapendo cosa facesserò i nazisti, io salutai l’arrico dei “barbari” con un “hei Hitler”. Ma i russi non facevano male ai bambi, li feci ridere, anche se più avanti, mi posero una mela sulk capo giocando a fare i Guglielmo Tell, per fortuna avevano buona mira. Oltre uccidere il pollame , i maiali e buttare bombe a mano nel Danubio per pescare senza fatica i pesci, i guerrieri “liberatori” si impegnarono a violentare le ragazze. Una vecchina, Veruska, di 70, ancora vergine e malata di tipoo, fu vilata a turno da sette soldati. Sculettava per l’aia ridendo e gridando “mi hanno violentata”. Il Pastore calvinista pensava avesse perso la mente, ma in realtà era felice di avere finalmente assaporata le verigini della sessualità, così dicevani i contadini, ridendo della sua allegria, in contrasto con la situazione di essere derubati, violati umiliati. Tra l’altro i russi rubanavano l’orologio a tutti, e nella loro ignoranza, quando l’orologio si fermava , lo buttavano via, pensando che l’animaletto tic-tac fosse defunto. Mia Madre mi venne a prendere e trovai Budapest invasa da truppe risse, inglesi, americane e francesi. Gli americani distribuivano caramelle e frutti (vidi la prima banana),Gli inglesi difendevano le donne dao tentativi di violenza dei sovietici, i francesi agitavano la lro bandiera tricolore sul “famoso” Ponte delle Catene”, sul Danubio. Anni dopo gli stalinisti ungheresi nazionalizzarono la notra fabbrica e offrirono al mio padre adottivo di diventarne il Direttore,dopo essersi iscritto al Partito. Ma anche il secondo Papà era un eroue.Fece due nni di lavori forzati durante il governo nazionalista in quanto pacifista. Rifiutò di iscriversi al partito dicendo di essere socialdemocratico e contrario al partito unico. La stessa notte dovemmo fuggire per non essere deportati come “nemici del popolo”. Un compagno comunista pacifista, che aveva subito il campo di lavoro insieme a Papà, di notte ci offrì i passaporti falsi, e mio Padre, campione nazionale di pallanuoto negli anno ’30, figurò come massaggiatore, della squadra di calcio dell’Ujpest, e abbandonammo il paese comodamente in aereo, atterrando a Venezia, In seguito chiedemmo l’asilo politico e fummo internati nrl campo profughi a Banoli, vicino a Napoli. Qui,strisciando sotto i fili spinati del campo, uscii per giuocare a calcio con i ragazzi napoletani (e da allora sono diventato tifoso della squadra del Ciuccio, del Napoli). Mi padre parlando sette lingue, fu chiamato a lavorare a Milano. Ma scendemmo a Firenze a vedere questa meravigliosa Atene conrtemporanea, come diceva la mamma. Mi innamorai delle Madonne di Rafaello, figure materne che tutto mi paiono perdonare. La Mamma voleva vedere la casa di Michelangelo, il vigile, a nostra sorpresa, pensò che cercasse una casa di moda. Papà osservò :”nemo propheta in patria”. Do po anni a Milano,dove iniziai a frequentare le elementari, ebbi una borsa di studio per gli Stati Uniti. A Chicago, nella Swift High School, soffrìi un rito di iniziazione .”Dp you want to fifght?”, mi disse un ragazzo-armadio. Dissi “Yes!” e fui picchiato a sangue. In seguito frequentai una palestra a La Salle Street, e scoprìi di avere un gancio di sinistro irresistible. Nella stessa palestra venne il grande Sugar Ray Robinson, che mi disse “com quel sinistro arriverai in alto”. Mi chiamarono “Absolute Tiger” dopo che al primo round vinsi 4 partite da dilettante. Il pubblico scometteva sulle nostre “match”. Con Sugar feci non solo footing lungo La Salle Street, ma un giorno ballammo con niente di meno che Abbe Lane( con la magnifica ho fatto due passi!). Il quinto incontro fu fatale, il mio sinistro fece solo il solletico a quel fenomeno di colore che mi inviò direttanmente all’ospedale e così addio pugilato e avanti tutta con la poesia. Continua a leggere

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La terra remota di Umberto Piersanti

Umberto Piersanti credits ph. Dino Ignani

DI FABRIZIO FANTONI

 

 

“A quale terra antica
mi riporti,
a quale ora
fuori dei millenni,
acceso ciclamino
d’un giorno
d’acqua?”.

In questi versi, tratti dall’ultimo libro di Umberto Piersanti intitolato Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo, 2020), è racchiusa la domanda che l’autore pone alla Poesia: di condurlo in quella terra remota che è il passato. E la poesia risponde a questo invito, oltrepassa il muro che separa l’uomo dalle sue memorie e rievoca con progressive ed improvvise illuminazioni volti, odori, situazioni di una fanciullezza vissuta nella pienezza del corpo, a contatto con la natura incontaminata delle Cesane – terra di origine dell’autore – in una continua ed irrimediabile spensieratezza.

“Terra di memorie
l’età che s’inoltra,
di volti che s’affollano
e vicende
d’innanzi agli occhi
e tremano nel sangue,
l’infanzia è la stagione
più tenace
e ogni altra
offusca
e quasi oscura”.

L’incanto della poesia di Umberto Piersanti risiede nella sua capacità di rendere viva quella intimità mentale che l’essere umano sperimenta nei primi anni di vita, quando tutto ciò che lo circonda sembra a portata di mano, creato per lui, e si pensa che rimarrà lì per sempre, che nulla e nessuno potrà toglierci la spensieratezza di ogni giorno.

L’esperienza della guerra attraversa la poesia dell’autore, ma nemmeno tali orrori riescono ad incrinare quel sentimento di vaghezza che il bambino prova nel suo crescere a contatto con le forze vitali della natura: vita e morte, bene e male si intrecciano ed acquistano, nei ricordi dell’autore, la dimensione di una fiaba, come nella bellissima poesia “La fonte dei due gelsi”, dove viene evocata una leggendaria fonte sulla quale crescono due gelsi, uno che fa le more bianche, l’altro che le fa nere che, a contatto con il sangue di un ragazzo ucciso durante la guerra, si dissolve e mai più ricompare.

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Sulla poetica di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni, credits ph. Dino Ignani

NOTA DI GIUSEPPE MARTELLA

Slittamenti è il titolo della prima e fondamentale raccolta di Gabriele Galloni.

Graficamente il testo è molto spaziato: i versi vi nuotano come filamenti di galassie in espansione, o come fotogrammi portati da un vento cosmico, stringhe di codice (verbale, numerico, genetico, tutt’insieme) che hanno perso il loro scopo evolutivo e la password per il ritorno alla Matrice.

Hanno perso l’aggancio con l’origine e col fine, sicché l’eccesso di luce e il candore del dire disegnano scenari per l’elaborazione del lutto e della malinconia.

La sua è una poetica della scansione esatta e pulita che va al di là del metro e della parola, per acquisire direttamente l’immagine e montarla in un discorso editabile e rimediabile.

Il suo sguardo è quello di uno scanner e di un laser, la sua poetica una nanotecnologia della parola-immagine, lo spassionato algido s/montaggio digitale delle fette di vita da parte di un software evoluto in grado di apprendere, ma per ciò stesso fragile ed esposto ai virus dell’ambiente.

Spietatamente egli mette in scena infatti la discrasia sistema/ambiente a vari livelli del vissuto e del testo. Nel suo dire (o mostrare), il silenzio interlineare fa da sfondo, come un tappeto sonoro in negativo.

Il silenzio che accomuna i vivi e i morti, che dilata lo spazio della figura e sospende il tempo dell’evento, preparando il gesto surreale che ci attende, che ci appare in primo piano o in campo lungo, in panoramica o carrellata, dopo lo stacco che fa da legame a diversi livelli del testo, a partire dalla metrica.

Da quella versificazione piana, scontata quasi nel suo tramandare (e tradire) il retaggio della lirica nostrana ed europea, con la più assoluta sprezzatura di ogni “ricercar”, come se questo fosse già avvenuto altrove, in altro luogo e tempo della storia sociale e della propria anima, in una sorta di slittamento fondante dalla psiche individuale allo spirito del tempo (Zeitgeist).

Per quanto la situazione evocata infatti possa spesso essere idiosincratica, perversa, persino oscena, l’atmosfera, la Stimmung, ha sempre in Galloni, una valenza collettiva che attraversa la carne del mondo e la trascende in una prospettiva comunione tra i vivi e i morti.

Certo la fascinazione della morte è una delle costanti della sua poesia, dove thanatos eclissa eros e lo perverte, lo rende obliquo ed elusivo, anfibio e androgino. Diluito e liquidato nel campo semantico dell’amicizia e nella dimensione del ricordo. Ne fa ingrediente e collante di una messa in scena che mira ad altro, al radicalmente Altro, alla comunione coi morti, appunto, con lo spettro di luce del mondo in cui viviamo, con la sua eccessiva trasparenza che brucia lo sguardo, con i limiti del diafano dove si dissolve ogni figura.

In una ridda di echi letterari si consuma qui infatti il rovesciamento, la preclusione di ogni romanzo di formazione, nel tempo reale della rete, nel presente allargato del villaggio globale.

Nel solco scavato dall’ombra lunga dello Stephen Dedalus di James Joyce, l’intransigente artista giovane in cerca di una resa dei conti con l’intera tradizione letteraria dell’occidente: “ineluttabile modalità del visibile: almeno questo se non altro, il pensiero attraverso i miei occhi… limiti del diafano.”
Così Stephen all’inizio del terzo capitolo dell’Ulisse, quando esplora i detriti cangianti della marea e della storia, sulla spiaggia di Dublino, parodiando Aristotele.

Stephen, figura del Figlio, seconda persona della trinità biblica che regge il poema eroicomico in prosa dell’Ulisse (la prima è Leopold Bloom, homme moyen sensuel, la terza Molly Bloom, nuda supina carne del mondo, in attesa di registrare gli eventi di una giornata o di un’epoca).

Artista giovane, colto ed ironico, intransigente specie nei confronti di sé stesso, è anche Gabriele Galloni, con la differenza che per lui non c’è alcun esilio salvifico, nessun altrove dove fuggire, nessuna distanza da guadagnare: è prigioniero della società della trasparenza e della prestazione, dello show business, del Glamorama in cui tutti siamo nel contempo registi e attori coatti, per quanto possiamo esserne consapevoli e prendercene gioco.

Lo “slittamento” è la chiave della sua poetica. Tra continuità e salto, tra metonimia e metafora, c’è una terza via: lo scivolamento continuo delle immagini su una pellicola traslucida, sulla carne del mondo esposto al sole guasto e impietoso dei nostri giorni, come quando in una allucinata vacanza estiva gli adolescenti, “I ragazzi di Focene” scendono in spiaggia o meglio vengono gettati nell’aperto, seminudi e semicoscienti. Nel seducente dondolio di un’onda lunga che promette l’infinità del tempo, l’onnipotenza dei desideri, ma che poi alla fine della giornata si spegne e si asciuga su una parete bianca che non ne conserva traccia: in questa nostra società liquida, di cuspidi e catastrofi, che ospita dimore vacanti e imprevedibili spazi di violenza. Continua a leggere

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