Addio a Carlo Bordini (1938 – 2020)

Carlo Bordini, credits ph. Dino Ignani

 

 

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

Lutto nel mondo della poesia.
Silvia Bordini, sorella di Carlo Bordini, poche ore fa ha inviato via mail a tutti gli amici di Carlo compreso me,  un messaggio contenente una tristissima notizia che proprio non ci aspettavamo e che ci lascia senza parole: “con profondo dolore vi comunico che Carlo ci ha lasciato questa notte. Conserviamo tutti il dono della sua poesia”.

La notte del 10 novembre 2020 se n’è andato Carlo Bordini, a 82 anni, un amico carissimo e un poeta fra i più conosciuti  in Italia.

Scrittore, poeta, militante politico,  radicalmente anti-elitario, fra le sue raccolte di versi più famose ricordiamo: “Strategia”, “Pericolo” e, quella da lui più amata, “Polvere”. Le sue poesie, dal 1975 al 2010, sono state raccolte e pubblicate in un unico volume edito da Luca Sossella Editore nel 2010.

Qui potrete leggere L’autoritratto che Carlo Bordini scrisse per me e Fabrizio Fantoni nel 2015. Una bellissima pagina che ci racconta chi era Carlo e che cosa pensava lui fosse la sua poesia. Non dimenticherò ma  la sua generosità, la sua presenza attiva e attenta a tutte le vicende politiche e civili che hanno accompagnato il suo passaggio sulla terra. L’ultimo incontro all’isola Polvese, per un convegno organizzato da Maria Borio sulla poesia in Europa. L’ultima mail collettiva, pochi giorni fa “estremismi”, aveva aperto un bel dibattito fra diverse persone.
Grazie Carlo, grazie. Ti abbraccio forte. Come facevamo quando ci incontravamo e poi  con un sorriso ironico, sornione… ci salutavamo e non mancava mai la fatidica frase alla  romana, (la dicevi proprio a tutti i tuoi amici!):  “Ciao bbella!”

Noi, mentre la casa crolla

Noi, che stiamo vivendo l’inizio del tracollo della civiltà umana,
ci preoccupiamo di cambiare la carta da parati
e di lucidare i mobili
mentre la casa crolla ci dedichiamo a rovinose dispute con il portiere
e facciamo progetti per migliorare (abbellire) le serrature delle nostre case
le nostre case stanno cadendo e noi ci preoccupiamo di abbellirle
perché gli animali domestici hanno bisogno di un ambiente sereno

Carlo Bordini

Carlo Bordini

 

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Chandra Livia Candiani, “La domanda della sete”

Chandra Livia Candiani

Tenere tra le braccia
la voce del mondo
ospitare i suoni ammucchiati
senza chiedere senso
cullare lingue e pelli
ossa di diverse misure
parole fredde e calde
urli e bisbigli
una fioritura spinosa
e corrodere le frontiere
e fare uno strepito sorridente:
sì vieni, ben arrivato
nel mio sbando
c’è sempre posto per te.

*

Un dolore antico senso
frontiere con la gioia
nato prima di me
mi fessura scrive sulla pelle
i nomi privati di ogni animale
le costellazioni i mari
i vegetali. Mi chiamo
e sono essere tra gli esseri
cipresso medusa corteccia
sasso e ogni spavento
di squame e penne ogni urlo
che abbraccia il vuoto
e fa spazio.

*

Senti che silenzio ti regalo
perché tu abbia vuoto
e frescura e scavo lento
per le tue millenarie graffiature
per il tuo non registrare con la mente
ma tenere in appoggio funambolo sul cuore
la fatica della pressione altrui,
dei multipli imperativi
che sfrecciano e chiedono
e pretendono. Senti come sto
quieta e senza sonoro
appoggiata al bel niente
e dopo, quando torni contento
e già pronta la saltabeccante energia
la zampata che t’invita
alla tua radice d’infanzia.

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Il contravveleno al niente: Gian Mario Villalta tra poesia e presente

Gian Mario Villalta

di MATTEO BIANCHI

La poesia non si accontenta di una lettura e tanto meno di una lettura distratta. Di più, ci riporta a un brusio buono, biologico, alle parole sostanziali dei sentimenti. A confermarlo ancora una volta è il percorso in versi di Gian Mario Villalta, specie nelle sue ultime pubblicazioni. Una su tutte – anomala e folgorante – Il scappamorte (Amos, collana A27, 2019), nella quale il poeta non rinuncia a far proprio il bene altrui, a renderlo condivisibile attraverso il processo estetico: «Confessi a te stesso che della felicità / sai la voglia: fa feste / all’aria intorno a te e ignora / il boccone offerto, come il cane addestrato / alla guardia del cuore / quando sfugge al guinzaglio».

Nel corso di una mirabile divagazione, Barthes affermò che «la letteratura non permette di camminare, ma permette di respirare», in quanto esperienza panica e totalizzante, che permea l’individuo e non lo accompagna soltanto durante una trasformazione interiore. Villalta, dal canto suo, esorta il lettore a un’ecologia del pensiero e di conseguenza della parola, che rifletta onestamente una doverosa ecologia sociale, sostenuta dal disarmo linguistico, e che smussi l’uso di una verbosità sempre più aggressiva e opprimente, volta a intimidire e a conquistare il fruitore dei consueti flussi di comunicazione. D’altronde, sin dalla radice οἶκος, l’ecologia si fonda su un’analisi oggettiva delle interazioni tra le singolarità e il contesto di appartenenza, ossia un’analisi che si focalizza sulle relazioni interne a una qualsivoglia realtà organica. Continua a leggere

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Edoardo Sanguineti, “Laborintus”

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

Sono trascorsi esattamente dieci anni dalla morte di Edoardo Sanguineti, poeta e teorico della letteratura tra i massimi del nostro secondo Novecento. Manni ristampa per l’occasione Laborintus. Testo e commento, a cura di Erminio Risso, in un’edizione rivisitata ed esegeticamente arricchita. Il libro, pubblicato in origine nel 1956, figura come silloge d’esordio di Sanguineti e subito attesta gli elementi precipui della scrittura a venire: «un furentissimo pastiche», secondo la celebre definizione di Pasolini, «tipico prodotto del neo-sperimentalismo post-ermetico, che per una intima, nuova energia, riesuma entusiasmi pre-ermetici». Laborintus, dall’incipit folgorante («composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis»), è la descrizione in ventisette canti di uno scenario sublunare, imago e simbolo di una terra postatomica, che vede protagonisti l’io lirico ed Ellie (o anche λ, incarnazione dell’eterno femminino), «due esseri astratti su un aerostato che si siano incontrati per dirsi la verità», tanto per scomodare I demoni di Dostoevskij. Essi – non soli però, ci sono anche personaggi come Laszo Varga e Ruben – si amano, si lacerano, soprattutto mutano e trasmutano dentro una materia linguistica incandescente, disarticolata, che mette insieme lacerti di verso da slang lontani e, in alcuni casi, opposti, passando dalla citazione culta all’espressività del mondo globalizzato. Continua a leggere

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Mario Ramous (1924-1999)

Mario Ramous

LIMITE

UNA campana è il mio cuore più cupo
d’un disperato suonare a distesa.
Non c’è riposo alla vasta ossessione
dei grilli in questa notte già recisa
dal richiamo dei treni. E il tuo viso
appena sfiorato dal mio amore
ora è già smorto, caduto. Potranno
piangere gli uomini con il lamento
lungo delle strade, potremo piangere
che non ci è dato nulla oltre il nome.
Ricordo solo il tuo seno malato.

 

A MEMORIA

ERI come il cadere molle dei colli alla pianura,
quando si spande il caldo dell’estate,
il crescere sottile e schivo degli agnelli.
Poi il riposo, lungo e confortato di pianto.
Assopirsi lento dei sensi
e compiacersi del proprio silenzio.
Pure il tuo respiro era solo tristezza
e chiuso dolore:
un esilio vuoto di parole,
un levigato dormire.

In te era il mio gesto
come un’ombra sfiorita di accenti,
se ancora un limite mancava alla persona.

Così si spengono i tuoi occhi alla memoria.

 

PRESENZA

QUESTO incredibile pianto e il suono
che s’affloscia in sorde cavità
della ragione; il suono come vento
mutevole d’uccelli, di severi
animali inquadrati nelle valli,
immobili negli occhi. O ancora
la presenza ha un senso in questa vita
dirotta dal tempo? E forse io vivo? Continua a leggere

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