Piero Bigongiari, “La lama della verità”

Piero Bigongiari

Vale la pena di rileggere oggi le poesie di Piero Bigongiari poeta fra i maggiori del Novecento, pubblicate da Vallecchi nel 2021 con il titolo “L’enigma innamorato” (Antologia, 1933-1997) a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, con l’introduzione di Milo De Angelis.

Intenso e profondo il ricordo di De Angelis dell’amico e maestro Bigongiari che scrive: “I versi di Piero Bigongiari avevano il potere di imprimersi subito nella mia mente. Erano – e rimangono – sapienti, fulminei, perentori, capivi di entrare nelle zone più profonde, di rovesciare ogni luogo comune e trasformarlo in sentenza. Hanno dentro di sé la luce del paradosso e la lama della verità.”

 

A LABBRA SERRATE

Un’ombra ancora, un’ombra che non scompare
come un disco pieno di propositi,
e questo cielo senza vittoria per nessuno,
le mani calde, la bocca amara d’amare.

Inutile parlarvi, miei morti sconosciuti,
inutile cercarvi, voi uomini della terra,
per la troppa terra che nasconde il vostro cielo,
solo vostro è il cielo per cui soffriamo tutta la terra.

Tutta la terra e gli errori penosi perché piccoli,
le stragi come muri d’argilla a ridosso dei quali ci ripariamo,
con un fazzoletto scarlatto asciughiamo il sangue per non vederlo
con uno bianco le lacrime per non piangere.

Con un passo più lungo commettiamo la stanchezza, a che cosa?,
la rosa in un vortice repentino scopre la primavera in un deserto
e le stagioni si salvano dai cannoni ma non dagli sguardi degli uomini
che forse esistono sulla terra per uno scompenso di menzogne
come il vento in un dislivello barometrico.
Asciughiamo le lacrime anche con le parole,
con la fucileria più fitta, con gli amici che salgono le scale.
E inventiamo d’andare a letto, per inventare qualcosa,

mentre sentiamo che la vita divaria dalla morte
veramente, non c’è dubbio, ma siamo stanchi lo stesso,
come quando stanchi della musica ascoltiamo solo gli strumenti.

15 aprile 1944

 

INNO PRIMO

Se è durare o insistere, non oso,
le miche ancora splendono, o s’oscurano,
i paesi ritornano visioni,
il falco che ha predato a lungo i cieli
su un abbaglio di messi, di deserti,
di vetri dietro cui spiano fanciulli,
è morto sulla strada impolverata.

Nella memoria quello che d’eterno
s’intorbida o si schiara, non tentarlo:
segui le tracce lievi, le più rare,
il fil di fumo, l’allegria di un merlo;
non puoi tenerlo, e pure ti sostiene,
l’abisso disperato per cui speri,
e se è un vuoto lo ieri, un vuoto quello
che al tuo occhio s’illumina, ma, vedi,
fiorisce, si diffonde, cretta i massi
più densi, si dirama, esplode, è quello
che diroccia il futuro e ti fa strada:
le valli si riempiono del suono
delle valanghe, si ripete il tuono
di giogo in giogo, è il fulmine che lapida.

Dove passasti ritornare è come
non più pensare d’essere, ma esistere:
ritrovare la strada, il vento torbido
della mattina che ritorna luce,
la rada gioia che infittisce se altra
gioia vi mesci, fine lieve gioia
d’un amore deciso, raccapriccio
d’un amore reciso: tutto, vedi,
ti abitua a distaccarti un po’ per volta
dal crudo magma che t’involge e soffoca.

Nella memoria è un che d’eterno, cedilo
cedilo alla memoria se rivedi
l’orto tornato al sole, se le labbra
ancora tormentarle riodi amore,
abbandónati a questo inconsistente
pulviscolo di cose e di pensieri,
abítuati all’inferno dell’effimero:
ieri è già eterno se altro tempo cade
dal suo cielo e vi porta visi, cose
fuggiasche nella loro lenta traccia;
questa la loro libertà: seguire
lievi il declino, dirizzarsi dentro
la loro gravità che le raccoglie
e le figge quaggiù dentro la ghiaccia
senza un grido; ma è un cielo che si semina
e si rapprende qua dove la brina
non regge, dove migrano le nuvole,
sui campi in cui la neve già s’incrina.
E già il tempo scolpisce fitto e lieve
il suo passato, l’impeto suo incupa
le forre, arrossa le orbite stellari,
strappa dai casolari qualche squilla,
e le erme se hanno un volto, è un volto ambiguo:
non volgerti di qua, la strada è quella
dove io non sono, dove tu non sei,
dove parla più arguto il vento esiguo.

13 – 22 febbraio 1953
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Nino De Vita, nello scrigno della parola

Nino De Vita

MARTINU

Parlai ra luna.
Eramu una ricina,
nterra, aggiuccati,
a ggiru, nno jardinu.

Parlai ru bbiancu
ra luna;
ri màculi nno bbiancu
ra luna; ra luci
chi scoppa ri nna luna.
Ascutàvanu a mmia
taliannu ’a luna.

Cc’era Martinu,
’u picciriddu ch’avia
l’occhi astutati, nzèmmula
cu nniatri:
stava cu ’a testa calata,
’i manu ncapu l’erva
chi spuntava.

Parlai ra luna,
tunna e a fàuci;
ra mezzaluna;
ru jocu ra luna
chi s’ammuccia nne nèvuli
e s’affaccia…
E a ccorpu Martinu
mi firmau.
“È bbedda”
rissi “ ’a luna!”

MARTINO. Parlai della luna./ Eravamo una diecina,/ per terra, accovacciati,/ a giro, nel giardino.// Parlai del bianco/ della luna;/ delle macchie nel bianco/ della luna; della luce/ che viene dalla luna./ Ascoltavano me/ guardando la luna.// C’era Martino,/ il bambino che aveva/ gli occhi spenti, insieme/ a noi:/ stava a testa bassa,/ le mani sull’erba/ appena nata.// Parlai della luna,/ tonda e a falce;/ della mezzaluna;/ del gioco della luna/ che si nasconde fra le nuvole/ e riaffaccia…/ E all’improvviso Martino/ m’interruppe./ “È bella”/ disse “la luna!”

 

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Antonio Fiori, “I poeti del sogno”


Kevin Stafford
(Limerick 1941 – Dublino 1989)
Chi devo ringraziare per questa notte insonne
che senza luna splende di mistero?
È lei a tenermi sveglio in queste ore
– il suo volto dolce che riappare
sottratto al tempo che impietoso scorre.
È lei che ho accanto proprio ora
– la sua pelle, bianchissima nel buio
per miracolo è intatta, l’accarezzo.
È lei che canta la melodia che sento
– da un’altra età mi giunge ricantata.
Se mi chiedessero – quando vuoi morire?
risponderei che lo vorrei adesso.

1980

*
Estella Ruiz Blanco
(Valencia 1510 – Madrid 1554)
Nella notte furiosa
nessuno mi vedeva
ché torcia non portavo
e un manto mi copriva.
Ma non temevo nulla
perché nel cuore avevo
– e certo mi bastava –
la sua luce accesa.
1552
Irma Indovina
(Terracina 1910 – Roma 1948)
La tua primavera
Il tepore che ti ruba al presente
con calma ti prende e seduce
– soltanto alla sera ti lascia.
Attendi ogni volta un’altra primavera
e invece la stessa ripassa.
L’afrore lentamente evapora.
1938

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Fernanda Pivano e Edgar Lee Masters

Fernanda Pivano

Fernanda Pivano, nome tutelare della Beat Generation in Italia, cominciò la sua attività letteraria sotto la guida di Cesare Pavese, nel 1943, con la traduzione dell’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters. Un libro considerato scandaloso per quei tempi, che divenne, con la pubblicazione, un grande successo editoriale.

Il racconto di Fernanda Pivano a Luigia Sorrentino

“Cesare Pavese [n.d.r. professore di comparatistica della Pivano], un giorno mi lasciò in portineria alcuni libri: A Farewell to Arms di Hemingway, A Storyteller’s Story di Sherwood Anderson, The Leaves of Grass di Walth Whitman e, coperta da una carta da imballo arancione, di Edgar Lee Masters l’antologia di Spoon River. Avevo aperto il libro a caso e mi era capitata la poesia con l’epitaffio di Francis Turner. E lo tradussi così.”

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Davanti agli occhi c’è un ponte

davantiQuesto tempo, con le sue lotte e i suoi drammi brucianti, può lasciarci nuovamente indifferenti, intrappolati dal benessere occidentale nell’esilio indifferente delle nostre coscienze; o anche la crisi umana più profonda, il dolore e l’esilio possono essere il primo punto di partenza per lanciare un ponte. E la parola, con la sua “temperatura del fuoco” (così Mario Luzi in Ipazia), può preparare il terreno per costruire ponti, dialoghi, incontri tra uomini e culture. I poeti, come diceva Clemént, possono gridare al mondo intero quando l’ossigeno nei polmoni si sta esaurendo. Con questa piccola antologia vogliamo tentare, se pur con tutta l’umiltà di una consapevole approssimazione, di rimettere a tema i fondamenti della nostra esperienza umana: a parole, come si addice ad un tentativo letterario, ma con tutta l’energia e la libertà che il fuoco della poesia porta ancora dentro, come una promessa”

(dall’introduzione di Massimiliano Mandorlo) Continua a leggere